«Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per conservarne solo le quintessenze. Ineffabile tortura in cui egli ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, in cui egli diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il supremo Sapiente! – Poiché egli arriva all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di chiunque altro! Egli arriva all’ignoto, e anche se, sgomento, finisse col perdere la comprensione delle sue visioni, le ha viste!».

Il precetto rivolto ai poeti, che Rimbaud scrisse nel maggio del 1871, pare trovare il suo degno e ideale corrispettivo nelle opere di Simone Pellegrini. Alla maniera degli alcaloidi, lenitivi e nocivi al contempo, i segni di Pellegrini tendono a subire una curvatura che inclina verso una parabola isterica, al culmine della quale troviamo un dérèglement biologico. Le matrici che compongono l’opera sono impresse sui fogli come fossero marchi infuocati, o come fiotti venosi-oleosi che fissano (ma non fossilizzano) le forme. Pellegrini è un artista ma anche un sector che fa a pezzi l’immagine, la riduce in idee/teoremi attraverso le quali vorrebbe verificare “tutte le condizioni possibili” in uno spazio e in un tempo limitato.

Intollerante alla concezione della storia come qualcosa di unico e unitario, Pellegrini compie una rimemorazione erratica, finanche eretica, che costringe le immagini a rinnegarsi o a superarsi, tenendo fede alla loro disobbediente predestinazione. Le figure, infatti, resistono strenuamente e ostinatamente a ogni struttura definit[iv]a, invocando per sé il dispendio, la distorsione, l’incostanza; sottoposte alla feroce disgregazione dell’essere, esse appartengono a quello che potremmo definire il “Destino dell’imperfetto”, ossia un estraniamento corporale che è al di fuori della natura e al di là di ogni raziocinio. Pre-logiche e pre-adamitiche, questre creature ci appaiono dispensate dal peso della vita, come pure dalla tragedia della morte: non vivono, non muoiono, semplicemente “sono” e “accadono”. Appartengono altresì a un’umanità priva d’omphalos, in quanto possiedono un contorno ma non un centro.

Assecondando i ritmi e i controritmi di una danza virulenta, la disarticolazione delle membra segue uno sviluppo planare che attecchisce sulle carte da spolvero, superfici che virano in un giallo evocante un assolato e desolato abbandono paesaggistico – mai prospettico. Mutuando il titolo di una mostra inaugurata dall’artista qualche anno addietro, si potrebbe definire queste opere una Devasticoltura, vale a dire una persistente cultura del dissesto, foriera di perpetue collusioni, giacché quando i corpi-frattali si scontrano ne derivano sempre dei traumi, strazio che corrisponde a una stratificazione del senso (che spera) come pure della forma (che dispera). Non sarebbe quindi improprio riconoscere in questo rituale della difformità-deformità le parole di Eugenio D’Ors: «Il Caos fa sempre guardia nei sotterranei della dimora del Cosmo».

Testo a cura di Alberto Zanchetta