“19. Pierrot le fou, girato nell’estate del 1965 così rapidamente da consentirne la presenza alla mostra di Venezia nell’agosto dello stesso anno, è senz’altro uno dei più ricchi, sfaccettati, variegati film di Godard. Per esso si è proposta la definizione di film-caleidoscopio, che individua sia la vivacità cromatica della sue immagini, sia la struttura fatta di instabili equilibri fra elementi eterogenei, di un continuo accavallarsi e rispecchiarsi di una serie di frammenti di base.”

La pellicola in questione, di pochi anni prematura rispetto agli sviluppi politico-culturali del '68, incarna pienamente la dinamica di transizione e tensione tipica degli anni Sessanta: scalo tra i pastiche/recupero di una memoria storico-artistica e la spinta post-strutturalista, Pierrot le fou si destreggia all’interno della crisi della rappresentazione e del Segno che interesserà l’Arte successiva. Film caleidoscopio poiché congestiona la mole d’influssi e reflussi che Godard costipa forse alla ricerca di una tanto ambita narrazione - o al contrario - di una sua disgregazione. Il film attinge da un repertorio culturale vastissimo e probabilmente ne anticipa altrettanto; un citazionismo spassionato propina riproduzioni di Picasso, Renoir, Modigliani e richiama avanguardie d’inizio secolo come il Dada o il Surrealismo. La dissoluzione degli elementi, del linguaggio, la volontà di un distacco oggettivo implicito nelle narrazioni con voce fuoricampo, sono invece tutti segnali di una commistione di tendenze all’epoca contemporanee. Sono moltissime le tematiche e le riflessioni che la pellicola suggerisce e forse anticipa cronologicamente rispetto alle neoavanguardie artistiche, in una tensione verso il futuro prossimo.

Fin dai titoli di testa osserviamo una composizione fuori dalla norma che realizza nel tempo la sua funzionalità: iniziando dalla A fino alla Z, i titoli si compongono lettera dopo lettera in un’intermittenza cromatica, in una successione e non nell’immediatezza a-prioristica, richiamando un gusto Dadaista e/o Marinettiano e preannunciando i giochi di significazione di neon colorati che troveremo successivamente. Questo incipit suggerisce inoltre il concetto della processualità temporale largamente discussa nell’ambito della prassi artistica di quegli anni. Seguono quattro sequenze discontinue, di un’inquadratura ciascuna, che appaiono casualmente giustapposte come trama visiva in corrispondenza del testo che l’attore legge: "Velázquez dopo i 50 anni non dipingeva mai una cosa definita. Girovagava intorno agli oggetti come l’aria e il crepuscolo... Lo spazio regna supremo".

Ed è proprio qui che risiede la volontà di Godard: frammentare la continuità narrativa per inserirsi nelle fenditure. Tra i singoli passaggi spesso l’autore inserisce citazioni, che talvolta vengono recitate dagli attori, talvolta dal regista stesso in voice over. In entrambi i casi, il fenomeno appare come una digressione che non genera vuoti di senso, ma parentesi significanti, indipendenti e parallele: la temporalità si disarticola in una sincronicità più coerente alle pratiche artistiche del video che non alla narrazione lineare cinematografica. “Tale polifonia temporale è lo stato mentale in cui noi tutti viviamo costantemente”, afferma Husserl e prosegue asserendo che è il soggetto a detenere la funzione di raccordo tra tutti i flussi di coscienza di tale polifonia.

Ma cosa accade quando, come in Pierrot le fou, il soggetto stesso viene al contempo disgregato tramite uno straniamento brechtiano e scisso dall’invadente interferenza autoriale del regista? Come nei lavori di Eija-Liisa Ahtila forse si viene condotti alla schizofrenia, a una disgregazione mentale mediante una narrazione multistrato e labirintica. Se in If 6 was 9 (1995) o Anne, Aki, and God (1998) Ahtila coniuga immaginazione e documentario in una proiezione multischermo generando un flusso omogeneo di coscienze differenti, allo stesso modo opera Godard, il quale - oltre a interferire prepotentemente con il canovaccio degli attori, dedica ampie metrature di pellicola a vere e proprie interviste (con doveroso sguardo in macchina!) rimediate dai passanti in prossimità del set.

L'autore attraverso la cromatografia, la letteratura e più genericamente l’arbitrarietà del linguaggio, dà vita a una narrazione surrealista, contradditoria, figlia di uno spirito d’improvvisazione ereditato forse dagli happening, che attraverso un’inesauribile combinazione di elementi, scompone la linea temporale narrativa in una sincronicità epilettica mono schermo che non risente della mancanza di un supporto di multi proiezione.

La Macchina da presa spesso “inciampa” nei vuoti, soffermandosi proprio sulle fenditure spazio temporali: sembra esprimere un’affezione per quella “produzione attiva del vuoto” di cui parlava Barthes e che Birnabaum cita in Cronologia per sostenere le opere di Gonzales-Foerster. Il regista immortala spesso la temporalità reale, non manipolata, incoraggiando la spontaneità e la naturalezza ma paradossalmente per guardare altrove: lui stesso diffida delle immagini, del loro senso compromesso, della loro condizione simulacrale attribuitagli dalla cultura di massa. Allora gli fugge, sovrapponendovi la pregnanza del testo. Come se un’inquadratura ne suggerisse latentemente una opposta, celata nelle fenditure.

Il testo, come evidenziato, riveste un ruolo da protagonista nella pellicola e si pone come utile parametro di confronto con l’arte di quegli anni. Alla maniera di Bruce Nauman, Godard seleziona pezzi d’insegne pubblicitarie effettuando un subvertising; dal neon rosso e blu recante la parola RIVIERA estrarrà tramite l’intermittenza luminosa la parola “VIE”. A braccetto con le immagini, tramite le numerose inquadrature della réclame, o nella memorabile scena costituita da inquadrature monocromatiche all’interno delle quali i personaggi recitano testi e slogan pubblicitari, la parola svolge un ruolo - se non critico - quantomeno documentativo del dilagare della cultura di massa. Di frequente, gli attori descrivono azioni che non compiono e voci off accompagnano sequenze di riproduzioni di opere d’inizio secolo, illustrando frammenti di dialoghi quasi surrealisti, la cui identità visuale-reale viene occultata: se da una parte questo potrebbe essere letto in chiave concettuale come una scomparsa dell’oggetto, gli si potrebbe opporre - dall’altra - la ridondanza dell’esplicitazione visiva dei pensieri tradotti in un diario filmato.

La dicotomia della “reificazione” (in questo caso testuale) e della scomparsa, viene attinta dal panorama artistico dell’epoca: da una parte l’arte minimalista si concentra sulla percezione, sul concetto di presenza e di temporalità linguistica, reintroducendo l’interesse per il dialogo tra oggetto e soggetto, esortando all’accettazione del site-specific, degli specific object e precisando la volontà di una produzione in serie al pari della pop art, della quale tuttavia non condivide la simulacrità. Lucy Lippard, dall’altra, si occupa invece di studiare i processi dell’arte concettuale, che si libera definitivamente del referente e frequentemente del segno stesso, utilizzando a volte come unico supporto-superstite proprio la parola. Il concetto della serialità, del ritorno, della ciclicità, trattato anche da Birnbaum riguardo la ricerca di una differente temporalità nel video, viene applicato da Godard attraverso la ripetizione di brevi sequenze ma ogni volta diverse.

Il disorientante piano sequenza a circa 20 minuti dall’inizio del film, sembra riproporre ciclicamente una scena, partendo dalla fine per ricondurci indietro nel suo svolgimento, in un abile movimento circolare della macchina da presa: che sia un flashback o meno, l’impressione derivante è quella di una capace manipolazione temporale mediante la spazialità, intuitivamente “anticipatrice” del concetto sostenitore dell’opera Fernsehturm (2001) di Tacita Dean. Il “ritorno” viene espresso anche mediante quella nostalgia tipica degli anni Sessanta che il regista sembra esplicitare all’inizio del film mediante due frasi chiave che chiudono la sequenza monocromatica.

"Stacco al nero. Fuochi d’artificio squarciano il cielo.
Ferdinand annuncia il secondo capitolo: 'alla ricerca delle cose passate – Marianne Renoir'."

La casa di Marianne, che compare subito dopo, offre ulteriori e numerosissimi spunti: le pareti bianche, tappezzate di cartoline di riproduzioni d’arte, confermano l’arrivo del ritorno al passato; l’ambiente in costruzione, con mattoni nudi, trasmette un senso di processualità che probabilmente è implicito nell’operato del regista; compaiono oggetti del tutto decontestualizzati, come le innumerevoli file di fucili addossati alle pareti, intervallati dalla plastica blu, gialla e rossa di oggetti e soprammobili, in una commistione a metà strada tra un ready made Duchampiano e le commodity sculptures di Koons e Steinbach. La predominanza dei colori primari e soprattutto del rosso richiama superficialmente il Neoplasticismo e il Costruttivismo, ma è l’evidente impegno socio-politico della pellicola - esplicitato attraverso i numerosi ammonimenti alla guerra del Vietnam - a condurci verso una simile lettura.

Nella pellicola, anche suono e immagine sono spesso combinati tra loro a guisa dei collage e degli object trouvè dadaisti e proprio come per questi ultimi, l’assemblaggio avviene tra elementi eterogenei: come abbiamo visto non è raro che una conversazione sonora (voice over) sottenda sequenze di dettagli di quadri noti o inquadrature non subordinate ad essa; il pensiero del regista - traslato nel personaggio - diviene invece un monologo interiore accostato alla sua fedele trascrizione visiva.

Le considerazioni su Pierrot le fou potrebbero essere interminabili. La trama, da noi del tutto trascurata, è - come scritto da Alberto Farassino - “insufficiente a cogliere la reale complessità del tutto. Insufficiente e sviante, poiché la rivolta antiborghese e anarcoide di Ferdinand non è paragonabile alla rivolta linguistica di Pierrot le fou: quella è sterile e si risolve nell’artificio, questa va a toccare direttamente i principi produttivi del senso e dell’immagine” .

Questo breve estratto, con le sue asserzioni concise, sembra coronare l’analisi intrapresa: l’opera cinematografica in questione, senza remora alcuna, può essere coerentemente collocata all’interno della tensione/dialettica socio-culturale, ma soprattutto artistica, coeva. Pierrot le fou, superando la tradizionale temporalità, si articola in una “narrazione” instabile e poliedrica, costruita sulle giovani fondamenta di una rivoluzione/rivalutazione dei linguaggi, del segno semiotico e conseguentemente, dell’immagine.