Ho un ricordo personalissimo e privato del maestro Galeazzo Viganò, scomparso il 25 settembre 2021 all’età di 84 anni. Un artista che ho amato immensamente e che ha donato tanto del suo genio al mondo.

Il maestro mi aveva invitato nel suo studio abitazione situato in un palazzo storico nel cuore di Padova, a pochi passi da piazza Capitaniato, in via Dondi dall’Orologio nella stessa strada dove si trova la Reggia dei Carraresi, sede dell’Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti di cui l’artista era socio.

Un pomeriggio di quasi 15 anni fa, Viganò mi accolse insieme alla sua compagna e musa ispiratrice, Sandra Varagnolo. Per me fu un’immersione nel mondo prezioso e delicato del maestro. Pittore e incisore dall’immensa cultura, Viganò è stato un autentico ricercatore della luce e della bellezza. Mi raccontò la sua ricerca, il suo sguardo, l’importanza di dare alle opere il supporto più adeguato. Mi mostrò quei meravigliosi pennelli cesellati, quelle pietre preziose che ricordavano l’arte orafa medievale, gli studi preparatori per i suoi quadri, gli schizzi di gioielli. Con Sandra, la sua inseparabile metà mi diede l’impressione di vivere da sempre unito nell’anima e nella visione, due parti di un unico frutto quello della creatività artistica portata ai massimi livelli.

Galeazzo Viganò, nato a Padova ha sempre ricercato l’azzurro del mare. Forse i suoi studi all’Accademia delle Belle Arti di Venezia devono avere impresso in lui le cangianti tonalità degli azzurri veneziani che si riflettono nell’acqua che circonda l’anadiomene. Perché il mare e la laguna veneziana, per Viganò, coi suoi eleganti palazzi da cui occhieggiano bifore e trifore arabesche, rappresentano un viaggio dello spirito verso terre lontane, isole incantante, torri e muri di cinta oltre i quali si cela l’infinito ritorno. Fumo, tanto fumo nello studio del maestro Vigano, la meditazione del tabacco e il silenzio nell’ascolto di un’ispirazione che diventava, nel suo caso, soluzione all’enigma del tempo. Le opere di Viganò sono mare, cieli, spiagge sulle quali si ritrovano simboli, cartigli, scritture in lingue morte, gioielli abbandonati, teli di seta, rovine marmoree sulle quali vivifica e si arrampica l’edera. Sono luoghi ove è totalmente assente la presenza umana, vi è traccia però dell’ingegno, del genio dell’uomo espresso attraverso manufatti che ne testimoniano la massima intelligenza.

I titoli ripercorrono gli affacci sull’Adriatico e il Mediterraneo. Non solo Venezia con San Marco, la Ca’ d’oro, Fondaco del Megio, Chioggia il complesso dei Rossi, dunque, ma Atene, Candia, Corfù, Bisanzio, Bari, Trani, Molfetta.

Ci sono anche squarci metafisici in Viganò come ne La pala di Praglia, un’opera alta più di due metri in cui raffigura San Leopoldo e Sant’Antonio o in Filoxenia o in Mare con altare o in Marina con colonna e drappo rosso, o nei ritratti quasi simbolisti di Elio Peruzzi e Nicolò Luxardo.

Vittorio Sgarbi presentando l’opera di Viganò in Venezia Bisanzio, il mare e l’oro, scrisse come Viganò restasse in studio “per lunghissime ore, meditando sui particolari con quasi ossessiva fissità. Lavora molto e produce pochissimo”, raccontava il critico ferrarese.

Giorgio Segato narrando la poetica dell’artista padovano nello stesso testo sottolinea come Viganò fosse “un esploratore dell’Adriatico, una specie rara di viaggiatore ‘archeologo’ che per mare e nella pittura intende ripercorrere le antiche rotte della civiltà mediterranea”.

Tuttavia, è Lionello Puppi che affronta nella sua dimensione più compiuta lo studio della luce che attraversa tutta l’opera dell’artista. Un tema della luce sul quale, ricorda Puppi, Viganò ha lavorato per lustri “con un’applicazione che si vorrebbe dire accanita, ostinata, intransigente”. Ma non solo, per Puppi è l’invisibile, l’incoglibile ad affascinare la ricerca artistica di Viganò. “L’invisibile che il suo sguardo coglie - scrive ancora Puppi - non è che il visibile colto, alfine nella sua pura totalità, immagine immota e limpida che le cose, i segni, le tracce vorticanti entro un mare sconvolto da venti di tempesta insensata che li spinge ad accavallarsi, incrociarsi, scontrarsi, sobbalzare, affondare, ricompone come simboli e metafore nell’ordine di un cosmo lucido e imperterrito”.

La storia artistica di Viganò inizia nel 1957 insieme al Gruppo Alassio con Carlo Cattaneo, Glauco Pellegrini e Carlo Levi, che di tale gruppo artistico fu l’iniziatore e l’animatore. Nel 1978 giunge la consacrazione ad artista su scala nazionale e internazionale, traguardo al quale Viganò arriva quando con l’Associazione Incisori Veneti espone a Vienna, Praga, Parigi, Innsbruck e Leningrado; quindi, nel 1983, partecipa, alla mostra di grafica della Quadriennale d’arte di Roma, con tappe a Montreal, Ottawa, Toronto e Vancouver.

Personalità annoverata tra gli intellettuali più accreditati nel mondo dell’arte, Viganò ha ritratto anche Eugenio Montale.

Un capitolo a parte meritano gli strumenti che il pittore e incisore padovano utilizzava per realizzare le sue opere. Oggetti che per la bellezza e la preziosità meritano di essere esposti in un museo. Ho avuto il privilegio di vederli nello studio-abitazione del maestro, ho ammirato i meravigliosi pennelli in avorio istoriati e abbelliti da pietre preziose: smeraldi, rubini, lapislazzuli. Le penne con le punte d’argento che Viganò utilizzava per disegnare le sue opere, sono oggetti di una bellezza incredibile; sono in argento, oro e diaspro orbicolare, punte d’ottone e argento dalle impugnature lavorate e disegnate. Ci sono i meravigliosi pennelli con i manici in avorio con incastonati piccoli rubini, smeraldi, zaffiri, giade, topazi.

La bellezza nella bellezza, l’arte nell’arte, la ricerca estetica e concettuale, l’elaborazione onirica e simbolica, ermetica e spirituale. Si sprecano gli aggettivi per descrivere la personalità poliedrica e sfaccettata di Galeazzo Viganò, personalità che trova piena espressione nella sua opera e negli stessi strumenti che portano alla luce il suo pensiero su tela, su cartiglio, su qualsiasi supporto il maestro decida di imprimere il suo segno mai uguale a se stesso.

La sua dipartita è una perdita enorme per la cultura italiana e per l’arte in generale, forse servirà a far riscoprire alle giovani generazioni un artista a tutto tondo, una figura unica nel panorama artistico, una mente che non ha mai smesso di ascoltare il silenzio e di guardare dentro le cose.