Dopo una settimana dalla partenza da Modena, il 12 gennaio Aldo ed io atterriamo al Cairo via Malta. Il visto lo otteniamo all’aeroporto ma per evitare una calca di gente per ore sarebbe stato meglio giungervi con già il visto sul passaporto. Notiamo che sui passaporti degli egiziani maschi è inclusa la foto della moglie, come si fa da noi con i figli minori, un dettaglio sociale che ci indica di essere atterrati in un “mondo” diverso, per noi curioso e tutto da scoprire.

Al cambio, un dollaro USA equivale a 0.69 piastre di Pound egiziano. Saliamo sul bus rosso numero 400 che con 10 piastre ed un’ora di tempo ci porta direttamente al terminal in Tahrir Square, la piazza centrale dove si trova anche il celebre Museo Egizio e l’Hilton hotel, con alle spalle le acque del Nilo.

Finalmente un clima più mite, caldo di giorno e fresco di sera, anche se la gente usa coprirsi con soprabiti e cappotti pesanti. La prima impressione è quella di una città “trascurata” e ricoperta di sabbia. Qui tutto è color sabbia, fenomeno dovuto alla sottile arena del cosiddetto “red smog” del deserto che entra copioso nelle abitazioni, nei negozi e dovunque. Nella medesima piazza entriamo nel Government Building per farci registrare come da prassi per ogni straniero. Qui un sudanese molto socievole si esalta con mille esempi sulla proverbiale ospitalità che troveremo in Sudan, mentre sottovoce bisbiglia di non fidarci degli egiziani: “Anche coloro che si dichiarano amici, sono tutti ladri!”. Non è la prima volta che sentiamo questo tipo di avvertimento e per le strade ci aspettavamo gente aggressiva o invadente, invece sono tutti tranquilli, gentilissimi e nessuno disturba. Almeno per ora. Oggi è venerdì, festività sacra per l’Egitto e la gente usa radunarsi e pregare per strada, i negozi però sono tutti aperti, mentre restano chiusi la domenica pomeriggio. Da ex protettorato britannico, è sorprendente vedere nelle vie centrali del Cairo tanti negozi e aste d’antiquariato ricolme di stupendi mobili e oggetti d’epoca inglesi, ma anche francesi, italiani e turchi, a prezzi irrisori che farebbero la fortuna di chiunque in Italia.

Come prima notte al Cairo finiamo al decantato Youth Hostel vicino alla moschea Salah El Din, gestito e frequentato da boyscout della chiesa anglicana, pieni di regole rigide e piuttosto arroganti perché pretendono un rigore eccessivo, infatti, alle 23 suona la campana, spengono le luci e tutti a letto e guai a chi si muove! Inoltre, la struttura è sporca e lontana dal centro.

Non abbiamo il sacco a pelo e questa prima notte è caratterizzata da un gran freddo. Il panno assegnatoci è lurido e al mattino mi ritrovo con la gamba sinistra piena di bozze da punture d’insetto. Anche il cibo in questo ostello è poco invitante e a conferma un ospite svizzero tiene a sottolineare che dopo aver mangiato un piatto di riso ha avuto seri problemi di stomaco.

La priorità adesso è cambiare alloggio ed è un italo egiziano che ci indica il Plaza Hotel in Kasr El-Nil Street 37, dal nome altisonante ma comunque spartano, con camere decorose ricavate all’ottavo piano di un anonimo condominio a pochi passi da Tahrir Square. Il bagno è in comune ma le stanze sono ampie, pulite, con lavandino ed acqua calda, un bel balcone panoramico e la colazione inclusa per una cifra modica. Al cordiale titolare, che noi chiamiamo “pigiamone” perché è perennemente in pigiama, vendiamo per 10 dollari le due bottigliette di whiskey acquistate per 4 al duty free dell’aeroporto. Ne avrebbe pagati anche il doppio poiché ai musulmani l’alcool è proibito e reperibile solo per vie alternative, non autorizzate.

Prima di scegliere il Plaza valutiamo altri tre alberghi, il Golden, il Roma ed il National, tutti dello stesso livello e prezzo, ma il Plaza è il più anonimo e tranquillo: si entra nel salone d’ingresso sempre deserto e da qui si va in camera senza vedere nessuno, come in una abitazione privata. Inoltre, la camera è dotata di due comodi letti alla francese ed è ben riscaldata la notte da un impianto termico. La colazione poi, a base di uova, è talmente abbondante da farci saltare il pranzo. La sala è fornita di un grosso televisore anni ‘50 ed è interessante osservare ciò che piace vedere agli egiziani: tutti i canali sono incentrati su telenovelas pietose dove gli oppressi poveri, improvvisamente arricchiscono e perdonano gli oppressori. La vendetta viene così abolita nell’immaginario collettivo. Indicano una morale comune che ovviamente non è attinente alla realtà.

Al mattino presto prendiamo il bus per raggiungere lo storico e affascinante bazaar di Khan el-Khalili, il principale suq della città risalente al 1382. Qui troviamo gli odori, l’architettura e la stupenda atmosfera nordafricana e mediorientale d’altri tempi, dai vicoli stretti occupati da una fitta sequela di botteghe e artigiani che propongono merci d’ogni genere, per noi insolite, a prezzi vantaggiosi, come spezie, tessuti, profumi, manufatti e gioielli tradizionali, oltre alle numerose caffetterie in cui si fuma tranquillamente il narghilè con la shisha, una varietà di tabacchi al sapore di frutta. Prendiamo in considerazione e trattiamo il prezzo di alcuni voluminosi e antichi samovar ed altri articoli da spedire in Italia. Poi si vedrà.

Al ritorno, in una via laterale al nostro hotel troviamo una salumeria che vende mortadella, spaghetti, formaggi, vini ed altri prodotti italiani. Si trova al 37 di Abdel Khalek Sarwat Street e diventa un riferimento alimentare interessante poiché al Cairo il cibo è piuttosto discutibile. Ottime invece sono le spremute e i frullati di frutta e carote che si trovano un po’ dovunque.

Dal solito terminal di piazza Tahrir, in tarda mattinata saliamo sul bus numero 8 che conduce all’assolato e polveroso borgo di El Ghiza, appena fuori città, ed è proprio dove finisce il verde ed inizia il deserto che s’innalzano verso il cielo le colossali sagome della Sfinge e delle Piramidi. Praticamente nella periferia a sud-ovest della capitale. Il mio primo pensiero va al ricordo della foto in bianco e nero di mio padre sul cammello davanti alle piramidi quando nel ‘56, con l’orchestra Mario Falk di Bologna, venne al Cairo per suonare tromba e violino in occasione della conferenza sulla cosiddetta “Crisi di Suez”, alla presenza dell’allora presidente egiziano Nasser, il patriarca cipriota Makarios e il segretario generale dell’Onu Hammarskjold. Fu una tappa importante della sua carriera di musicista.

Come allora, dai racconti di mio padre, decine di noleggiatori di dromedari e cavalli posizionati attorno alle rovine insistono per farci salire sulla groppa del loro animale o anche solo fotografarci con loro in cambio di un baksis. Sono un po’ invadenti nell’insistere ma anche molto simpatici; tuttavia, questo per noi è solo un sopralluogo, ma torneremo con più tempo e calma. Non perdiamo però l’occasione di arrampicarci sui massi della piramide di Cheope verso la vetta alta 139 metri dal suolo. È la più grande delle tre piramidi principali della necropoli di Giza, classificata come la più antica delle sette meraviglie del mondo, costruita 2580 anni prima di Cristo, nonché l’unica arrivata a noi quasi integra. Ugualmente la sagoma della Sfinge nel suo insieme è ben conservata, solo una parte del viso visibilmente corrosa dal tempo. Dall’ingresso alla piramide, che costa appena poche piastre, si sale attraverso un cunicolo buio e si arriva presto ad un bivio: una galleria piana conduce alla camera della regina mentre a lato si apre un ampio ed alto corridoio lineare che continua a salire fino alla pancia della piramide contenente la camera del re. Emozione unica, un vero salto nella notte dei tempi. L’interno, spoglio di decorazioni e geroglifici, congiuntamente all’assenza di feretri o corredi funerari, ha creato negli studiosi il dubbio che questa piramide avesse la funzione di tomba.

Oggi Aldo compie 27 anni e decidiamo di festeggiare al ristorante italiano dell’Hilton, con cibo eccellente tranne gli spaghetti, collosi e privi di sapore. Passiamo poi nella sala attigua del Casinò dell’hotel, dove Aldo per fortuna rimedia ad una perdita iniziale. Alla fine di questa seconda giornata al Cairo possiamo dire che per ora, a noi e in generale, gli egiziani appaino persone tranquille, gente del deserto, amichevoli, per niente possessivi e tantomeno nevrotici come abbiamo visto in altri Paesi musulmani in passato. Di notte si può girare dovunque senza timori, tutelati anche da poliziotti presenti ad ogni angolo di strada, sul modello dell’Unione Sovietica voluto da Nasser ed ereditato dall’attuale presidente Sadat, premio Nobel per la pace nel 1978. Tuttavia, a differenza di alcuni Paesi dell’URSS, qui non si avverte alcuna tensione e sono parecchi i ristoranti aperti tutta notte, senza restrizioni come in Europa.

Nel pomeriggio del terzo giorno passiamo davanti ad un cinema e il titolo del film in inglese ci incuriosisce al punto da acquistarne il biglietto ed entrare. Ci assegnano due sedili numerati accanto a due ragazze egiziane, le quali, per avergli solamente chiesto con garbo se “il film è in inglese o in arabo”, chiamano subito la guardia e si fanno cambiare posto. Ai loro occhi siamo troppo disinvolti e difficili da decifrare. Comunque, il titolo è Thank God it’s Friday, un polpettone musicale americano pesantissimo per cui usciamo prima della fine.

Ogni giorno camminiamo per chilometri, attratti da ogni angolo di questa città ricolma di confortevoli e vaste caffetterie piene di uomini seduti per ore ai tavolini a parlare e fumare shisha. Stile di vita, al maschile, consacrato al relax. È l’opposto di quello che capita in Italia, piena di locali illuminati da violente luci al neon che sembrano sollecitare il cliente a sbrigarsi per lasciare il posto ad altri, tipico di una società incentrata sul profitto che considera questo genere di relax improduttivo, in particolare per un esercente.

All’una di notte finiamo dentro ad un tipico locale egiziano in Opera Square, rallegrato da un teatrino con alcune baiadère semi nude che, ricoperte da veli, intrattengono i clienti con sensuali danze del ventre al ritmo di tabla e flauti. Seduti accanto a noi, alcuni studenti egiziani sottolineano che “Sono belle da vedere, per svagarsi, ma non da sposare. Non sposerei mai una donna del genere”. Certamente per loro troppo libere, amorali.

Tornati in hotel, nel riordinare le cose prima di coricarci, Aldo si accorge di non avere più il blocchetto dei traveller’s cheques. Persi, 2800 dollari! Enorme disdetta, ma nessun panico. Essendo assicurati, occorre fare subito una denuncia alla polizia per riaverli dalla banca e, come luogo di probabile smarrimento o di avvenuto furto, battezziamo la visita alle piramidi, luogo turistico e insicuro per eccellenza.

Il quarto giorno al Cairo, lunedì 15 gennaio, riprendiamo il bus per Giza e passiamo tutto il tempo nel cercare di risolvere il problema dei cheques smarriti. Alla polizia delle piramidi costruiamo un racconto che compilano in un verbale: “Siamo arrivati alle ore 12 per visitare le rovine, con borsa in stoffa contenente i T.C., 100 dollari in contanti, un documento della scuola e le chiavi di casa. Abbiamo noleggiato un giro in cavallo e dopo siamo rimasti tutto il giorno attorno alle piramidi con molta altra gente attorno. Non sappiamo se il borsello è stato perso o se invece è stato rubato”. Ci consegnano una copia della denuncia che dobbiamo subito affrancare con una marca da bollo e consegnarla domani alla banca, essendo ormai chiusa. Usciti dal posto di polizia, trascorriamo poi un’oretta a perlustrare il villaggio di Giza ed è sorprendente vedere, accanto ad un luogo così famoso come quello delle piramidi, un abitato tanto fatiscente, percorso da stradine in terra battuta piene di buche e fango, invase di rifiuti e da gente in tunica che ci riportano la mente alla canzone Pigiama people di Frank Zappa.

Dopo cena prendiamo le pillole per la malaria e mentre in camera scrivo appunti, Aldo “fa un salto” al Casinò dell’Hilton, che si trova in fondo alla strada. Nel giocare fino a notte fonda perde 60 dollari. Poteva andare peggio. Al mattino, inevitabilmente Aldo resta a letto a dormire fino a tardi invece di andare in banca e chiedere il visto sudanese come da programma. I tempi si allungano, d'altronde non abbiamo programmi da seguire né scadenze da rispettare.

In tarda mattinata riusciamo a consegnare la lettera della polizia alla Citybank in Garden City, il quartiere residenziale dietro al Government Building di Tahrir Square. La bancaria consegna subito ad Aldo e senza problemi mille dollari. La rimanente somma arriverà entro una settimana. “O un mese o un anno” aggiunge la giovane e maliziosa impiegata. Prima di partire dal Cairo dovremo ripassare dalla banca per vedere se da New York hanno dato il benestare al saldo, diversamente occorre indicare la destinazione successiva.

Passiamo poi all’ambasciata sudanese per il visto, anch’essa in Garden City, ma per ottenerlo ci dicono che occorre prima mostrare una lettera dell’ambasciata italiana che garantisca che siamo turisti e null’altro: “Racommendation letter for tourist”. Corriamo alla nostra sede diplomatica non distante, sempre nella zona di piazza Tahrir, e nonostante sia ormai chiusa per l’orario l’impiegata, molto gentile, ci accontenta ugualmente. Anzi ci fa anche quella per l’Arabia Saudita: “Non si sa mai”. L’ambasciata sudanese è ormai chiusa, allora prendiamo un taxi al volo per andare in quella somala che dicono aperta fino alle 14,30. L’impiegata parla italiano e in maniera molto chiara ci dice: “La Somalia è in guerra con l’Etiopia e non concede visti ai turisti, nel modo più assoluto. Si entra solo per business”. Tuttavia, a seguito della nostra incontenibile insistenza, dice che il console tornerà domenica e suggerisce di provare con lui direttamente: “Solo un autorità può prendersi questa responsabilità”.

Al ritorno abbiamo un diverbio col taxista che per la corsa ci chiede addirittura 2 Pound, mentre all’andata avevamo speso 0.25 piastre. Concludiamo dandogli 0.50 piastre. In Egitto i passaggi in taxi hanno prezzi popolari ma noi siamo stranieri e bisogna sempre ricordarsi di trattare e concordare il prezzo prima, su tutto, una regola fissa da qui in poi.