Sars-CoV-2 è un nuovo ceppo di coronavirus mai identificato precedentemente nell'uomo. Quando ha fatto la sua prima comparsa alla fine del 2019, non sapendo nulla di questo virus, a parte i sintomi che arreca, il mondo si è trovato indifeso da questa improvvisa minaccia. Laboratori e case farmaceutiche si sono messe freneticamente al lavoro per trovare nel più breve tempo possibile vaccini sicuri ed efficaci, e stanno ancora lavorando in questa direzione per contrastare le mutazioni che questo ingannevole virus continua ad avere, soprattutto se continuerà a circolare incontrastato, in particolar modo fra la popolazione non vaccinata.

A due anni di distanza dal "paziente zero" la malattia sembra possa diventare endemica ma questo non significa “meno pericolosa”. La definizione che si legge sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità definisce una malattia endemica: "quando l’agente responsabile è stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato ma uniformemente distribuito nel tempo”. Endemico, però, non vuol dire che il virus ha perso letalità, per esempio il vaiolo, la poliomielite e la malaria sono malattie endemiche. Covid-19 quindi non sparirà dalla faccia della Terra, ma la speranza di virologi e scienziati, è che possa mutare in una malattia meno invasiva, e gestibile con vaccinazioni più o meno periodiche, forse come l'attuale variante Omicron, che sembra non colpire più i polmoni, ma solo le alte vie respiratorie dei vaccinati, facendola sembrare una brutta influenza.

Molto tempo prima che scoppiasse questa guerra batteriologica, pensando ai futuri scenari di esplorazione planetaria, mi ero chiesto come ci saremmo comportati se fossero comparsi nuovi patogeni letali e quali contromisura adottare. Oggi, con quello che sta ancora accadendo, mi chiedo quali insegnamenti possiamo trarre da questa pandemia da Covid-19, in ambito di contenimento del contagio, e di cure in grado di proteggere l'umanità.

La fantascienza ci ha abituati da tempo a scenari di questo genere, ma ora che abbiamo la concreta possibilità di ottenere campioni di rocce e polveri da Marte, potremmo scoprire batteri o virus alieni che se da un lato sono una scoperta rivoluzionaria, dall'altro ci pone il problema di come affrontare una contaminazione, se per qualche sfortunato motivo dovessero fuoriuscire dai laboratori e disperdersi nell'ambiente. Allo stesso modo si dovranno tutelare, con adeguati protocolli, i primi esploratori di Marte, nel caso si trovassero ad affrontare soli e isolati una malattia sconosciuta.

Il rischio è concreto. Gli scienziati ipotizzano che su Marte, un tempo, si sia sviluppata la vita e che poi si sia estinta. Tuttavia, non hanno alcuna certezza che una qualche sua "forma" sia sopravvissuta, adattandosi alle traversie "geologiche" del pianeta. Se questa vita esiste realmente, al di là della inimmaginabile importanza scientifica, sociologica e filosofica della sua scoperta, più pragmaticamente potrebbe costituire un potenziale pericolo per l'equipaggio, considerando che per quanto si possa fare, non sarà mai possibile ottenere una sterilizzazione completa durante le uscite e i rientri negli habitat.

Il pericolo che gli astronauti si possano ammalare di malattie sconosciute dovute a patogeni alieni non può ne deve essere escluso, soprattutto al loro ritorno a Terra. È quindi interessante conoscere come nacque e si utilizzò l'unica quarantena spaziale mai adottata, quella delle missioni lunari Apollo, quarantena, che riveduta e corretta, sarà utilizzata anche per gli equipaggi destinati a esplorare Marte.

Il programma lunare Apollo è l'unico, fino a oggi, ad aver considerato l'utilizzo della quarantena per i campioni lunari e per gli astronauti, allo scopo di scongiurare qualsiasi pericolo di infezione da parte di "qualcosa" di pericoloso e sconosciuto. Se ciò fosse accaduto, forse ci saremmo trovati in una situazione simile a quella avvenuta con la comparsa improvvisa del virus Sars-CoV-2.

Prima di Apollo, la comunità scientifica internazionale pensava che per le sue condizioni fisiche, la Luna fosse completamente sterile al di là di ogni ragionevole dubbio. Una piccola parte di scienziati però riteneva utile un approccio più cauto, perché non esisteva l'assoluta certezza che sul nostro satellite non esistessero microrganismi sconosciuti, o che le stesse polveri lunari non potessero costituire un pericolo per la salute pubblica e l'ambiente. Per questo motivo, nel 1963, l’Accademia Nazionale delle Scienze istituì una commissione speciale per dettare le linee guida necessarie alla gestione dei materiali e degli astronauti di ritorno dalle missioni lunari, da un punto di vista della possibile contaminazione. Alla fine dei lavori, la commissione indicò tre punti, in ordine di priorità, che dovevano portare allo sviluppo di procedure atte a segregare, contenere e mitigare un pericolo proveniente dallo spazio:

  1. proteggere la salute pubblica e l'intero ecosistema;
  2. proteggere l’integrità dei campioni lunari;
  3. assicurare misure che non compromettano gli aspetti operativi dell’esplorazione.

Per la verità, inizialmente si pensò che tutto ciò di cui si aveva realmente bisogno fosse solo una white room (camera sterile) per gestire in sicurezza la raccolta, catalogazione e analisi dei campioni lunari. I responsabili della divisione di ricerca biomedica e scienze ambientali della NASA, però, pensarono che non avendo mai affrontato una simile situazione prima d'allora, forse era meglio utilizzare un approccio che comprendesse anche gli astronauti, perché pur se protetti da pesanti scafandri, una volta tolti nel piccolo ambiente del Modulo Lunare, sarebbero venuti inevitabilmente a contatto con le polveri lunari. Per questo motivo proposero di isolarli, adottando un regime di quarantena di almeno tre settimane.

Oltre all’isolamento biologico dell’equipaggio, gli obiettivi della quarantena comprendevano anche quello dei campioni e di tutto il materiale esposto all’ambiente lunare, di conseguenza l’Apollo Lunar Quarantine Program (LQP) raccolse una serie di procedure che possono essere suddivise in tre fasi distinte:

  1. criteri che l’equipaggio doveva applicare per evitare di portare nel Modulo di Comando eventuali contaminanti dalla superficie lunare;
  2. norme per il recupero della navicella, dell'equipaggio, dei campioni lunari e del successivo trasporto fino ai laboratori del Lyndon B. Johnson Space Center, Florida;
  3. quarantena all’interno del Lunar Receiving Laboratory (LRL).

Ovviamente, la stesura degli indirizzi e delle seguenti procedure costituivano solo una parte della strategia di difesa planetaria, infatti, fu poi necessario progettare e costruire i mezzi necessari per tenere in isolamento biologico, l’equipaggio, la navicella e i campioni lunari fin dal loro ritorno sul nostro pianeta. La realizzazione del programma LQP ebbe un impatto significativo dal punto di vista economico e sulla pianificazione del progetto Apollo, ma fu un investimento che oggi si rivela prezioso per la stesura delle nuove regole che saranno applicate alle prossime esplorazioni di Marte, tenendo conto che la differenza sostanziale fra la prima esplorazione della Luna e quella di Marte, è nei tempi di esposizione a eventuali patogeni alieni. Le missioni lunari, infatti, duravano solo pochi giorni e quindi l'intero sistema si basava essenzialmente sul ricovero degli astronauti al loro rientro, mentre per Marte, considerato i tempi di viaggio e permanenza, è possibile che il problema si presenti sul pianeta, o durante il viaggio di rientro.

Negli anni Sessanta del secolo scorso, la prospettiva che dei germi lunari potessero creare problemi a una popolazione che non aveva mai avuto la possibilità di costruirsi un'immunità, è una paura che esiste ancora oggi quando nascono occasionalmente nuovi ceppi influenzali pandemici, e se qualcosa di pericoloso fosse arrivato dalla Luna, sarebbe stato l'epitome di un nuovo agente patogeno con chissà quali conseguenze. Nessuno però sapeva esattamente cosa fare se la minaccia si fosse rivelata una realtà, nonostante le esperienze acquisite attraverso le ultime epidemie mondiali d'influenza dell'era moderna. La febbre spagnola nel 1918, l'asiatica nel 1957 e la Hong Kong nel 1968, provocarono milioni di morti, malgrado le ultime due, apparse nell'era della virologia moderna, fossero state accuratamente caratterizzate per fornire le informazioni necessarie allo sviluppo di un vaccino.

La principale misura adottata per il progetto Apollo fu la stessa usata nel Medioevo per contrastare la peste, e cioè di mettere in quarantena gli equipaggi di ritorno dalla Luna, allo scopo di accertare che non avessero portato con loro pericolose malattie. Naturalmente, come sempre accade nella scienza, la comunità scientifica si divise su questo provvedimento, giudicato da molti una soluzione troppo estrema. Un punto di vista accettabile, che trova spiegazione nell'atteggiamento della medicina generale degli anni '60 del Novecento, che attraversava l'età d'oro dei vaccini e delle immunizzazioni e da quasi un secolo non adottavano più metodi così "grezzi". Un ottimismo fondato sul riscontro (apparente) che la guerra contro le malattie infettive era stata vinta, e ammettere il pericolo di patogeni lunari adottando lo stato di quarantena per Apollo, sarebbe stata l'ammissione dell'impotenza della medicina di fronte a pericoli sconosciuti, in una fase storica che la vedeva vincente su molte malattie infettive come poliomielite, morbillo e parotite.

Tornando a Marte, questa prima valutazione fa comprendere quanto sia importante il processo di contromisure che si dovranno adottare nei confronti degli astronauti che passeranno un anno e mezzo sul pianeta prima di tornare, tenendo presente quello che abbiamo imparato dalle pandemie e migliorando i piani che si adottarono per gli astronauti lunari. Infatti, che sia uno sconosciuto virus terrestre o un patogeno alieno, l'approccio non può essere quello solito adottato a virus o batteri noti, che danno sintomi e modalità di trasmissione che conosciamo. In questi casi, si deve affrontare l'inconoscibile, rispondendo all'incertezza molto sottile su come adattare una contromisura, quando non si è sicuri di cosa ci si stia esattamente preoccupando, o di cosa assomiglia, o come potrebbe influenzare la salute degli esseri umani o, nel caso di un patogeno alieno, addirittura compromettere l'intero ecosistema terrestre.

Quando andremo su Marte, pertanto, dovremo preparaci a utilizzare procedure simili, tenendo presente che l'adozione della quarantena, se necessaria, dovrà essere applicata già sul pianeta, perché anche un banale raffreddore dovrà essere esaminato per capire se si tratta di un germe sfuggito al contenimento biologico della Terra, oppure qualcosa di "marziano". Questa attenzione, inoltre, non sarà limitata al solo equipaggio, ma comprenderà tutta l'attrezzatura che comporrà la missione, per evitare di trasportare "passeggeri non invitati", com'era accaduto nel 1969 con il batterio terrestre, sfuggito alla sterilizzazione prelancio, e poi trovato nella telecamera che gli astronauti di Apollo 12 avevano riportato a Terra, prelevandola dal Surveyor 3, sceso sulla Luna due anni prima.

Nel 1973, Carl Sagan pubblicò The Cosmic Connection - An Extraterrestrial Perspective, nel quale offrì la sua visione sul pericolo di patogeni marziani:

Proprio perché Marte è un ambiente di grande potenziale interesse biologico, è possibile che vi siano agenti patogeni, organismi che, se trasportati nell'ambiente terrestre, potrebbero causare enormi danni biologici. Una peste marziana, il colpo di scena nella trama di HG Wells War of the Worlds, ma al contrario. Questo è un punto estremamente serio. Da un lato, possiamo sostenere che gli organismi marziani non possono causare seri problemi agli organismi terrestri, poiché non vi è stato alcun contatto biologico da 4,5 miliardi di anni tra organismi marziani e terrestri. D'altra parte, possiamo argomentare ugualmente bene che gli organismi terrestri non hanno sviluppato alcuna difesa contro potenziali agenti patogeni marziani, proprio perché non ci sono stati contatti di questo tipo da 4,5 miliardi di anni. La possibilità di tale infezione può essere molto piccola, ma i pericoli, se si verificano, sono certamente molto elevati.

Intervistato sul coronavirus Sars-Cov2 e su cosa potrebbe accadere se si verificasse una infezione pandemica sconosciuta, John Rummel, uno scienziato senior presso il SETI Institute in California e funzionario dell’ufficio di protezione planetaria della NASA dal 1986 al 1993 e dal 1997 al 2006, ha così risposto:

Penso che potrebbe essere istruttivo considerare il clima di preoccupazione che accompagna l'attuale situazione con il coronavirus. Ad esempio, i test diagnostici disponibili per il coronavirus, in questo momento, non sono perfettamente precisi dato che l'infezione per sviluppare i sintomi può richiedere più di una settimana. E mentre un'infezione terrestre potrebbe essere limitata dal cambio di stagione, come accade per il Coronavirus, ciò non sarebbe necessariamente vero per un vettore di malattia extraterrestre. Penso che la sfida per un'attività di rimpatrio umano da Marte sia quella di essere aperti riguardo alle precauzioni prese di fronte all'ignoranza, che è quello che abbiamo ... quando discutiamo della vita su Marte. Gli scienziati hanno varie scuole di pensiero sul trasporto di campioni di Marte sul nostro pianeta, ma l'approccio precauzionale pianificato, basato su un rigoroso contenimento e test per la vita e i rischi biologici, è compatibile con il potenziale di scoprire la vita in un campione o altrove su Marte. Se si trovano tracce di vita nel campione analizzato, si hanno buone probabilità di poterla studiare nell’area di contenimento. L'aspetto negativo di questo approccio è che realizzare una struttura di contenimento prima ancora di andare su Marte o durante il recupero dei campioni da analizzare è enormemente costosa e complicata, ma a mio avviso indispensabile se non si vuole ignorare la potenziale presenza di vita su Marte.

Ed è proprio su questo tema che si è soffermato il recente rapporto del Planetary Protection Independent Review Board della NASA. Un approccio che sottolinea si debba sviluppare in anticipo una struttura di gestione dei campioni dedicata all'analisi e al contenimento dei minerali marziani. Il dott. Rummel ha inoltre dichiarato che, se si verificasse qualcosa come l’attuale situazione del coronavirus, qualsiasi altra struttura di contenimento potrebbe non essere disponibile in modo tempestivo, e potrebbe non essere in grado di soddisfare i requisiti necessari per garantire che qualsiasi organismo scoperto nel campione provenga da Marte, e non sia una contaminazione terrestre.

Anche Catharine Conley, responsabile della protezione planetaria della NASA dal 2006 al 2017 ha lanciato un allarme su una possibile contaminazione dalla Terra a Marte:

Come per le epidemie di malattie infettive storiche, il coronavirus che si sta diffondendo attualmente è un altro esempio del motivo per cui è molto importante comprendere le conseguenze dell'interazione con gli ambienti in cui gli esseri umani sono a contatto e come si possano diffondere i contagi. Nel caso dell'esplorazione di Marte, è molto probabile che eventuali organismi terrestri trasportati su Marte dai futuri astronauti possano causare danni alla possibile vita marziana e problemi alle future colonie. Se poi la vita su Marte è simile alla vita terrestre ciò renderebbe molto più difficile distinguerla da quella trasportata dagli astronauti, con il risultato che la contaminazione produrrebbe malattie che oltre a colpire le specie indigene colpirebbero anche noi.

Da tempo siamo consapevoli della visione della fantascienza, della Terra che riceve souvenir spaziali che trasportano organismi che potrebbero essere pericolosi per la fragile biosfera terrestre di cui io e anche voi facciamo parte. Tali arrivi potrebbero essere accidentali o potrebbero essere intenzionali ma in ogni caso ritengo che il nostro pianeta dovrebbe essere pronto a una simile evenienza a livello mondiale, e il contenimento di Covid-19 potrebbe darci molti insegnamenti al riguardo, speriamo solo che non servano mai.