Al netto dei saluti iniziali e dei convenevoli alla fine della conversazione, la telefonata tra Joe Biden e il presidente cinese Xi Jinping è durata novanta minuti. Che possono essere tanti, se parametrati alla media di una normale telefonata tra persone ''ragionevoli'', oppure pochi, se si pensa al profilo dei due interlocutori e ai dossier dei quali avrebbero potuto parlare.

Sui contenuti della telefonata, per come è giusto che sia, è stata calata una cortina di riserbo, ma non è certo difficile pensare che Biden e Xi si siano confrontati su temi diversi, la maggior parte dei quali con atteggiamento condiviso, ma su alcuni le divergenze potrebbero essere state palesi.

Come, ad esempio, il delicatissimo tasto della rivalità commerciale tra Cina e Stati Uniti, anche alla luce del fatto che Pechino, dall'inizio del secolo, sta portando avanti in questo settore una politica molto aggressiva, anche in termini di acquisizione di tecnologia, usando tattiche che Washington ritiene al limite della scorrettezza.

D'altra parte, sin dall'antichità, lo spionaggio industriale è prassi quotidiana, soprattutto se si tratta di tecnologie che riguardano la guerra. Basta pensare al fuoco greco, la micidiale mistura (forse a base di petrolio) che rese per decenni i bizantini padroni del mare Mediterraneo e capaci di spezzare la resistenza di assediati a partire dal 668. Per carpirne la formula, i nemici dei bizantini, soprattutto quelli europei, scatenarono le loro ''intelligence'', ma senza grandi fortune. Lo stesso sta accadendo ora, con Stati Uniti e Cina che non risparmiano risorse ed energie per essere, tecnologicamente, un passo avanti all'avversario.

Ma il fatto che Pechino e Washington si parlino - peraltro dopo un silenzio durato sette mesi, da dopo l'insediamento di Biden - è già un fatto positivo, anche se non autorizza a grandi speranze. I campi sono nettamente opposti e tra gli argomenti divisivi c'è anche il rispetto dei diritti umani che dagli Stati Uniti si vedono quotidianamente violati da parte di Pechino, soprattutto nei confronti dei dissidenti di Hong Kong e delle minoranze confessionali. Ma questi sono argomenti da trattare con distacco perché si tratta di vicende interne sulle quali Washington può mostrare il suo rammarico, ma niente di più. Invece il confronto serio deve esserci stato sulla guerra di tariffe che, scatenata da Donald Trump, Joe Biden sta continuando a portare avanti (anzi, ha allungato la black list di aziende cinesi messe all'indice) senza avere pensato per un attimo di fare un passo indietro.

''America first'' era stato il leit motiv di Trump e se Pechino si aspettava un cambio di tendenza da parte di Biden è sicuramente rimasta delusa.

Come da protocollo diplomatico, le due presidenze non hanno commentato ufficialmente lo scambio di vedute. Ma per meglio capire vengono in soccorso le fonti ufficiose come, nel caso di Pechino, la televisione di Stato CCTV che, nel dare notizia della telefonata, ha usato due aggettivi, ''chiara'' e ''approfondita'', che, traducendo, stanno a significare che i dei presidenti hanno deciso di parlare di tutto e che lo hanno fatto andando al cuore dei problemi. Ma CCTV ha voluto mettere in chiaro che è da Washington che Pechino si aspetta una prima mossa perché questa fase della politica tra i due Paesi è stata resa difficile dall'atteggiamento americano che ha determinato ''serie difficoltà''. Washington tace, ma c'è sempre un funzionario della Casa Bianca pronto a parlare, con garanzia di anonimato, per dire che gli Stati Uniti non possono chiudere gli occhi davanti alle ''pratiche commerciali sleali e coercitive'' che Pechino porta avanti. Poi, ma restiamo nel campo delle probabilità, forse Biden e Xi hanno anche affrontato tempi di politica estesa, come l'annosa e irrisolta questione delle mire di Pechino su Taiwan e altre isole del Mar della Cina, tacendo del dossier nord-coreano cui ha ridato slancio l'ultimo esperimento con un missile balistico.