Tra le cose che conservo con più cura e amore c’è una cartolina di auguri natalizi inviatami a dicembre del 1991 dai Nomadi. È una famosa foto che li ritrae mentre camminano lungo i binari della ferrovia in una zona che, a giudicare dal paesaggio, deve essere vicinissima alla stazione della loro Novellara. Al centro del gruppo c’è lui: Augusto Daolio. Sul retro, due firme, quella di Beppe Carletti e quella di Augusto affiancata da una sua auto caricatura con tanto di occhiali, barba lunga e sorriso accattivante.

Li avevo incontrati qualche mese prima a zonzo in un uggiosissimo pomeriggio invernale nel centro storico di Cosenza, nei pressi della biblioteca dove allora lavoravo. Erano in cerca di qualcosa da ammirare e da ricordare della parte più antica della città, alla cui bellezza si univa la suggestione di un generale abbandono abitativo. Li invitai a entrare in biblioteca e li portai a vedere i sotterranei dove stavano emergendo mura forse romane del terzo secolo a.C., senza nemmeno immaginare per un attimo che potessero non essere interessati a quelle pietre antiche. E invece, vuoi perché il luogo aveva un suo fascino, vuoi perché erano affabili e gentili, trovarono la visita interessante e si dimostrarono entusiasti della escursione.

Poi ci fermammo a chiacchierare. Se i nostri mastodontici cellulari di quel tempo non fossero stati limitati all’ esclusiva funzione delle telefonate, adesso, insieme alla cartolina, mi troverei un selfie col quale pavoneggiarmi con gli amici, mostrandomi in compagnia nientemeno che dei Nomadi, e avrei cercato Corrado, quel lontano compagno di scuola col quale avevo ascoltato, quasi di nascosto, su un economicissimo e rauco mangiadischi, la scandalosa Dio è morto che tanto ci aveva entusiasmato.

Augusto Daolio era persona piacevolissima e amabilissima, un vero e proprio antidivo, vestito con semplicità di una sahariana molto spartana. Notai che, visto così da vicino, non aveva l’aspetto quasi imponente che sembrava avere in televisione o sul palcoscenico di un concerto. L’avevo visto e ascoltato molti anni prima in uno spettacolo estivo in un lido del lungomare laziale.

L’emozione fu fortissima, e quando ci salutammo come vecchi amici, mi restò la delusione di non essere riuscito nemmeno ad accennare a nessuna delle cose che avrei voluto dire della loro musica, del tempo che avevo dedicato da ragazzo e che ancora continuavo a dedicare a loro e, insomma, della presenza dei Nomadi nella mia vita.

E mi resta un ulteriore rimpianto. Perché dopo la cartolina ricevetti un invito alla inaugurazione di una sua mostra di pittura a Novellara, alla quale, ottusamente preso da impegni di lavoro, non andai, non pensando nemmeno di scrivergli quattro righe, perdendo l’occasione di consolidare un’amicizia.

Augusto Daolio era un vero e proprio leader, che non ha mai pensato di sganciarsi dal gruppo per mettersi da solo, tentazione alla quale non hanno resistito tantissime voci di band famose che hanno, quasi mai con grande successo, intrapreso la strada solista.

Augusto Daolio è rimasto costantemente e tenacemente legato e fedele al suo gruppo, col quale ha continuato lungo un percorso spesso difficile, con una ferma determinazione ad affrontare anche temi scomodi, condivisi con Francesco Guccini, l’amico di sempre. E si è trovato in controtendenza alla moda canzonettara che dagli anni Sessanta in poi ha incontrato enorme successo e tantissimi soldi.

Canzoni scomode e scandalose per certo ipocrita perbenismo della cultura dominante di quegli anni. Dio è morto di Guccini, fece scandalo. Censurata dalla Rai che la bandì dalle sue reti, fu trasmessa da Radio Vaticana.

Musica incalzante e versi coraggiosi e durissimi: “Nei campi di sterminio, Dio è morto; coi miti della razza Dio è morto; con gli odi di partito Dio è morto”. E veniva stigmatizzata “l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto”; torto che rimava con l’agghiacciante grido “Dio è morto!” Ma si chiudeva con una certezza: “Noi sappiamo che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge”, e, perciò, “in ciò che noi crediamo Dio è risorto …nel mondo che faremo Dio è risorto”.

Era il 1965. L’anno dopo sia Guccini che i Nomadi lanciavano Canzone per un’amica, dedicata a un’amica morta in un incidente in autostrada. Testo toccante e coinvolgente, ma altro pugno nello stomaco agli habitué della canzonetta sentimentale e disimpegnata, altro scandalo, altra censura per aver osato l’azzardo di parlare di morte senza metafore in una canzone.

Nello stesso 1966 esordivano Come potete giudicare, versione italiana di The Revolution Kind di Sonny e Cher, altro brano scontroso, ma trascinante, e Noi non ci saremo, sempre di Guccini, contro la guerra.

Rivoluzionarie? Certamente! Le canzoni che i Nomadi portavano in concerto in Italia erano urticanti e sconvolgenti per un pubblico assuefatto alle melodie e ai ballabili sdolcinati o pseudo rocchettari che risuonavano nei balletti domestici di quegli anni. La televisione garbata, curiale e educata di allora, dallo stupore e dall’ostracismo facili, non dava ai Nomadi grande spazio; ma lo spazio glielo davamo noi, teenager, come ci chiamavano allora, che compravamo, anche con qualche sacrificio, i loro quarantacinque giri e correvamo, quando e se potevamo, ai loro concerti.

E aspettavamo di farla finita finalmente con i severissimi licei, nei quali non era permesso nemmeno farsi crescere barba e capelli, e di prendercela alla men peggio quella maldetta e faticosa maturità, per andare a dire la nostra nelle aule dell’università. Stava arrivando il sessantotto ed eravamo pronti a scendere in strada e a farci fermare e manganellare dalla polizia!

I Nomadi ci hanno accompagnato e infiammato anche quando siamo diventati adulti e hanno continuato a farlo, dopo la scomparsa di Augusto, anche ora che diventati anziani ci piace riascoltare Dio è morto, Come potete giudicare e soprattutto Noi non ci saremo.

Adesso che ritornano tragici tempi di guerra, noi, che abbiamo da poco superato la settantina, non ci chiediamo più se ne è valsa la pena di batterci allora o se ci siamo solo illusi, ma torniamo ad aspettare. Aspettare che “il vento d’estate che viene dal mare intonerà un canto fra mille rovine” … e che, finalmente, “risorgerà il mondo nuovo”, come cantava Augusto. Con un unico rammarico: che, assai probabilmente, come recitava il titolo della canzone: “Noi non ci saremo”.