Il nome di questa città, Al-Qahira (“La Vittoriosa” o qualcosa di analogo), è legato all’impero degli sciiti Fatimidi che la fondarono nel 969, califfato che si estese su tutta la costa mediterranea dell’Africa, dall’Oceano al Mar Rosso. Dominio che terminò nel 1171, quando il curdo Saladino divenne sultano d’Egitto.

La mattina di giovedì primo febbraio salutiamo “pigiamone”, il titolare dell’hotel Plaza perennemente in pigiama, sia a casa che in strada, e ci trasferiamo alla Pensione Roma dove la signora Annie che parla correttamente la lingua italiana, ci offre pasti buoni e abbondanti ad un prezzo conveniente. Anche i camerieri masticano la nostra lingua e l’ambiente è pulito e piacevole.

Usciti in strada, vediamo senza essere visti, Alcide e Paolo, i due liceali romani conosciuti al Museo Egizio, in compagnia di quattro coetanei italiani. Nell’incontrare la giovane figlia di un addetto consolare, probabilmente studente come loro alla scuola italiana del Cairo, con slancio ed impeto fanno il saluto romano, pronunciando a viva voce e all’unisono: “Camerati a noi! Viva il fascio!”. Sono seri, non stanno scherzando. Un’ostentazione plateale da figli di papà in trasferta, difficilmente tollerabile in Italia. Episodio che ci appare curioso, anche perché con noi i due studenti erano quasi timidi, molto controllati nei modi.

Passiamo per l’ennesima volta al Consolato italiano per vedere se il mio passaporto nuovo è pronto. Ormai siamo di casa tra queste mura e, dopo l’incidente del timbro scomparso, tutti sono benevoli nei nostri confronti. Mario e Loro, dell’ufficio passaporti, e la modenese Loredana mi sollecitano ad intervenire: “Protesti presso il Ministero degli Esteri per ciò che le è accaduto a causa della Grimaldi, così lei volerà più basso”, visibilmente soddisfatti perché ora si respira meglio al consolato. Improvvisamente la Grimaldi sospende l’arroganza con cui gestiva i nostri incontri fino a ieri. Ci dicono che due giorni prima sono stati seriamente rimproverati i poliziotti colpevoli di averci fatto trascorrere una notte in carcere e, la stessa polizia, il giorno prima ha messo sottosopra il consolato per verificare che il timbro non sia finito da qualche parte per distrazione. Un anziano e loquace impiegato, mai visto prima, si presenta a noi come fascista “all’antica”, della prima ora, amante dei bordelli, il quale non ha problemi a definire la Grimaldi “una donna odiosa, alcolizzata e pazza”. Vuole che mi segni l’indirizzo esatto a cui rivolgermi per protestare: Dott. Ferraris, direzione generale del personale, per dirgli che destinino all’estero delle persone che sappiano rappresentare l’Italia, che ci tutelino e non che mandino in galera i connazionali. A me poco importa dei loro contrasti interni, chiedo solo che mi venga dato il passaporto nuovo in fretta, in caso contrario comincio a sentirmi agli arresti domiciliari al Cairo.

Usciti dal consolato andiamo alla ciaieria in Opera Square a fumare un buuri, il narghilè con tabacco mescolato al miele dal sapore ovviamente dolciastro. Ci dicono che è il fumo popolare, dei poveri, mentre la cosiddetta shisha è il tabacco grosso preferito dai cosiddetti “aristocratici”, più caro e secondo noi anche meno buono. In qualsiasi punto uno si sieda, basta urlare “tè” e il cameriere corre a servirti. Ma lo spettacolo è nella banca di fronte a noi, con l’anziano poliziotto di guardia davanti all’ingresso che, seduto su di uno sgabello ed il mitra Kalashnikov appoggiato al muro, disinvolto e visibilmente soddisfatto, sta facendo la maglia ai ferri. Una visione che da sola merita le fatiche del viaggio. Non male neppure il signore con sedia e tavolino sul marciapiedi che, con mimica da erudito, legge e scrive le lettere per gli analfabeti in cambio di un piccolo compenso. Al momento di pagare la consumazione chiedono sempre il baksis, mai visto un Paese così spudoratamente attaccato al baksis, lo chiedono per ogni cosa, fanno addirittura fatica a dare il resto.

Ripassiamo poi dalla posta per acquistare alcuni francobolli e notiamo che anche oggi, come ieri e probabilmente sempre, alle 19 l’impiegato chiude puntuale lo sportello in faccia ad una decina di persone ancora in fila. Oggi piove ed emerge un altro dettaglio curioso di questa città: strade allagate e invase da fanghiglia a causa di un sistema fognario insufficiente.

La mattina di lunedì 5 febbraio andiamo subito a farci fare una dozzina di fototessera utili per la richiesta dei visti nelle varie ambasciate. Dal fotografo conosciamo un cuoco egiziano innamorato dell’Italia, che vive a Roma da cinque anni per cui appena gli raccontiamo che oggi vogliamo festeggiare il nostro primo mese di viaggio da Modena, trascorso tra Napoli, Malta e soprattutto Cairo, si offre di prepararci una delle sue prelibate cene all’italiana che comunque non farà mai. Era solo per dire. In compenso, andiamo tutti in un negozio-bar che vende alcolici dove, sempre il cuoco, ci consiglia di ordinare una bottiglia di Omar Khayyam, vecchia di anni. Il bottegaio ripete per tre volte che “picchia alla testa come il Chianti”. Un eccellente vino rosso egiziano, poco noto e non caro perché i musulmani in genere non bevono alcolici, mentre per noi è perfetto per festeggiare.

Gli incontri piacevoli della giornata continuano alla pizzeria italiana dell’Hilton, con la coppia di anziani e simpatici professori svizzeri, pure loro dichiaratamente innamorati del nostro Paese e in particolare dell’Emilia-Romagna coi quali, mentre Aldo è a giocare al Casinò dell’hotel, condivido una lunga e appassionata conversazione sul valore di apprendere viaggiando. Mi assento per andare in bagno e al ritorno al tavolo vedo che hanno posto una banconota da dieci pound sotto il mio piatto. Al tentativo di restituirli, mi hanno sinceramente pregato di tenerli: “Vogliamo essere in qualche modo partecipi. Considerali un nostro contributo ai vostri progetti di viaggio che ammiriamo per lo scopo ed il coraggio”. Non abbiamo bisogno di denari, tuttavia il gesto mi imbarazza e commuove per la sentita partecipazione dei due sposi di Losanna. Prometto che a Cape Town faremo una cena in loro onore.

Mercoledì 7 febbraio, nostro ventiseiesimo giorno al Cairo, il rinnovo del mio passaporto non è ancora pronto, i tempi si allungano oltre il previsto per cui siamo costretti a revocare per tempo sia la prenotazione del treno per Luxor che quella della nave da Aswan a Wadi Halfa sul lago Nasser, rimettendoci il 60% del costo totale di ogni biglietto. Siamo incazzatissimi!

Nell’uscire dalla stazione ferroviaria assistiamo ad una furibonda ed interessate lite tra due smilzi signori in tunica, quando uno di questi in un lampo scarta una lametta da barba dal suo involucro e minaccia di usarla come fosse un coltello. È un’arma di difesa tascabile, diffusa da queste parti simile ad un rasoio.

Giunti al consolato ci lamentiamo con il consigliere Garofolo reclamando il rimborso delle spese extra sostenute per il ritardo nella consegna del nuovo passaporto, dovuto prima ad un timbro scomparso, poi alla mancanza dei passaporti a cui si aggiunge la notizia del momento che il telegramma di prassi alla questura di Modena dopo otto giorni non è ancora stato spedito. Troviamo un alleato nel funzionario signor Borei, il quale ci informa correttamente che esiste un sussidio a disposizione dei connazionali per situazioni analoghe a questa. Il giovane e altezzoso console Visconti in questi ultimi giorni si fa negare, ci dicono però che oggi lavora nell’ufficio commerciale al 21° piano del grattacielo Belmont, vicino all’ambasciata, così decidiamo di fargli una sorpresa. Saliamo, apprezziamo il bellissimo panorama del Cairo dall’alto, ma Visconti si fa negare di nuovo. Dopo aver valutato la situazione sorseggiando un bicchierino di thè al bar del terzo piano, andiamo direttamente all’Ambasciata dove ci facciamo annunciare dalla segretaria dell’Ambasciatore per avvisare di avere pronto un esposto di protesta da spedire al Ministero degli Esteri, nella persona del dott. Ferraris, contro Visconti e la Grimaldi. Per pura combinazione Visconti è presente in fondo all’ingresso e sente della nostra richiesta. Di colpo diventa pallido e teso, visibilmente in preda al panico blocca la segretaria e si rivolge a noi con voce implorante: “Esposto? Datelo a me, lo spedisco io”. E quasi tremando minaccia: “Se andate dall’Ambasciatore io non vi aiuto più, me ne lavo le mani”. Visconti tiene tantissimo alla carriera diplomatica ed ha una paura immensa di essere rimproverato per il suo operato: “Appena arriva il telegramma vi faccio subito il passaporto nuovo, fosse anche mezzanotte”. E termina con un viscido: “Ho la massima simpatia per voi”. Non si capisce mai se dice la verità, sempre pronto a scusarsi o ad incolpare qualcun altro, una tipologia di persona molto distante dal nostro modo di intendere la vita. Ci lasciamo con la promessa che il giorno dopo ci consegnerà un sussidio speciale per il disagio e le spese da noi sostenute a causa di contrattempi istituzionali.

Andiamo ora a distrarci e a curiosare all’Istituto Italiano di Cultura che si trova dietro la scuola Dante Alighieri, sulla Ramses Street all’altezza del Tribunale, molto frequentato dalla nutrita comunità italiana del Cairo, compreso i funzionari del Consolato e le rispettive famiglie. Questi istituti sparsi per le principali città dei cinque continenti sono un ideale luogo di incontro e di dialogo per funzionari, impiegati, operatori culturali, ma anche per semplici cittadini, sia italiani che stranieri, che vogliono instaurare o mantenere un rapporto con il nostro Paese. Una vetrina dell’Italia ed un punto di riferimento essenziale per le collettività italiane all’estero.

Al suo interno c’è una sala giochi con biliardo a bocce ed anche un ottimo ristorante, pulito e non caro, aperto a pranzo e cena. La tabella alla parete dice che al giovedì si gioca a tombola, al sabato c’è il ballo e alla domenica si proietta un film. Anche questa, come in tante altre Case d’Italia nel mondo, è frequentata da tantissimi ex nostalgici di Mussolini, messaggeri di eventi e di una mentalità d’altri tempi. Il suo direttore, Giuseppe Dilernia, lo dichiara con enfasi: “Noi camicie nere, prima della guerra, eravamo i padroni del tempo dell’oro”. Esprime un entusiasmo patetico, fuori dal tempo e dalla storia: “Il fascismo è simile al socialismo, ma più nazionalista e virile”. La consapevolezza che noi veniamo da Modena, una città nota per la sua storia antifascista, spinge Giuseppe a cercare qualcosa che ci accomuni per cui aggiunge: “Il fascismo si preoccupava di farci star bene tutti e tutti ci rispettavano, ora invece, kaput!”. Ormai è partito a ruota libera e deve dar sfogo ai suoi pensieri: “Prima della guerra non c’erano tutti questi problemi e leggi, bastava arrivare in un Paese e potevi aprire un negozio anche se italiano o straniero. Ora solo gli egiziani possono farlo e lo fanno male, vogliono fare da soli, come l’Iran, e vanno a finire in niente”. Termina alludendo ad una vaga proprietà italica: “Ricordiamoci che il Cairo fu fondata dai nostri antenati, il primo insediamento in città fu un fortino romano nel 150 d.C!”. La sensazione generale è quella di persone che vedono gli egiziani come una sottospecie. Lentamente si aggiungono alla conversazione altri residenti italiani, tutti un po’ esaltati e smarriti, con la testa ferma ai tempi del Duce. È presente anche l’impiegato consolare Borei con la sua signora, il quale, con occhi lucidi dalla commozione ed una vaga allusione a noi modenesi sentenzia: “Sono sicuro che anche un comunista vedendo il mausoleo dei morti ad El Alamein gli viene da piangere”. In effetti, quella battaglia nel Nordafrica del ‘42 rimane una delle rare testimonianze di gloria dei nostri soldati, che tennero la posizione e la difesero fino all’ultimo mentre gli alleati tedeschi si ritirarono. Ma poi Borei, di colpo rovina l’enfasi creatasi con un aneddoto pietoso quanto ridicolo: “Nei campi di concentramento gli inglesi ci lasciavano le camicie nere ed un manganello di plastica, di quelli delle fiere perché senza manganello la camicia nera non può stare. Ai graduati davano anche la fondina con una pistola ad acqua”. Borei lo descrive come un vanto ma per noi è una grande umiliazione. E aggiunge: “Parlo con voi perché capisco che non siete né brigatisti né drogati”. Un siparietto grottesco ma, in verità, quando si viaggia le barriere ideologiche crollano per trasformarsi in desiderio di ritrovare una comune identità nazionale attraverso la solidarietà e la narrazione delle proprie vite. Vivere in terra straniera cambia la prospettiva delle relazioni fra connazionali. Questo concetto sulla generosità italica piace a Borei che, da impiegato consolare, aggiunge: “Gli stessi sussidi elargiti dalle sedi diplomatiche italiane fanno sentire i nostri connazionali protetti dovunque, difficilmente ottengono eguale assistenza i viaggiatori degli altri Paesi europei e nordamericani”.

Si unisce a noi il signor Mamone di Terni, rappresentante di macchinari enormi per la lavorazione del marmo, il quale lamenta le difficoltà che riscontra con gli operai egiziani in quanto fumano in continuazione hashish: “Una sostanza costosa ma alla quale non rinunciano, piuttosto non mangiano ma quello sempre... sono tutti svampiti, non gli frega niente del lavoro e di apprendere”. E conclude: “Per fare un impianto in Italia occorrono tre mesi, qui non bastano tre anni”. Parlando di donne, Mamone sostiene che al Cairo non è difficile avere qualche avventura occasionale: “Bisogna avere un luogo dove stare e fare tutto di nascosto”. Sottolinea però che gli uomini egiziani sono molto gelosi e tutti si arrogano il diritto di controllare gli stranieri come fossero dei poliziotti: “Quando due ragazze si fermano a parlare o a darti appuntamento significa che sanno che tu hai un posto dove andare. Non si fermano per niente, non si compromettono casualmente, sanno bene che a fermarsi con degli stranieri la gente le vede e può essere pericoloso, quindi, se accettano è perché sono consenzienti”. Lo smentiscono Franco e Vittorio, due simpatici ragazzi di Ferrara che stanno lavorando alla costruzione dell’Holiday Inn vicino alle Piramidi: “Sono cinque mesi che siamo qui, giù di testa perché senza una donna”.

I coniugi Borei tra un bicchiere e l’altro diventano sempre più loquaci per cui ci tengono bloccati a chiacchiere per ben quattro ore. Conversazione interessante che, con mille dettagli e aneddoti, ci aiuta a comprendere meglio lo scenario del Cairo dal punto di vista dei residenti italiani. Per lei Giorgio Almirante, segretario del partito MSI d’ispirazione neofascista, è un bell’uomo, mentre lui si vanta di fare la bella vita al Cairo, servito e riverito come un nababbo: “In Italia mi sarebbe impossibile”. Come esempio, confida: “Ogni mattina entro nella vasca da bagno e mi faccio lavare da una giovanissima cameriera”. E conclude: “La stessa poi mi asciuga e mi massaggia, spesso anche in presenza di mia moglie”. Sembrano i fantasiosi racconti dei primi colonizzatori in Estremo Oriente, mentre qui siamo in Egitto e nel 1979.

Nel ristorante del circolo, dove si mangia meglio che all’Hilton, iniziamo a parlare con due ragazze romane venute al Cairo per studiare arabo, le quali raccontano entusiaste della loro recente escursione nel deserto, ospiti in una tendopoli di ex predoni. Ci invitano nel loro appartamento in affitto che condividono con altri cinque studenti. Un paio di questi sono appena tornati da un viaggio nel Sud del Paese e riportano che gli uomini ad Aswan, per strada palpano il sedere sia alle donne che ai ragazzi, specie se occidentali. Ai biondi fanno addirittura il versetto e mandano bacetti e strizzate d’occhio come si fa da noi con le ragazze.