"Erba betonica, che sei stata scoperta da Esculapio o forse dal centauro Chirone, ascolta questa mia preghiera! A te mi rivolgo, o grande tra le erbe, per colui che ha stabilito che tu nascessi e che fornissi innumerevoli rimedi. Ti compiaci infatti di dispensarne quarantasette!” Pronuncia questa formula e, dopo esserti purificato, prima del sorgere del sole, raccoglila nel mese di agosto.

In un libello attribuito ad Antonio Musa, medico dell’imperatore Augusto, e intitolato De herba vettonica, troviamo la fortunata eco di antichissime forme di devozione tributate alle erbe curative, che per lungo tempo sono state tramandate oralmente. Formule di preghiera che nel momento rituale della raccolta venivano affidate alla parola incantatrice per propiziare l’attivazione divina, dunque farmacologica e salvifica, dell’erba officinale, per onorare il principio divino che dimorava nella pianta e agevolare la trasformazione in farmaco. Nella medicina sacerdotale e nelle sue successive rivisitazioni, alla funzione magica e trasformativa della parola spettava un importante ruolo di intermediazione: formule, scongiuri, litanie e preghiere animano molti trattati di medicina antica, così come in seguito costelleranno gli episodi di guarigione miracolosa attribuiti a santi e sante. Le parole erano considerate alla stregua di ingredienti medicinali, per loro natura intrinseca o come supporto a una preparazione terapeutica.

Magna herbarum, “grande fra le erbe”. Così veniva definita la betonica, alla quale già gli egizi attribuivano virtù magiche: in epoca classica era considerata una panacea capace di guarire ben quarantasette diverse malattie, e secondo Plinio il Vecchio poteva “curare il corpo e l’anima dell’uomo”. Veniva chiamata anche “erba dei dodici dèi” (dodecatheon), per sottolineare la grande sinergia di forze che sosteneva il suo valore medicinale; per questa ragione andava raccolta rivolgendo un’invocazione ai suoi scopritori, il dio medico Esculapio e il centauro Chirone, padre della chirurgia.

Nel passaggio dall’antichità classica al medioevo e nel processo di contaminazione fra antiche forme di sapere pagano e cristianesimo, non è insolito trovare nelle fonti la convivenza di incantesimi e preghiere, sincreticamente mescolati. In due testi medievali anglosassoni datati intorno al IX secolo, il Leechbook e il Lacnunga, interessanti miscellanee di rimedi e incantesimi di guarigione della medicina popolare, compaiono ricette che testimoniano la fluidità del confine tra magia e azione sacramentale. La “compatibilità” fra ingredienti ed elementi terapeutici di natura diversissima spiega la pacifica convivenza di sovrapposizioni culturali e religiose e la fluidità nelle interferenze fra credenza popolare e ortodossia. Ecco un preparato indicato per un male identificato come “cuore di legno”, dove compare anche la betonica:

Per il cuore di legno: betonica, lupino, bonewort, everfern, githrife, heahhiolothe. Quando il giorno e la notte si separano canta litanie in chiesa, vale a dire i nomi dei santi, e il Padre Nostro; cantando la canzone spostati in modo da essere vicino alle erbe e gira intorno tre volte; e quando le hai raccolte torna alla chiesa cantando lo stesso canto. E canta dodici messe in onore dei dodici apostoli per le erbe e per le bevande appropriate per la malattia.

Come si vede, il linguaggio liturgico cristiano sposa le antiche liturgie di sapore pagano, attraverso l’azione complementare della parola incantata e del gesto propiziatorio: la scelta dell’ora, la danza in cerchio intorno alle erbe per tre volte, secondo gli antichi precetti, la processione cantata recando le erbe raccolte verso la chiesa, dove si può presupporre che esse venissero sminuzzate e lavorate in prossimità dell’altare. Infine, il riferimento al numero dodici, nell’indicazione delle dodici messe cantate in onore dei dodici apostoli, significativo soprattutto in quanto riferito nello specifico a questa pianta.

La betonica, essendo un’erba comune e di facile reperibilità, ha goduto di un utilizzo ininterrotto nella farmacopea popolare del passato, tanto da ricorrere nell’uso proverbiale in espressioni quali “avere più virtù della betonica” e “essere conosciuto come la betonica”. In alcune tradizioni regionali è detta “erba stregona”, e “betonica” era anche talora chiamata la comare. Veniva utilizzata per le sue proprietà vulnerarie, antipiretiche, espettoranti e purgative e ritenuta giovevole soprattutto per la salute delle donne. Il succo ricavato dalle sue foglie identificava uno dei semplici rimedi “universali” che le curatrici popolari utilizzavano per curare numerose infermità.

Compare anche nella farmacopea di Ildegarda di Bingen, la grande mistica e teologa che fu anche un’attenta naturalista e indagatrice della salute umana. Nella farmacopea ildegardiana la betonica era considerata utile per sciogliere gli incantesimi e le fatture d’amore, così come per guarire dalla follia della passione amorosa. È definita una delle erbe su cui “l’inganno del diavolo stende talvolta la propria ombra”. Il suo utilizzo prevedeva una particolarissima liturgia, in quanto si credeva che fossero attive solo quelle foglie non ancora “irretite dagli incantesimi”, ovvero che non fossero mai state utilizzate per scopi terapeutici.

Collochi una foglia in ciascuna narice, una foglia sotto la lingua, tenga una foglia in ciascuna mano, collochi una foglia sotto ciascun piede e guardi fisso la betonica con tutta la forza del proprio sguardo. Lo faccia finché le foglie nel suo corpo si saranno riscaldate e lo faccia spesso, fino a quando starà meglio. Guarirà così dalla follia amorosa, a condizione che non introduca nel proprio corpo, mangiando o bevendo, nulla che possa eccitare la passione. Chi, uomo o donna, è stato irretito dall’amore di un altro grazie a parole magiche, tenga sempre con sé della betonica e starà meglio.

(Dal Libro delle creature di Ildegarda di Bingen)