È venuta al mondo accanto al mare quindi non vuole stare nelle paludi. Le onde del cuore guidano i suoi percorsi interiori ed esteriori che perciò coincidono e quando sta per sprofondare nell’acqua stagnante se ne accorge quasi subito, o almeno lo fiuta, e salta fuori appena può, lasciandosi dietro i ranocchietti del pantano.

“Per me è importante essere in contatto con la mia essenza primaria” dice Angela Simone che chiama le sue creazioni in carta di gioielleria contemporanea Emotional Paper Jewels.

Emotional perché nel 2003 sono nati i gioielli mentre vivevo un momento complesso per vari motivi e avevo chiuso con le emozioni che attraverso questo lavoro si sono trasformate.
Mi vien da ridere… io col gioiello non c’entravo niente. È tutto buffo a ripensarci, ma a me piace cambiare, crescere. Non sono mai stata una d’azienda del tipo ‘lì ci nasco e ci muoio’. Lo trovo inconcepibile.

Trepidante e limpida, Angela Simone adora il mare che considera il suo prolungamento e preferisce dormire con il rumore della risacca. Ligure di Albenga, ha studiato all’Istituto europeo di design di Milano ed è stata grafica in molte testate giornalistiche fra le quali, ultime in ordine cronologico, Elle e Glamour, e ha amato davvero la sua professione.

Nel 2003 scoprì il quilling, tecnica che la ispirò. Nel 2004 la prima collezione e adesso, di mostra in mostra, di fiera in fiera, (Lucca, Milano, inclusa la Triennale del 2009, Vicenza, Lipsia, Barcellona, Sofia, Karlsruhe, Amsterdam), espone fino al 21 marzo alla V Exposition Contemporary Jewels AdOC di Madrid.

Riconoscimenti seri, dunque.

La mia direzione non è commerciale, ma artistica e se finisse la parte giocosa per me finirebbe tutto. Se io mi mettessi realmente in competizione con qualcuno o qualcosa, non ce la farei, non sono competitiva, cadrebbe tutto. Sono stata sempre in secondo piano, mi ci sono messa per scelta e ci resto: non amo primeggiare. Anche a basket passavo la palla, non andavo mai a canestro. Mi spingono la curiosità e i materiali.

Autostima un po’ sgualcita, confessa. Eppure, Angela Simone insegue la libertà, attività umane fra le sommamente stimabili.

In principio c’erano le gabbie?

Gli amici mi vedevano come l’artista del gruppo, ma non capivo che cosa volessero dire. Figlia di un padre molto rigoroso, ero una grafica concentrata sul dovere: bianco o nero, esattezza, pulizia, puntualità. Dopo la scuola avevo cominciato a lavorare con Romano Carrier Ragazzi noto art director che firmò il progetto di PM Panorama Mese. Io arrivai da lui negli anni Novanta quando aprì il suo studio e lavorai su testate come CasaViva, Sale&Pepe, Interni.

Romano mi faceva lo schizzo, per esempio per i periodici di architettura, e io ritagliavo l’immagine della poltrona o dell’armadio e assemblavo sulle pagine. Esperienza molto bella, ma era la grafica delle gabbie: non si deragliava dai binari. E io avevo bisogno di uscire da quelle gabbie. Poi sono andata a Moda, giornale innovativo, dove è avvenuto lo ‘sgabbiamento’: ho capito che potevo progredire, sia a livello professionale che personale, lavorando creativamente, agganciando aspetti diversi, compresa la psicologia che mi interessa tantissimo.

Non sono uscita solo dalla gabbia, sono proprio uscita fuori io.

Anni dopo creare gioielli ha rappresentato un’ulteriore presa di coscienza?

Sì, di chi sono realmente. Quando ho cominciato, il gioiello realizzato con materiali poveri non era ben visto: mi sono trovata al momento giusto in questa evoluzione. Io, che avevo cominciato per un percorso personale, senza la volontà di entrare nel mondo del gioiello contemporaneo, mi ci sono buttata dentro come una bambina. Seguivo Angela, non l’inserimento in quel mondo. Seguivo quello che sentivo con il lato infantile che mi porta nella vita nel modo migliore per viverci: dentro le favole. Per me è un’avventura e prendo quello che mi viene dato.

Perché la carta?

Ho scelto subito il materiale che mi assomiglia, anche se l’ho capito dopo. Ne ho scoperto sia la leggerezza, che mi appartiene, sia la struttura più solida. La carta è sempre intesa come qualcosa di effimero, delicatissimo, che si rompe, che si brucia. Si può bruciare, ma è anche resistente e compatta, non dimentica la sua struttura di fibra legnosa.

Inoltre avevo la necessità di tornare alla carta dopo che ero stata piazzata davanti a un computer senza neanche una spiegazione o un corso per utilizzarlo. Quell’aggeggio mi toglieva forza, tornavo a casa con la nausea. Sono in attento ascolto del mio corpo e mi accorgevo che lo strumento non andava bene per me, che poteva farmi ammalare.

Avevo iniziato a studiare grafica perché mi piaceva la scrivania piena di carte colorate e di colla: me le sono riprese.

Che cosa provi nel vedere indossata una tua creazione?

Grande gioia. E chi la porta mi rimanda la sua felicità, come la mia amica Patrizia di Carrobio che per me è una fata. Non vorrei che i miei gioielli fossero indossati da una massa. Non sono per chiunque, ma per chi percepisce l’anima oltre l’oggetto.

Ho trovato un modo di portare emozione agli altri ed è un regalo della vita (si commuove nel parlarne n.d.r.). Continuo a essere grata alla vita che mi ha tolto tanto, ma mi sta dando tanto di più.

I pezzi li fai tutti tu?

Tutti io. Parto dal foglio, all’inizio usavo anche la carta del giornale che ha le scritte ed è affascinante con il sapere dentro. Andavo a imparare al circolo Paper Factory di Luisa Canovi, origamista: ho rilegato, costruito cassettiere, cornici e ‘incontrato’ il quilling. Ah, le cornici… Scusa, parlo tanto, mi perdo (sorride n.d.r.). Parto dal foglio, dicevo, e ritaglio a triangoli o a rettangoli, lavoro sulle misure della base e dell’altezza. A secondo dei tagli si ottengono perle di diversa grandezza, più o meno panciute. Il cartoncino ondulato è doppio e dà volume invece la carta di riso giapponese, splendida, con i fili in trasparenza, è molto difficile da lavorare, con la colla diventa un fazzolettino bagnato. Proprio l’onduline mi ha dato maggiore visibilità: permette di creare un gioiello-scultura che l’acquirente è disposto anche a pagare di più. Comunque, se non vendo, pazienza!

Nel lavoro c’è una prima fase che chiamerei meditativa: il disegno e i tagli devono essere precisissimi sennò le perle vengono sbilenche. Poi passi alla fase creativa dove metti insieme le perle, ed è immediata, istintiva. Se invece pensi che il gioiello andrà a finire in un museo devi riflettere. Io faccio parecchie cose insieme, mi allargo su due, tre, quattro tavoli, prendo, mollo, ricomincio. Intanto che si asciuga la colla lì, stendo il vetrificante qui, attacco con un’altra idea di là. E, a proposito di idee, in futuro vorrei utilizzare la porcellana.

Angela Simone è copiatissima…

Su Pinterest si copia facilmente e certo ci resto male. Dovrei pubblicare un catalogo con le mie creazioni e per fortuna i lavori degli anni iniziali sono già stati documentati quando esposi a Casa Cogollo a Vicenza. A volte dovrei ricorrere a un avvocato, poi mi dico che quello che mi contraddistingue è legato all’emozione. Ci metto l’anima mentre gli imitatori fanno solo un oggetto che ripetono. Contenti loro.

Metterci l’anima sfinisce e rigenera al tempo stesso?

Dal 2003, appena si è sparsa la voce del mio lavoro, è uscita un’intervista dietro l’altra e per sei-sette anni ho tenuto laboratori che duravano anche due giorni. Non insegnavo solo la tecnica - si arrotola così, si incolla così - ma ci mettevo tutta me stessa e non chiedevo mai di rifare un mio pezzo, ma a ogni persona suggerivo di dar spazio alla luce e all’immaginazione per creare un gioiello originale. Non avevo consapevolezza di quanta energia impiegassi e alla fine ero distrutta. Però alcuni ancora adesso mi ringraziano non solo perché hanno imparato la tecnica o scoperto di avere delle capacità, ma per averle fatte uscire dalla depressione.

Era arte terapia, l’ho capito dopo. Forse avrei potuto essere una psicologa.