Il rischio di estinzione di un animale è legato alla specie cui appartiene. In questi ultimi anni ci sono state molte revisioni sul concetto di specie. Sono cambiate le modalità scientifiche per definirle; per lo scienziato Jonathan Marshall esistono una ventina, forse più, di definizioni di specie (vedi Avise, 2014) e, in questo senso, il mondo dei Primati non umani, cioè quello delle scimmie, non è stato immune e ha subito molte trasformazioni difficili da seguire. In alcuni casi sono cambiati i nomi dei generi a cui le scimmie appartenevano. Per esempio, il Galago elegantulus è divenuto Euoticus elegantulus, il Rhinopithecus bieti, Pygathrix bieti, il Presbytis auratus, Trachypithecus auratus. In alcuni casi alcune specie sono state “degradate” a sottospecie, come nel caso del Colobus polykomos diventato una sottospecie del Colobus vellerosus. Poi ci sono le sottospecie elevate a specie. La fortuna, se si può dire così, è che le specie di scimmie viventi sono poco più di trecento, ma ci sono ordini zoologici molto più numerosi ai cambiamenti tassonomici dei quali sarebbe quasi impossibile stare dietro.

Il fatto è che tutti questi cambiamenti avvenuti a livello di specie derivano da fenomeni evolutivi molto lunghi e complessi. Dai tempi di Carl Linnaeus (Linneo) sono cambiate le modalità di classificazione di piante e animali che prima si basavano fondamentalmente sulle caratteristiche morfologiche ben visibili, sulle somiglianze e sulle differenze.

Ciò che ricordiamo è che da quando andavamo a scuola e studiavamo Scienze Naturali, una specie veniva definita in questo modo che poi è anche la definizione di uno scienziato molto noto, Ernst Mayr, ma anche di tanti altri: “una specie è costituita da gruppi potenzialmente interfecondi che danno origine a prole altrettanto feconda e riproduttivamente isolati da altri gruppi”. In sostanza la specie è un insieme di individui, più o meno numeroso, che condividono la stessa informazione genetica. Ed è proprio qui il punto. Da quando è stato possibile analizzare il DNA di un animale appartenente a una determinata specie, le cose sono cambiate ed è grazie a queste analisi che si possono giustificare il passaggio da un genere all’altro o il cambiamento del nome di una specie o l’elevazione a specie da una sottospecie.

Ogni essere vivente discende da altre specie e quindi tutti gli animali hanno un antenato comune. Chi possiede dei caratteri favorevoli a una trasformazione ambientale sopravvive meglio, soprattutto in funzione della variabilità dei suoi caratteri. Charles Darwin ignorava il meccanismo della trasmissione dei caratteri ereditari (non ebbe la possibilità di leggere Gregor Mendel), ma capì che la variabilità dei caratteri, cioè l’esistenza di molte versioni di uno stesso organismo, fosse vantaggiosa per la sopravvivenza.

Modelli animali (usi e soprusi)

È comunque dallo stato di conservazione delle specie animali e quindi dei processi, soprattutto quelli ecologici, che dobbiamo partire per arrivare a capire l’importanza della teoria evoluzionistica e della diversità genetica ai fini della conservazione delle specie e in modo particolare delle scimmie. Perché abbiamo collocato le scimmie al di sopra di tutte le altre specie? Perché abbiamo riservato questo privilegio a questi animali? Che cosa hanno di speciale? Di speciale non hanno niente, ma se consideriamo che appartengono al nostro stesso ordine zoologico, cioè quello dei Primati, loro non umani, noi umani, vediamo che qualcosa di speciale ce l’hanno. Sono i nostri antenati più prossimi. Abbiamo quindi in comune con loro un immenso bagaglio biologico, comportamentale e psicologico.

Gli esseri umani sono dei mammiferi e all’interno di questa classe c’è il nostro genere Homo, quindi l’Homo sapiens. Sono, in sostanza, l’anello di congiunzione più prossimo che ci lega al resto del Regno animale. Se venissero a mancare perderemmo la possibilità di confrontarci con il resto del mondo vivente. Per capirlo, basterebbe riflettere sul fatto che una scimmia in particolare, lo scimpanzé comune (Pan troglodytes), possiede circa il 99% del nostro patrimonio genetico. Non esiste nessun altro animale con una percentuale così alta e prossima al genoma umano, e sappiamo anche quanto sia rilevante l’associazione gene/fenotipo nella vita di ciascun individuo vivente sulla Terra, senza dimenticare che la sensazione, la percezione, la memoria, l’apprendimento, l’orientamento sessuale, l’attaccamento, la motivazione, il sistema cognitivo attivazionale, hanno anche a che fare con l’evoluzione delle nostre funzioni psicologiche più importanti come il pensiero e l’intelligenza.

In conclusione, in un mondo integrato quale quello in cui viviamo in questo momento, per salvare l’umanità dobbiamo salvare le scimmie e non considerale come tanti altri animali. Non è infatti un caso che, ad esempio, la predisposizione a una certa malattia o la reazione a un farmaco in questi animali indica come affrontare tutte le questioni che riguardano la salute e la cura delle malattie più gravi nell’uomo. Se poi questo ha comportato un accanimento sperimentale su di loro, scimmie in particolare, è dovuto a un eccesso di presunzione da parte di alcuni ricercatori. Gli animali devono rappresentare solo e unicamente un modello da riprodurre artificialmente e non devono essere sottoposti direttamente a sperimentazione. Tanto per intenderci, la robotica e l’intelligenza artificiale sfruttano modelli matematici artificiali senza far del male a nessuno, non utilizzano elettrodi da impiantare nel cervello di una scimmia per vedere come risponde un neurone attivato dagli organi di senso, dalla vista, dall’udito o da un movimento. Poi, nel cervello di una scimmia esistono miliardi di neuroni e, se dovessimo impiantare un elettrodo su ognuno, non basterebbe lo spazio di tutto il Pianeta Terra per un’operazione del genere. Farlo solo su un numero limitato di neuroni di una piccola area corticale non porta molto lontano. Infatti i neuroni sono interconnessi con le sinapsi tra aree diverse e quindi, ammesso che sia possibile fare tecnicamente una operazione di questo genere, ci vorrebbe lo spazio dell’intero sistema solare per analizzare l’intera rete nervosa del cervello.

Specie e conservazione

Andiamo ora al punto centrale della questione, cioè a come il concetto di specie, considerando tutti i suoi rivolgimenti tassonomici, abbia potuto aprire una nuova prospettiva di conservazione e di salute del nostro Pianeta. Esso è fondamentale per diverse ragioni, anche se poi in definitiva, dal momento in cui Darwin disse che una specie è un termine assegnato arbitrariamente a un gruppo di individui assomiglianti tra loro, non è che le cose siano cambiate di molto, nonostante le nuove conoscenze sui patrimoni genetici degli animali. Molti di loro sono in via di estinzione soprattutto a causa nostra. Inoltre, non tutte le specie si possono distinguere tra loro solo sulla base morfologica, cioè sulle somiglianze e differenze. Infatti due individui appartenenti alla stessa specie possono essere molto diversi tra loro, come maschi e femmine (dimorfismo sessuale). Emblematico è l’esempio del leone e della leonessa.

C’è stata una bravissima zoologa inglese, Georgina Mace, che ha studiato quali possono essere i processi che mettono in pericolo una specie in funzione del suo patrimonio genetico e dell’ambiente in cui vive. Mace sostenne che il rischio di estinzione di una specie può essere previsto (valutato preventivamente) sulla base delle caratteristiche ecologiche in cui l’animale si trova, in base al suo percorso evolutivo e alla velocità con cui crescono le popolazioni. Questi rilievi fatti da Mace hanno consentito di stabilire da parte dello IUCN (International Union for Conservation of Nature) il livello critico, il pericolo e la vulnerabilità di ciascuna specie. Hanno permesso di valutare attentamente tutti i criteri che possono mettere a rischio, a vari livelli, la capacità di ogni specie di sopravvivere agli impatti, soprattutto umani, sul loro ambiente.

La difesa degli animali a rischio di estinzione

Uno dei primi governi che ha definito, con una legge, quali specie animali avessero più o meno bisogno di piani di protezione è stato quello degli Stati Uniti d’America. Certo, in questo Paese non esistono le scimmie e i loro lontani antenati risalgono a milioni di anni fa e quindi tutti estinti in America del Nord, ma il fatto che si siano valutate le variabili sul rischio di estinzione di alcune specie è stato un grosso passo avanti. Ha consentito di collocare nella lista delle specie a rischio, ad esempio, l’aquila di mare dalla testa bianca (Haliaeetus leucocephalus), l’orso grizzly (Ursus arctos horribilis) e il lamantino della Florida (Trichechus manatus). Da quando nel 1973 entrò in vigore questa legge, chiamata Endangered Species Act, introdotta dal Governo di Richard Nixon, sono passati molti anni e il risultato è stato piuttosto positivo se si pensa che su 2000 specie circa che sono state inserite in questa lista circa una cinquantina oggi si può considerare fuori pericolo. Certo si tratta solo del 2% circa, ma è meglio di niente. Il fatto grave è che poi il Governo Trump ha praticamente annullato questa legge, non si capisce bene a favore di chi o forse sì? E per le nostre cugine, cioè le scimmie, le cose come sono andate?

Scimmie in pericolo di estinzione

Nei continenti in cui vivono le scimmie e quindi escluso il Nord America e l’Oceania, le cose sono andate molto male, purtroppo. Secondo le stime dell’UICN, un terzo dei lemuri in Madagascar e un quarto circa delle scimmie africane sono a rischio di estinzione. Tra le scimmie antropomorfe, il Gorilla di pianura (Gorilla gorilla gorilla) e il Gorilla Cross River (Gorilla gorilla diehli), per non parlare del Gorilla di Montagna (Gorilla gorilla beringei), sono ultimamente passati da una situazione di pericolo a una di grave pericolo di estinzione. A pari livello possiamo inserire l’Orango del Borneo (Pongo pygmaeus) e quello di Sumatra (Pongo abelii). Infine, gli scimpanzé (Pan troglodytes e Pan paniscus) non sono messi molto meglio. In conclusione, la situazione è molto grave, ma a molti sembra che tutto questo sia poco importante. Ne parleremo tra una ventina d’anni quando queste scimmie antropomorfe non ci saranno più.

Bibliografia

Mayr Ernst. The growth of biological thought. The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, MA., 1982 (tr.it. Storia del pensiero biologico. Bollati Boringhieri, Torino, 1990).
Mendel Gregor. Experiments in Plant hybridization (1865). Electronic Scholarly Publishing Project, Billingham (WA), 1996.
Mace Giorgina. Conservation in a changing World. Cambridge University Press, Cambridge, 1999.
Avise John. Conceptual breakthrough in Evolutionary Genetics. Academic Press, New York, 2014.
Durrell Gerald. Il giardino degli dei. Neri Pozza, Vicenza, 2016.
IUCN. Global Programme Red List Unit. Cambridge, UK, 2020.