Parlare d’arte sacra è sempre un’ottima occasione non soltanto per avvicinare e capire straordinarie opere artistiche (per meglio apprezzarne il valore e goderne appieno la bellezza), ma anche per cercare di cogliere il loro significato simbolico, che illustra efficacemente le splendide realtà spirituali della nostra Fede cristiana. Con la sua acuta intelligenza già Papa San Paolo VI aveva colto il valore centrale del rapporto tra arte e religione: vale a dire quello di “rendere visibile la bellezza invisibile delle realtà celesti”.

Straordinariamente bella e importante è la Pala di Brera o Pala Montefeltro (databile circa al 1472) di Piero della Francesca (Borgo Sansepolcro, Arezzo, circa 1415 – ivi 1492), altrimenti detta Sacra Conversazione, conservata nella Pinacoteca di Brera a Milano (tavola di 248 x 170 cm). Il titolo di “Sacra Conversazione” ritengo colga nel segno il profondo significato dell’opera, che richiama sia il piacevole stare insieme (umanamente) dei personaggi del gruppo - seppur quasi cristallizzati e resi solenni dalla luce tersa, immobile, potente che li attraversa - e sia l’alto significato di amicizia (in senso verticale) e di intima comunione con Dio che vi è tra loro. L’atmosfera che ci troviamo davanti ci ricorda che non siamo più stranieri né ospiti, ma “concittadini dei santi e familiari di Dio” (Efesini 2,19); ben sapendo che Cristo ci ha assicurato che “non vi chiamo più servi, ma amici” (Giovanni 15,15); perché “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (Matteo 12,50).

Ed è anche molto bello questo stare insieme tra uomini viventi e Santi e Angeli del cielo, per farci capire che – pur nella somma e incondizionata libertà dell’uomo – terra e cielo non sono poi così distanti. Del resto, lo stesso Concilio Vaticano II ci ricorda che “la società costituita da organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, la comunità visibile e quella spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse, ma formano una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino” (“Lumen Gentium” n. 8 a).

Interessante anche la testimonianza di molti grandi Santi che, prima di morire, hanno promesso di essere ancora più vicini e utili ai loro compagni (vedi, ad esempio, San Domenico o Santa Teresina di Lisieux, la quale affermò: “Voglio passare il mio paradiso a fare del bene sulla terra”). Infatti (ancora una volta giunge appropriato l’insegnamento del Concilio Vaticano II): l’unione quindi dei pellegrini “coi fratelli morti nella pace di Cristo, non è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali. A causa, infatti, della loro più intima unione con Cristo i beati rinsaldano tutta la Chiesa nella santità, nobilitano il culto che essa rende a Dio qui in terra e in molteplici maniere contribuiscono ad una sua più ampia edificazione” (“Lumen Gentium” n. 49).

Proseguendo il nostro tentativo di interpretazione del dipinto, decisamente dall’architettura monumentale e dal taglio prospettico sontuoso (al di là di notazioni e rilievi più stilistici e tecnici), nella parte destra del dipinto è ritratto Federico da Montefeltro inginocchiato (ripreso, come di consueto, dal fianco sinistro, con deposto l’elmo e lo scettro di comando, in atteggiamento più umile) insieme ad una schiera di Angeli e Santi, con i simboli iconografici caratteristici: (da sinistra) troviamo San Giovanni Battista, San Bernardino da Siena (santo titolare proprio della Chiesa di Urbino ove era custodita inizialmente la pala d’altare), San Girolamo, due Angeli, poi la Vergine Maria in trono con il Figlio dormiente, altri due Angeli, San Francesco d’Assisi, San Pietro Martire e San Giovanni Evangelista. Dunque, in tutto abbiamo tredici personaggi: sei Santi, quattro Angeli, Maria con Gesù e il committente Federico.

Sono però simbolicamente presenti anche altri due personaggi: il figlio di Federico, Guidobaldo (24 gennaio 1472) e la moglie Battista Sforza (morta proprio il 6 luglio dello stesso anno). Ma dove sono? La somiglianza della Vergine con Battista Sforza potrebbe far pensare che Maria – la madre celeste – abbia le sembianze della moglie che tradizionalmente, in queste tipologie ritrattiste, dovrebbe trovarsi di fronte al marito (come è nella celebre e bellissima opera dei ritratti dei coniugi di Montefeltro, dipinta sempre dall’intimo amico Piero tra il 1472 e il 1474). Mentre Guidobaldo potrebbe “incarnarsi” nella figura stessa di Gesù bambino. Vediamo alcuni elementi a sostegno dell’ipotesi. Prima di tutto, il tema familiare e spirituale del dipinto si riferisce al 1472: anno cruciale – nel bene e nel male – per Federico, infatti, quell’anno fu “mirabile e tremendo”, in quanto ebbe il suo sospirato erede, ma perse, alcuni mesi dopo, l’amatissima consorte. È anche probabile che il dipinto – oltre a riferirsi a quell’anno nella vita del mecenate – venne dipinto di lì a poco, in quanto se fosse stato dipinto – come da alcuni ritenuto – nel 1474 o successivamente, Federico sarebbe apparso, nella sua veste ufficiale, anche con lo stemma dell’Ordine dell’Ermellino del re Ferdinando I di Napoli e dell’Ordine della Giarrettiera conferitogli dal re Edoardo IV (entrambi i riconoscimenti, unitamente a quello del titolo ducale di Urbino, vennero infatti conseguiti nel 1474).

Tornando al tema centrale – della devozionale dedica dell’opera alla nascita del figlio ed alla morte della consorte (coniugando in tal modo i sentimenti religiosi con i principali affetti terreni) – una prima traccia la troviamo nel sonno del Bambino, il quale è un simbolo ambivalente: della prefigurazione della morte e passione di Cristo, ma anche della sua superiore regalità, perché “ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Corinzi 1,25), e Gesù nel sonno, protetto dalla Madre, è più forte che l’uomo nella veglia; inoltre: “Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa” (Marco 4,26-27). Altro simbolo che allude al misterioso legame tra “morte-vita” del dipinto è il ciondolo di corallo appeso al collo del Figlio, segno del sangue come principio di vita e pericolo di morte (“poiché la vita della carne è nel sangue”, Levitico 17,11, per cui il divieto di “toccare il sangue” – con buona pace dei Testimoni di Geova – vuol dire tutelare la vita). Interessante, poi, l’uovo centrale appeso alla conchiglia (che, per alcuni, potrebbe essere una perla, che – in omaggio alla Vergine - si credeva fosse generata senza alcun intervento maschile), con una nota simbologia di nascita e rinascita, ma anche dell’ordine cosmico basato sulla chiarezza razionale.

Un altro aspetto mi sembra centrale e convincente: il primo e l’ultimo Santo della nobile schiera celeste sono due Giovanni, quello di sinistra il Battista e l’ultimo a destra l’Evangelista, come dire che lo stesso nome apre e chiude la celeste compagnia (con l’ulteriore precisazione che la loro festa ricorre per il primo il 24 giugno, vicino al solstizio d’estate, e per il secondo il 27 dicembre, vicino al solstizio d’inverno, quasi a richiamare la totalità dell’anno, come dire che morte e vita abbracciano tutto l’arco dell’esistenza; senza contare che nel simbolismo ermetico i solstizi favoriscono il contatto per gli uomini tra mondo terreno e ultraterreno). Infine, è da notare che San Giovanni Battista (che tra i nati di donna nessuno è più grande di lui, Matteo 11,11), è in pratica l’unico Santo di cui si festeggia sia il “dies natalis” (come per tutti i Santi) nel giorno della morte, il 29 agosto, giorno della sua decollazione, e il giorno di nascita, appunto il 24 giugno, come a dire che morte e vita sono compresenti misteriosamente nella vita dell’uomo. Perché: “Se davvero volete scorgere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita. Giacché la vita e la morte sono una cosa sola, così come il fiume e il mare” (Gibran Kahlil Gibran).

In conclusione, l’algida forza di questo magnifico dipinto celebra la fusione di motivi più personali e di affetto familiare di Federico, con quelli di ordine più generale e religioso creando, nel sottile gioco dei rimandi e dei significati simbolici, un linguaggio essenziale per esprimere il fascino e il mistero della vita stessa; giacché: “Tutto ho visto nei giorni della mia vanità: perire il giusto nonostante la sua giustizia, vivere a lungo l’empio nonostante la sua iniquità… Non essere troppo malvagio e non essere stolto. Perché vuoi morire innanzi tempo? È bene che tu ti attenga a questo… perché chi teme Dio riesce in tutte queste cose” (Qoelet 7,15.17-18). E l’elmo ammaccato dal combattimento per il comando temporale di Federico, deposto ai piedi della Madonna, ci ricorda infine che: “È meglio la sapienza della forza… Meglio la sapienza che le armi da guerra, ma uno sbaglio solo annienta un gran bene” (Qoelet 9,16.18).