Dormi sepolto in un campo di grano,
non è la rosa non è il tulipano,
che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
ma sono mille papaveri rossi.

(La guerra di Piero, Fabrizio De André)

Seduta. Immobile. Guardo, fissa, lo schermo della tv oppure scuoto la testa mentre sfoglio le pagine dei quotidiani. Immagini su immagini di gente che fugge, che lotta, che piange, che soffre, che tenta di sopravvivere. Parole che raccontano di palazzi squartati dai missili, vite buttate all’aria, finestre rotte, porte divelte. I sacrifici di una vita esplosi in un attimo. Gli ospedali, i teatri, patrimoni morali e reali che vengono buttati giù in un domino d’odio. Le persone che sopravvivono sottoterra. Portano con loro qualche vestito per un cambio, pochi effetti personali, un po' di cibo, l’acqua e gli animali domestici. Cani e gatti che stringono con affetto perché prendono da loro quel briciolo di forza che resta. In qualche fagotto ci sono i bambini. Altri i bambini li tengono per mano. Non li mollano un attimo. Si creano isole di finta privacy, costretti a condividere la poca vita che gli è rimasta negli occhi. Perché quando sei in una guerra, quella che stai vivendo non è propriamente la vita che avresti voluto. Né per te, che sei adulto, né per i tuoi figli che, quando hai deciso di mettere al mondo, tutto ti parlava di futuro e di speranza. Ora tutto ti parla di morte e di distruzione. E non sai, non ne hai idea, come riuscire a spiegare questo a persone che hanno solo tre, quattro, cinque, sei sette, otto, nove, dieci o undici anni, poco più o poco meno. Loro non hanno votato, non hanno fatto ancora alcuna scelta. Non se sanno nulla di geopolitica. Loro volevano andare a scuola e giocare, giocare tutto il giorno, magari nella loro cameretta o al parco con i loro amichetti. Incontrarsi virtualmente su Minecraft per costruire vite parallele. Non possono capire cosa sia tutto questo odio, la distruzione del loro futuro, delle loro famiglie. I papà lontani, i fratelli via. Restano lì con le loro mamme a guardare un punto fisso nel muro della metro. Ogni rumore, ogni piccolo rumore li fa trasalire. La vita che, in un attimo, diventa altro. Tu che diventi altro da te stesso.

Gli anziani restano atterriti. I loro sguardi sono vitrei. Si chiudono alle spalle le loro case. Portano con loro solo piccole buste. Dentro forse hanno compresso i ricordi della vita. Non vogliono che vi entri dentro il ricordo della guerra. Si assicurano di aver chiuso bene la porta, girano la chiave. E vanno via. Chissà se pensano di tornare un giorno oppure sanno che probabilmente quella che hanno tirato su con il lavoro di una vita, quando tutto finirà, sarà solo un mucchietto di mattoni, irriconoscibile. Non ci sarà più l’orto, né il recinto, né la poltrona davanti al camino. Della cucina non resterà nulla. Le tazze, i piatti, i bicchieri, le pentole, le foto dei nipoti alle pareti. Più nulla della loro vita. E sarà già una grande fortuna ritrovare vivi magari i figli e proprio quei nipoti adorati che la domenica, quando arrivano dalla città, mettono a soqquadro tutta la loro vita, rendendoli felici. Adesso non c’è tempo per pensare a cosa sarà. Adesso devono andare.

Racconto la guerra come la racconterebbe chiunque se ne sta seduto a casa sua, a chilometri di distanza da chi combatte, e che guarda, giorno dopo giorno, la storia che si fa attualità. Qualcuno dirà, infatti, che queste sono solo parole e che avrei fatto bene a tenerle per me, tanto non servono a niente. Da qui non posso fare molto, sono solo una spettatrice angosciata che cerca di riflettere. Cerco di capire come sia possibile che nel 2022 ci sia ancora spazio per una parola che considero anacronistica. So, lo so perfettamente, che questa all’Ucraina non è la prima guerra del nuovo millennio. Sparsi per il mondo ci sono ancora troppi conflitti attivi. Lo Yemen, la Syria, la questione afgana e quella palestinese. E, anche considerando le differenze, per ogni uno di questi casi credo che la guerra, con tutte le sue conseguenze, sia l’aberrazione dell’umanità. Le vittime sono sempre le stesse, i civili innocenti che restano incastrati nel limbo creato dalla sete di potere di chi li governa. Non c’è scampo. In ogni guerra le persone rimangono a guardare la distruzione della loro vita, sia se restano, sia se combattono, sia se vanno via. Le condanno tutte, le guerre.

Noi siamo quelli che vivono ogni anno il 27 gennaio, Giorno della Memoria, durante il quale cerchiamo di ricordare ciò che è stato, perché è stato, è realmente accaduto. Ci fermiamo ad alimentare la memoria della sofferenza affinché non accada mai più. Cerchiamo di passarla alle giovani generazioni. Ascoltiamo discorsi e racconti di quello che consideriamo essere il male per eccellenza. Guardiamo con un occhio attento le storie di chi è sopravvissuto all’inferno, al male assoluto, allo sterminio, all’odio razziale, alla negazione della persona, alle umiliazioni, alla paura, al dolore di sapere che la vita non sarebbe mai più stata la stessa. Che hanno visto morire figli, mogli, madri, padri, mariti, nonni e amici in maniera orrenda, scoprendo un dolore troppo grande da comprendere anche dopo 80 anni. Siamo la generazione che si è nutrita, attonita, delle immagini dei bombardamenti di città europee come Londra, Roma, Berlino.

Celebriamo la Liberazione, ogni 25 aprile. Sappiamo cos’è successo, a meno che non si voglia far finta di non vedere e di non sentire. Abbiamo ascoltato dalla viva voce dei nostri nonni cosa è stato dover imbracciare un fucile, affrontare qualcuno che era identico a te ma che non potevi considerare tuo simile: era il nemico. Ma nemico per chi? Per cosa? Non era forse anche lui figlio? Non era forse anche lui marito, padre, compagno o amico?

I racconti dei miei nonni risuonano nella mia mente ogni giorno. Ogni volta che assisto alle immagini di una guerra mi chiedo come sia possibile che quei racconti prendano vita. Diventano la realtà. C’è Igino in prima linea a vent’anni che affronta un altro uomo, c’è lui sotto i bombardamenti, c’è lui nelle vite distrutte. Suoi sono gli occhi di chi cerca la salvezza, di chi lotta per un pezzo di pane, di chi sposta le rane da una pozzanghera per poter bere dell’acqua fangosa. Ci sono le sue parole nella lotta di chi resiste. C’è lui nelle trincee, c’è lui nascosto nei boschi, c’è lui nelle carceri dove si tortura, c’è lui tra i prigionieri di guerra.

In coloro che cercano riparo in altri Paesi rivedo le disavventure di Biase, che ha dovuto lasciare tutto per andare in Germania a cercare lavoro e salvezza. La fatica di accettare, da migrante, una vita difficile e compiti massacranti pur di non far provare la fame alla sua famiglia.

Ma ci sono anche le parole delle mie nonne, Linda e Ernestina, sfollate interne durante il Secondo conflitto mondiale, nelle parole e nelle lacrime delle donne rifugiate. La mancanza d’acqua per potersi lavare, l’impossibilità delle loro madri di proteggere i figli dalla paura continua e incontrollabile che arriva soprattutto di notte. La fame, la sete. La perdita della speranza. Le vite strappate proprio nel periodo della giovinezza, quando vuoi ballare, cantare, innamorarti e condividere tutto con chi ha la tua età. C’è il loro dolore nel dolore di chi ha perso qualcuno sotto le macerie delle proprie case. C’è l’ingenua e flebile speranza che forse un giorno, ma chissà quando, tutto questo orrore finirà.

Mi dicono spesso che passo la vita sulle nuvole, che sono una che crede ancora nelle utopie, che la realtà è questa e che la vita è ben altro rispetto a ciò che vorrei. Ma non riesco a far finta di niente. Per me tutto questo è una ferita aperta che sanguina. La logica della Realpolitik mi sembra illogica. È mancare di rispetto a tutte quelle persone che hanno vissuto sulla loro pelle l’orrore dei conflitti e che, con il loro esempio, ci hanno detto: “Non permettete che accada ancora!”

Pensare che non siamo riusciti, in tutti questi anni, ad eliminare la guerra dalle strade del mondo è per me un fallimento dell’umanità. Guardare, senza poter far nulla, la distruzione della vita mi rende incredula. Resto una grande ingenua, una che pensa ancora che l’unica parola da pronunciare per dirimere i conflitti sia l’esatto contrario di guerra e cioè: pace.