Mestre, "periferia" di Venezia. Ovvero la parte moderna della città d’arte, che a Mestre deve il proprio sviluppo urbano: l’una dall’altra distano una sola fermata di treno e un ponte carrabile che le lega indissolubilmente. La Serenissima svolge il suo ruolo di primadonna in un teatro unico, irrepetibile. Mestre manovra macchine e muove i fili della produzione, cerniera tra la città lagunare e il territorio metropolitano che sostiene e alimenta Venezia, sempre più laboratorio per il futuro, con eccellenze intellettuali e universitarie. La fedele Mestre (la Mestre Fidelissima dal 1500) lo sa. È un’intesa sottointesa, discreta e nascosta agli occhi del viandante rapito più dal patrimonio dell’Unesco che dal fiorire d’impulsi che ogni "periferia" fornisce al centro.

M9 - Museo del Novecento inaugurato a Mestre nel 2018, è un esempio e una delle buone ragioni per fermarsi qui, prima di arrivare a Venezia laguna, o viceversa. Polo culturale multimediale ad altissima tecnologia applicata, centro di aggregazione sociale, hub per lo sviluppo e la promozione di eccellenze produttive, ben sintetizza la relazione storica e intima tra Venezia e la sua “periferia”.

Nel 2020 l’EMYA – European Museum of the Year Award ha menzionato M9 per la “narrazione museale stimolante con eleganti soluzioni tecnologiche: un esempio brillante dell’importante ruolo dei musei nella rigenerazione di aree trascurate di una città, attraverso l’esercizio della cittadinanza e del senso di appartenenza”.

Già dalla architettura sostenibile (impianto fotovoltaico, geotermia) si presenta laboratorio permanente del contemporaneo, di idee e sperimentazioni sotto la guida del direttore scientifico Luca Molinari, che osa intuizioni inconsuete.

L’anno scorso portò una foresta vera nel museo: 650 alberi vivi, un'installazione green poi restituita al territorio con messa a dimora in vari centri del Veneto. “In piena pandemia era un modo per dire che eravamo un luogo vivo, che respirava”, commenta Molinari. Quasi come un naturale sbocco di quel progetto, quest’anno è nata la mostra Alberi! 30 frammenti di storia d’Italia - che ho avuto il piacere di inaugurare l'11 marzo e che andrà avanti fino al 10 agosto - curata dal divulgatore Daniele Zovi, la paesaggista Annalisa Metta e l’arboricoltore Giovanni Morelli. Alla mostra si affianca l’omonimo libro (Marsilio arte Ed.) che con 30 racconti percorre la storia d’Italia attraverso 30 piante secolari, disegnate da Guido Scarabottolo, uno dei più noti illustratori italiani. Una lettura trasversale: si parla di alberi per parlare di luoghi perché non c’è albero senza storia e storia senza alberi, perché la storia di un albero è sempre anche la storia di un luogo.

E dalla galleria del bosco di carta sognato da Scarabottolo, è un passo addentrarsi nel cuore del museo dove si racconta il ‘900 attraverso l’avanguardia tecnologica che permette di calarsi in una tridimensionale bidimensione. Senza soluzione di continuità si passa da una sezione all’altra dedicate, in otto stanze, a demografia e strutture sociali; scienza, tecnologia, innovazione; economia, lavoro, produzione e benessere; paesaggi e insediamenti urbani; lo stato, le istituzioni, la politica. Si entra in ognuna per essere letteralmente immersi nelle testimonianze del tempo in forma di audio, scritti, video selezionati da oltre quaranta esperti di rilievo nazionale, attraverso una rete di 150 tra archivi e biblioteche italiane e internazionali, organizzate in modo sorprendente e interattivo: oltre 6.000 foto di ogni epoca del ‘900; 820 video per vedere o rivedere film e documentari, riprese amatoriali, programmi televisivi; 500 materiali a stampa come fotografie, quotidiani, riviste, poster e materiali pubblicitari; 400 file audio in particolare incisioni radiofoniche che molti riconosceranno; 10 ore di filmati digitali alcuni veramente emozionanti perché riportano a momenti apicali della nostra comunità. Un viaggio nei costumi. Un percorso dove è obbligatorio interagire sebbene a distanza con le installazioni per essere parte integrante dell’avventura museale. Un tourbillon dove il vagabondare tra storia passata, presente e futura entusiasma grandi e piccini.

D’altronde Fondazione di Venezia, presieduta da Michele Bugliesi, ha affidato a M9 un mandato chiaro: essere ponte e punto di raccordo fra esperienze, conoscenze e opportunità che, partendo dal Novecento, proiettino i visitatori verso il futuro di cui saremo protagonisti.

Da qui, nella mente del direttore scientifico Luca Molinari è germogliata l’idea di una trilogia di mostre dedicate alle eccellenze della storia d’Italia: cibo, sport, musica.

“Ho pensato a un sistema di grandi mostre che poggiassero sulle fragili e forti spalle del Novecento, guardando all’oggi e al domani”, racconta Molinari, “M9 racconta il life style degli italiani, cosa che nessuna istituzione italiana e veneziana ha fatto fino ad oggi. Incrocia tutto: storia, economia, società, cultura, dandoci il polso di come sta cambiando il Paese e il mondo. Ho pianificato una trilogia primavera-estate: ogni mostra dura sei mesi e si porta dietro iniziative che non sono solo le mostre, ma esperienze che conducono anche fuori dal museo. Così M9 diventa mappa per viaggiare nel territorio”.

Gusto è la prima mostra-evento della trilogia e apre il 25 marzo. Viaggio simbolico fra tradizione ed evoluzione degli stili a tavola, racconta l’Italia attraverso i costumi alimentari dal 1970 al 2050. Perché questo periodo?

Con i curatori, Massimo Montanari docente e storico dell’alimentazione, e Laura Lazzaroni, giornalista esperta di pane e grano a lungo corrispondente da New York per D di Repubblica, è emerso chiaro che gli anni Settanta segnano un cambio di paradigma nella produzione e nelle case degli italiani. È in qualche modo da lì che la solida tradizione legata al mondo agricolo, lascia spazio a un cibo più “urbano”, legato all’industrializzazione. La mostra s’interroga anche sugli scenari futuri, fino al 2050. Dopo la pandemia si chiude un ventennio di relazione molto ricca con il cibo. Entriamo ora in una fase più attenta alla sostenibilità, domanda crescente di filiera corta, semplicità opposta alla spettacolarizzazione.

Anche l’agricoltura è cambiata: innesti e integrazioni legate alle migrazioni che modificano i prodotti della terra (verdure nuove, spezie diverse). La nostra cultura è dinamica e anche il gusto per quello che mangiamo.

Che cosa l’ha sorpresa di più progettando e realizzando Gusto?

Il lavoro fatto dai curatori: hanno raccolto 1400 denominazioni dei prodotti italiani. Sapevo che sono tantissimi, ma sostanziarlo in una cifra fa molta impressione.

E sul futuro? Mangeremo pillole e insetti? Da soli o in compagnia? Cucineremo con l’acqua o senza? Come cuoceremo gli spaghetti nel 2050?

Sono interrogativi che lanciano anche i curatori, suggerendo ipotesi basate però su ricerche in atto. Ci sono interessanti studi fatti da aziende italiane e internazionali per produrre macchinari in grado di trasformare i cibi tradizionali in cibi consumabili nello spazio. Questa è una sorpresa.

Cioè non dovremmo mangiare carbonara in forma di pillole?

No, in assenza di gravità potremmo mangiare spaghetti, ma non in pillole. Il cibo italiano classico (parmigiano, salumi, pasta) muterà certo, ma com’è stato sempre fatto: a noi sembra uguale dalla notte dei tempi, invece le aziende di trasformazione agroalimentare hanno modificato consistenze, colore, sapore seguendo il cambiamento dei gusti. Ciò che consumiamo oggi è una stratificazione di cultura e ricerca. Anche di questo si parla a Gusto. Nel 2050 magari cucineremo tutto sottovuoto. Avremo meno materie prime e quelle disponibili avranno un valore altissimo. Su questo sono già in atto studi: chi esplorerà Gusto a M9, ne troverà cenni.