Il suo corpo alla fine era senza spazio, senza tempo. L’inorganico. Il mistero della creazione artistica è possibile solo perché tutto il resto è stato condotto con un’idea precisa della propria perfezione.

(Jean Paul Manganaro, Oratorio Carmelo Bene)

Quello di Carmelo è l’ultimo pensiero-visione sull’arte e sulla vita che il mondo abbia visto apparire…è l’intellettuale nolente se stesso, ma non alla Eco e non alla Pasolini o Gramsci, ma in quanto intus legere dentro al corpo quale scena, quale orizzonte e quale devastazione.

Non vuole… eppure appare come uomo-ponte, uomo corda teso fra abissi: mediare tra la maschera della Grecia antica e l’individuo assoluto di Stirner. La storia non interessa a Carmelo, a lui interessa dell’umano l’eccessivo: il patologico e il mistico, l’ek-stasis… cioè il farsi da parte, il cedere il posto all’Altro…

Non ci può essere storia del teatro come non ci può essere storia della mistica perché il teatro è un non luogo, un non tempo e, come la mistica, sono vie di uscita dal mondo, dal tempo, dalla rappresentazione.

Non vuole rappresentare né spiegare nulla. Mostra un percorso di vita che si fu voce, opera. Esprime l’essenza del tragico e del lirico:

La vita è solo un’ombra che cammina:
un povero istrione,
che si dimena, e va pavoneggiandosi
sulla scena del mondo, un’ora sola:
e poi non s’ode più.
Favola raccontata da un’idiota,
tutta piena di strepito e furore,
che non vuol dir niente.
Non ci sono storie tragiche, le storie sono tutte dementi.

Così il racconto esaltato di Mercuzio sulla Fata Maab: un’esaltazione che gonfia il nulla, l’inesistente… un virtuosismo di atti retorici assoluti. La sua Opera: verticalità dell’esserci e del non esserci, l’istantaneità… Assume i paradossi dell’esistere, del nostro essere precari, condannati a morte, sospesi, incerti, ambigui. Assume l’essere nel mondo ma senza appartenere al mondo. Farsi Opera…bypassare il mondo cioè la volontà e la rappresentazione (Schopenhauer).

L’essenza musicale dell’esistere. La nascita della tragedia. È un canto sirenico e post-sirenico dello svanire delle cose e di se stessi in una musicale incoscienza. Il teatro diventa star male in scena, cruda autenticità. Esce da se stesso quale finzione.

Le ragioni del Non Esserci. Non essere nel passato – il testo. Non essere nel presente – i ruoli, la sociologia, la psicologia. Non essere nel futuro – la morale.

Il soggetto viene ridimensionato ad un soggetto bambino, diffuso, quasi oggettuale, è il sub jectum in mezzo all’ob-jectum, all’ostacolo che vanifica l’intenzione rappresentativa e permette l’Opera…

No alla coscienza e all’intenzione. La musica è intraducibile non ha intenzione, è intransitiva. Non posso tradurre Puccini in Verdi. Non re-citare ma mostrare il proprio deserto. Agere è semplicemente il dire il dire che vanifica il detto.

La macchina attoriale è il farsi inorganico, soggetto policentrico, l’eludere ogni mediazione, generare ostacoli e inciampi all’attore, vanificare l’azione, fare deserto per la Voce…la phoné.

La poesia dell’assenza, del deserto, della Voce che risuona e canta nel deserto in cui si è trovata ad abitare…

Il compito primo di ogni autore è far fuori se stesso. Questa ossessione di Carmelo per l’andare oltre l’ego e l’individuo è essenziale e vitale oggi nel villaggio globale dell’applauso e del narcisismo di massa, nella prigione del mutuo riconoscimento. La sua è un’arte di flusso e di immediatezza, come l’Ulisse di Joyce.

La poesia Lo Scherzo di Leopardi. Non c’è tempo per costruirsi propri strumenti accurati. Massimo artificio per una massima immediatezza…

Carmelo esce dal tempo, entra in aiòn, e si inventa una sua arte. È un Leopardi in salute e in continua fuga, senza l’umidità sentimentale e senza il ripiegamento…puro canto…pura assenza… È uno stare tra tedio e ozio, fra incanto e disincanto.

Carmelo non crede al teatro quale finzione, alla catarsi del normale teatro di immedesimazione… è un odeon… un vedere la Voce…

Carmelo estende il teatro al tutto, senza confini, e lo fa implodere come un buco nero in questa pratica della non appartenenza.

Solo il Kundera dell’Insostenibile leggerezza dell’essere può stare vicino alla visione di Carmelo, cioè la vita quale teatro ma nel senso dell’effimero, dell’irreparabile, della vita quale improvvisazione in un luogo che non ci appartiene, quale perenne ritardo del pensiero e della coscienza sul fatto e sul corpo (Nietzsche).

Non abbiamo scelto noi questa vita, questo corpo… Inizio del romanzo di Kundera: eterno ritorno di Nietzsche. In Carmelo: ritorno ma del singolo, del differente… del diseguale…

La constatazione semplice di Shakespeare viene assunta in senso tragico e lirico e non in senso commediale. Nietzsche va letto alla luce di Carmelo che lo supera. Non lascia pezzi di carta ma mostra il corpo e lo consuma… Possiamo comprendere Carmelo nel senso fisico dell’abbracciare la sua opera, la sua voce. Ma non capirlo nel senso di capienza, di ridurlo in un cassetto.

Per abbracciarlo meglio occorre ricordare alcuni nomi in tremila anni di eccessi dell’umano e di tentativi di uscire dal mondo: il pensiero filosofico di Marco Aurelio, la poesia di Holderin, Byron, Wilde, Laforgue, Dino Campana, la musica di Donizzetti, Rossini, Bellini, Verdi, la ritmica di Metastasio, il trovatore Francois Villon, il Pinocchio, la Santa Cecilia di Raffaello, i quadri di Bacon, le sante mistiche del Bernini.

È Saturno che divora i suoi padri… nomi che sono fantasmi con cui Carmelo parla e si fa parlare e rivive in quanto Carmelo riscrive ad esempio Shakespeare perché rifiuta il suo tempo e si considera sempre inattuale e quindi presente… la sua opera è un conversare silente tra fantasmi mediante il corpo e la voce… opera in formazione verso l’atto assoluto - una sacra conversazione tra oggetti.

Carmelo ama gli estremi: i santi più folli come Angela da Foligno e Maddalena de Pazzi e gli artisti che eccedono il loro tempo e il corpo stesso come Bacon e Bernini.

Similmente sceglie personaggi estremi nelle Interviste Impossibili di Ceronetti: Montezuma, Tutankamon, Nostradamus, Marat, Attila, Jack lo squartatore, Ludwig di Baviera. Un teatro quindi senza spettacolo, senza intrattenimento né evasione né riconoscimento. Indispensabile nell’orgia dell’applauso e dello spettacolo.

Qui si cerca la non comprensione, il silenzio, la distanza… I ruoli e la coscienza sono la morte… È l’artista della fine del tempo e della fine dell’arte. V-olo. Tagliare lo filo – Marco Aurelio – marionette con fili invisibili. Una marionetta che brucia i propri fili, che li ingarbuglia. Il corpo quale assoluto, altrove, assenza. Il corpo abitato come assenza, l’ek-stasi, abbandono, il volo. Il de-pensamento.

Il corpo del Barocco quale sistema di artifici con dentro l’apparire del senso della grazia, del gratuito, dell’informale, delle forme torte (timpano spezzato, nuvole informi, colonne tortili).

Deus ex machina – macchina attoriale – dentro il quale: la grazia. La comparsa del senso dell’Altro, dell’Assoluto, richiamato per via d’artificio, d’invenzione.

Il corpo del lampadario di teatro amato da Baudelaire. Senso iniziatico, varco. Il corpo della marionetta – il gesto finale del Macbeth. L’organizzazione della voce e della scena quale grazia sufficiente di Pascal che attrae la grazia santificante.

Noi siamo corpo (Nietzsche, e solo corpo). Un corpo senza organi, disarticolato, diffuso, inorganico, Un corpo-flusso, smembrato, dis-individuato, quale musicalità. Che diventa scena, skene, tenda, aperta al vuoto e al vento.

Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

(E. Montale, da Ossi di seppia)

Genialità implica unilateralità, implica monomania…

(Bobi Bazlen)

Giorgio Agamben su Pulcinella:

Si può agire solo al di là o al di qua dell’azione, si può parlare solo al di là o al di qua della parola, si può vivere solo al di là o al di qua della vita.

Non si può fare letteratura con la letteratura, né musica con la musica addenda di C.B.: non si può vivere con la vita, la vita è invivibile.

(Tommaso Landolfi)

L’indicibile del vivere, di ogni scelta.

(Heinz Von Forster)

Nell'impero balsamico dell'orto
sei stata il pozzo
il secchio vuoto dell'acqua
la pergola ignorante i tanti fiori
bianchi delle robinie
dell'acacia
i frutti estinti nel tormento verde dell'erba
di tra i selci calpesta
lo stupore impietrato dei muri
melagrana rubina boccaperta
il petalo bruciato d'una rosa di te
tra cose cosa
procreare non è dar vista ai ciechi
è destare al tepore
perfido d'un istante un filo d'erba
che non è per lasciarlo appassire
in somigliar la fine sua immediata
al nostrano vanire dell'amore.

Noi non ci apparteniamo. È il mal de fiori
tutto sfiorisce in questo andar ch'è star
inavvenir
nel sogno che non sai che ti sognare
tutto è passato senza incominciare
me in quest'andar ch'è stato.

(L’mal de fiori))

La lingua di Carmelo non è linguaggio non è subire una colonizzazione è una lingua sorgiva caotica ibrida, minore, straniera usa l'occitano, il provenzale, termini arcaici mescolati con interruzioni improvvise, anacoluti, crasi, neologismi il testo della Pentesilea è una lingua-flusso d'immediatezza, tutta timbrica e ritmica mai descrittiva - ricorda l'Ulisse di Joyce e le laudi di Jacopone una lingua classica in senso calassiano: barbarica e neo-classica la lingua è corpo e voce in divenire, in torsione Carmelo ferisce il linguaggio, lo deforma, lo buca cerca e trova varchi tra pensiero e parola e li allarga non vuole riferire né informare la sua lingua è come le parole nell'opera lirica sta dentro la maschera greca, scura, natale è una lingua molto fisica molto orale, sorgiva che fa dimenticare, sirenica, aionica noi nasciamo ascoltando Dio crea con il suono separando le cose è ascolto assoluto è un dire... all'infinito un leggere quale oblio e quale primo grado di un rimembrare ma non rivolto verso il passato ma verso il futuro, in un non tempo che scorre dal futuro verso il passato è un continuo volo, salto, cortocircuito il tema dell’ Identità quale vedere/visione quale differenza.

Ogni singolarità è chiamata al compiersi quale assoluto.

C’è molto Aristotele nella sua entelechia nella visione totale dell’opera in Carmelo quale Opera.

Il teatro di Carmelo vanifica ogni riconoscimento e informazione, quindi, tende sempre a eludere e bypassare il tema dell’identità, vuotandola, moltiplicandola in un gioco di specchi, e ponendo al centro figura che diventa assoluto, centrali nella loro paradossalità quale Amleto e Achille quali uomini-limite-paradosso, che escono…

Le cose rimandano allo specchio e lo specchio alle cose. La favola di Narciso è una tragedia, non una commedia. Narciso non vede nulla: è lo stagno che vede se stesso tramite Narciso che lo specchio d’acqua non conosce!

La domanda scardinante di Carmelo sull’identità è questa: “Se l’attore è chi fa il personaggio, chi o cosa fa l’attore?”.

L’attore quando opera sulla scena non è più se stesso e non è neppure l’autore, Shakespeare, né è un pezzo di carta scritto. Carmelo abita questa zona di soglia, borderline, questo chiaroscuro. Questa fertile ambiguità. Tutto appare sospeso, senza decorso.

L’Achille suona e canta sulla spiaggia, davanti al mare, solo, come l’Achille di Pascoli che canta se stesso per obliare e differire la morte e quando lascia la cetra comprende per la prima volta il dolore che lo circonda e capisce che domani morirà.

Achille esce dalla guerra, cioè dalla storia, dal significato, da se stesso come il teatro di Carmelo esce dalla finzione, dal ruolo come Amleto si distanzia dalla recita della vita mettendola in scena.

Achille è il guardarsi continuamente in una prigione di specchi. Achille e Amleto sono i fanciulli senza tempo, che non vogliono crescere come Lucignolo, stanno nel loro tedio, nella loro in-vocazione, cioè nella loro musica (non e-vocazione).

Cantano il consumarsi delle cose, l’oblio, lo svanire.

Achille si schianta contro Pentesilea, come due programmi che si programmano e l’incontro è fatale perché accende la coscienza e la coscienza è morte, è distacco.

L’Amleto di Carmelo non ha alcun spessore politico o sociale e non ha dubbi nel rifiutare il ruolo del vendicatore, che è il ruolo della società e della storia.

Vuole restare nella soglia ambigua di chi non sceglie fra follia e saggezza, di chi non sa se sia sano o malato. La sua operazione di meta-teatro, di teatro dentro il teatro della vita, certo è operazione autentica ma in Carmelo è un’autenticità spietata, che non ha secondi fini o fini pratici (di riconoscimento del colpevole) ma serve a ritagliarsi uno spazio nel vuoto e nell’assurdo dell’esistere, che è più fantasmatico del fantasma del padre: in Carmelo colorato d’oro e che canta (è la recita della Storia) mentre il suo Amleto è pallido e spettrale…

Fellini e Carmelo sono due bambini, due ragazzini. Fellini va arretrare la camera da presa nelle quinte, lascia risuonare il rumore di fondo del mondo e lascia spazio all’incanto del primo sbocciare magico di eros, al rito dello spiare l’ignoto da una serratura.

Carmelo è un fanciullo più selvaggio, che disarticola e scardina la serratura e con essa il suo mondo. Non ha compiacimenti o ripiegamenti. Non sente i fantasmi: è esso stesso abitato da fantasmi.

La maschera di Carmelo non è la morale del corteo di maschere di Luciano, né la mascheratura morale e anti-morale di Pirandello. È la condizione post-edenica: il vestirsi è l’Eden perso per sempre.

La maschera è la negazione che rivela, l’antro scuro dove passa il vento di Phoné che non ci appartiene, sentire la propria voce come altra, farsi attraversare, la dis-individuazione, la spersonalizzazione.

Non c’è la sociologia e la morale di Pirandello, la sua amarezza per la fine della morale – la maschera è necessaria, non è sovrastruttura. Non deve decadere in feticcio, in ruolo, è una maschera vuota metamorfica, cangiante, fluida, abissale. Il tragico del cadavere li accomuna ma Carmelo oblia con la Phoné. La maschera è in corpo in mutazione, l’ombra fertile dentro la quale si ascoltano le voci.

Nessuna morale o amarezza contro le maschere, nel deserto.