Come abbiamo visto, anche l’Italia ha fatto la sua parte nell’introduzione in Europa di molte piante provenienti da terre lontane, in particolarmente fra il 1400 e primi del 1700, grazie alla passione per la botanica della famiglia de’ Medici. Nei secoli precedenti molto dobbiamo soprattutto ai missionari, che, andando in Paesi lontani si interessarono, com’era uso a quei tempi per gli studiosi, anche all’osservazione, ricerca e studio delle piante che incontravano.

Medioevo e Rinascimento

Tra i missionari italiani, spicca soprattutto il francescano Odorico da Pordenone che, a cavallo fra il 1200 e il 1300, recatosi in India e in Cina, compì importanti osservazioni naturalistiche, che però furono pubblicate da altri studiosi soltanto dalla metà del ’700 in poi. Anche Gesuiti, Salesiani, Consolatini hanno intensamente contribuito all’arricchimento di collezioni di ordini religiosi e pubbliche con materiali provenienti dalle regioni esotiche esplorate e, soprattutto, con nuove conoscenze botaniche, realizzando importanti erbari, ancora oggi conservati nelle sedi di Confessione, fra cui quelli delle Missioni della Consolata e di Don Bosco, entrambi a Torino.

Dobbiamo in particolare a Pier Andrea Saccardo, celebre botanico fra l’Ottocento e il Novecento, il racconto dettagliato dei botanici ecclesiastici dei secoli precedenti, nella sua storia della botanica in Italia (La botanica in Italia. Materiali per la storia di questa scienza, Saccardo, 1895 e1901).

Ma vi furono, fra i cacciatori botanici italiani, anche molti geografi, esploratori e naturalisti, anche se va precisato che spesso passarono come “naturalisti” semplici raccoglitori e cacciatori, perlopiù di animali, che avevano esclusivamente scopi di guadagno, come pure commercianti, mercanti e conquistatori, in cerca di fortuna sull'onda della nascente politica coloniale italiana: personaggi appassionati della natura, spinti fuori dall'Italia da vicende politiche o rovesci di fortuna e divenuti talvolta naturalisti veri e propri solo dopo l'esperienza del viaggio.

È con Cosimo I de’ Medici che prenderà avvio, in Italia, il collezionismo vero e proprio: in particolare, fra il 1554 e 1558 nacque la collezione di agrumi in vaso del Giardino di Boboli. La raccolta verrà implementata nei decenni successivi, grazie sia a nuove varietà provenienti dall’estero, sia a nuovi ibridi ottenuti nei giardini delle ville signorili fiorentine.

Dobbiamo invece a Cosimo III, grande amante degli alberi da frutto, l’opera di Bartolomeo Bimbi (1648-1730), a sua volta appassionato di fruttiferi, che, insieme al botanico di corte, Pier Antonio Micheli, portò avanti un grande lavoro di catalogazione sistematica, organizzato per specie, stagione, provenienza, e documentato dagli straordinari dipinti del Bimbi che raffigurano la diversità vegetale e colturale presente nel Granducato di Toscana tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento.

Negli immensi terreni della corte medicea, si sperimentavano nuovi innesti, essenze e sementi sconosciute, come scrive Baldinucci, biografo del Bimbi, “…sì come questo luogo era ed è ripieno di tutte le sorti di frutte, di agrumi, d’uve e fiori che finora si sono potute trovare …”. ll frutto di questo grande lavoro di catalogazione scientifica è oggi conservato al Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze e al Museo della Natura Morta nella Villa Medicea di Poggio a Caiano, ed è servito, a partire dal 1980-90 al ritrovamento e riconoscimento di tante varietà antiche, promossi da alcune università e centri di ricerca italiani, con l’aiuto di alcuni vivaisti.

A Cosimo III è legata anche una delle piante più rappresentative della antica collezione medicea, il profumatissimo Jasminum sambac “Gelsomino del Granduca” o “Mugherino del Granduca”. Portato dalla costa di Goa, nel 1688 fu donato dal Re del Portogallo Pietro II al Granduca, che se ne invaghì talmente tanto da far costruire nella Villa di Castello una serra apposita, chiamata “Stufa dei Mugherini”, dal nome antico con cui venivano chiamati appunto i gelsomini.

In una raccolta di Francesco Redi (1626-1697, medico, naturalista, letterato, fondatore della biologia sperimentale) è stata rinvenuta una ricetta che prevedeva l’impiego di una grandissima quantità di questi profumatissimi fiori: il cioccolato al Gelsomino del Granduca. Per volere di Cosimo III è rimasta segreta fino alla recente riscoperta e impiegava perfettamente due soli ingredienti: fiori di gelsomino e fave di cacao che andavano lavorati freddo per realizzare praline dall’aroma sublime.

Anche il caffè è arrivato in Italia, come curiosità botanica, grazie ai Medici, nel 1715, pianta che era divenuto oggetto, già dalla seconda metà del Cinquecento, di resoconti di viaggiatori e mercanti e di trattati di botanici e medici, tutti interessati, da punti di vista diversi, alle particolarità di questa novità esotica.

Il Settecento

Nel corso del 1700 il cacciatore botanico di maggior spicco fu Luigi Castiglioni, nato nel 1757 secondogenito di Ottavio e Teresa Verri, sorella di Pietro, fulgido esempio di gentiluomo del suo tempo, dedito agli studi e all'attività pubblica, animato da spirito illuminista. Il Castiglioni nelle sue numerose attività ricoprì diverse cariche pubbliche e politiche, ma fu anche un eccellente botanico. La sua prima impresa fu quella di viaggiatore, dapprima in Francia e in Inghilterra, per poi da qui imbarcarsi, nel 1785, alla volta degli Stati Uniti d'America e del Canada. Il suo viaggio, che durò fino al 1787, fu un'esperienza eccezionale, che egli riportò in due volumi, pubblicati a Milano nel 1790, in cui scrive: “Considerai che potesse essere di qualche vantaggio lo scorrere quel paese, non solo per fare un’abbondante raccolta di semi, ma per indagare l’indole delle più utili piante, il modo di coltivarle e propagarle, e gli usi che se ne fanno o far se ne possono. Fra queste ho posto la maggiore attenzione agli alberi, parecchi dei quali meritevoli d’essere introdotti in Lombardia, o perché s’accontentano dei più fertili terreni, o per la pronta loro crescita o per l’ottima qualità del loro legno”.

Nella sua opera e il Castiglioni rivela le doti di propagazione della robinia, consigliata come specie da impiegare con grande beneficio per i diversi usi che se possono fare, che egli stesso aveva piantato nelle proprie terre: “Cresce con molta celerità, principalmente ne' terreni sabbiosi, e leggieri, benché magri, ed asciutti, e si può anche tagliare a modo di siepe per difender le campagne. Circa cinquecento di queste piante felicemente vegetano nell'arenoso terreno della Brughiera di Mozzate, e molte di esse vi fioriscono, e maturano i semi, essendo fra tutti gli alberi pronti a crescere, quello, che ha il legno più consistente e migliore.” La grande facilità di riprodursi di quella pianta, così propagandata allora per le indubbie virtù, tra le quali anche la durata del legno come combustibile e fonte di riscaldamento, è ciò che la rende oggi così poco amata proprio per il carattere pioniero e invasivo che ha sviluppato a svantaggio di molte altre specie.

Nel 1791 Castiglioni intraprese la pubblicazione, insieme con il fratello Alfonso, di un'opera molto impegnativa: i quattro volumi della Storia delle piante forastiere le più importanti nell'uso medico ed economico, in cui tratta un centinaio di piante esotiche, ventiquattro per ciascun tomo, scelte tra le più utili, come il tè, il cacao, la vaniglia, la gomma arabica, il papavero sonnifero, tutte descritte in modo dettagliato, con indicazione della loro origine, coltura, morfologia, uso pratico e diffusione geografica.

Tra le numerose cariche conferite al Castiglioni nel periodo napoleonico, nel 1807 è nominato Presidente dell’Accademia di Brera e al contempo Direttore del regio Vivajo della Villa Reale di Monza. Gli elenchi di piante coltivate presso quest’ultimo e i suoi cataloghi sono una importantissima testimonianza di quali e quante piante fossero già conosciute e coltivate a quello scopo in quelle date. Tra le tantissime, vi sono Leucothoe racemosa L., all'epoca conosciuta anche con il sinonimo Andromeda, oppure meno usate Clethra tomentosa, sinonimo di C. alnifolia, entrambi arbusti da fiore originari del Nord America, che sono già presenti nel catalogo del 1813. Nello stesso catalogo, alla voce mimosa, termine che allora indicava gran parte delle piante che appartengono al genere oggi classificato come Acacia, tra le tante specie si trova anche la Acacia Julibrissin (oggi classificata come Albizzia julibrissin) per la cui individuazione Giovanni Antonio Scopoli (1723 –1788), naturalista, medico e accademico, riconobbe il merito proprio a Castiglioni.

Numerosissime sono le specie arboree che, per mano di diversi cacciatori botanici soprattutto stranieri, giungono in Italia dalla seconda metà del Settecento, molte delle quali entrano nei parchi all'inglese dell'epoca e si affermano come presenze costanti nei giardini creati in quel tempo, caratterizzando così un’ampia parte del paesaggio italiano.

Di grande valore ornamentale sono infatti i Ginkgo biloba presenti in Italia almeno dal 1750, Liriodendron tulipifera, Magnolia grandiflora e Taxodium distichum, tutti presenti nel 1760, Acer negundo, A. rubrum e A. saccharinum presenti nel 1780, Cynnamomum camphora dal 1782, Liquidambar styraciflua dal 1785 e Sophora japonica (oggi Styphnolobium japonicum) dal 1799. Lo stesso vale per moltissimi arbusti e rampicanti, fra cui i glicini, la cui coltivazione è testimoniata in Italia dal 1831 per la specie cinese, Wisteria sinensis, e dal 1835 per quella giapponese, Wisteria floribunda.

L’Ottocento

Con il nuovo secolo l'introduzione di piante diventa una vera e propria moda, e soprattutto con le erbacee da fiore, provenienti da ogni parte del mondo per tutto il corso dell'Ottocento, prima dall'America del Sud, poi dall'Africa del Sud, e via via è dalla Cina, dal Giappone, dall'Australia... L’arrivo delle nuove entità botaniche ha comportato la trasformazione del paesaggio vegetale soprattutto in termini di forme e di cromatismi stagionali. Nell’800 anche molti studiosi, tra cui in particolare Michele Tenore e Giovanni Gussone, hanno ampiamente esplorato l’Italia meridionale. A loro si deve l’individuazione e descrizione di molte nostre specie mediterranee.

Come si legge nella Cronologia della Flora Italiana del Saccardo (seconda parte, 1909), i biologi vegetali che operavano in Italia agli inizi dell’Ottocento erano spesso dei naturalisti (per esempio, Filippo Cavolini e Giorgio Santi), medici (come Allioni e Zantedeschi) o biologi vegetali, oppure operavano a cavallo tra la fisica, l’ingegneria e la biologia, ed erano tutti uomini. L’apporto femminile ad alcune discipline botaniche come la biologia cellulare è avvenuto solo nella seconda parte del 1900.

Rispetto all’Inghilterra, alla Francia, alla Spagna, all’Austria e ad altri stati europei che molto si adoperarono e investirono per la ricerca di nuove specie, i piccoli stati italiani di allora non erano così ricchi, né i loro governanti tanto lungimiranti da organizzare delle missioni scientifiche, che si contano sulle dita di una mano.

Fra le eccezioni vi sono gli Asburgo-Lorena, Granduchi di Toscana dal 1737 all’Unità d’Italia. L'imperatore Leopoldo II, figlio cadetto di Maria Teresa d'Austria e Francesco Stefano di Lorena, per venticinque anni era stato granduca di Toscana (con il nome Pietro Leopoldo) e in Toscana erano nati ed erano stati educati i suoi figli, Ferdinando (futuro Granduca con il nome di Ferdinando III) e il futuro imperatore d’Austria Francesco II. Così. fu del tutto naturale che, durante il viaggio nuziale di quest’ultimo alla volta del Brasile, la sua sposa, l’arciduchessa Leopoldina facesse tappa in Toscana, seconda patria della casata, dove fu accolta da suo zio, il granduca Ferdinando III. E fu proprio quest'ultimo a pensare che la partecipazione alla grande spedizione scientifica brasiliana che l’Austria stava organizzando, avrebbe dato lustro al suo piccolo Stato. Tanto più che aveva sotto mano la persona giusta: Giuseppe Raddi.

Nel 1817, Giuseppe Raddi aveva quasi cinquant'anni ed era uno studioso riconosciuto soprattutto come esperto di crittogame e funghi. Di modesta origine, nel 1785, a quindici anni, aveva incominciato a lavorare come assistente nel Giardino dei Semplici di Firenze; dopo dieci anni di gavetta, era stato nominato custode del Museo di Storia Naturale di Firenze. Il granduca Pietro Leopoldo lo invitò perciò unirsi alla spedizione in Brasile. Con strumenti, libri, mappe geografiche, ma senza alcun assistente, il botanico toscano si imbarcò sul San Sebastiano, uno dei vascelli portoghesi che dovevano condurre la principessa a Rio de Janeiro; salpata da Livorno il 13 agosto 1817, la piccola flotta austro-portoghese si fermò per pochi giorni a Madeira, dando modo a Raddi di raccogliere 150 specie di vegetali, compresa una nuova epatica; dopo 82 giorni di navigazione, giunse a Rio il 5 novembre.

Contrariamente ai colleghi austriaci e tedeschi che facevano parte della spedizione, Raddi disponeva di un budget estremamente limitato. Il costo della vita nella colonia, anche a causa dell'arrivo della comitiva nuziale, era infatti proibitivo. Non avendo abbastanza denaro per assumere aiutanti sul posto, egli dovette muoversi da solo, approfittando dell'ospitalità di amici brasiliani. I suoi viaggi ebbero dunque un raggio limitato ai dintorni della città e alla vicina area di Mandioca.

Nonostante tutte le difficoltà, le raccolte di Raddi nei sette mesi che trascorse in Brasile furono imponenti: 4000 piante, 2230 insetti, 49 rettili, 65 minerali, manufatti, frutti; raccolse anche i semi di circa 340 specie, con l'intenzione di propagarli una volta tornato in Toscana. Nell’Orto botanico di Firenze sono ancora oggi coltivate alcune specie di Begonia, compresa la popolarissima B. maculata Raddi, e un esemplare di Psidium guineense, discendenti da piante nate da semi portati da Raddi dal Brasile. Nel 1827, Raddi partecipò a una spedizione archeologica franco-toscana in Nordafrica, raccogliendo nell'arco di otto mesi circa 450 specie di piante. Colto da una violenta infezione intestinale. Costretto a rientrare al Cairo, continuò ad aggravarsi, tanto da decidere di tornare in Italia. Il 23 agosto si imbarcò ad Alessandria ma durante il viaggio di ritorno morì a Rodi il 6 settembre.

Fra i cacciatori botanici che in realtà erano dilettanti appassionati, vi è il milanese Antonio Raimondi (1824-1890), che, tra il 1851 e il 1864, compì una serie di viaggi in Perù, dove venne onorato come eroe nazionale per le sue scoperte botaniche e scientifiche; il veneto Luigi Balzan (1865-1893), le cui esplorazioni ebbero inizio nel 1890 dal Paraguay e si estesero alle regioni centrali del Sud America; il pavese Luigi Robecchi Bricchetti (1855-1926), che negli anni a cavallo tra Otto e Novecento esplorò l'Egitto e la Somalia; il brianzolo Gaetano Osculati (1808-1884), grande viaggiatore, esploratore e naturalista, che in particolare fece conoscere all’Italia la foresta amazzonica, da cui tornò carico di reperti entomologici e vegetali, e dove individuò nella salsapariglia amazzonica (Smilax aspera L.), un rimedio alla malaria ben più efficace del chinino; e il ligure Giacomo Doria (1840-1913), naturalista, botanico e politico italiano, che, da presidente della Società Geografica Italiana, finanziò missioni scientifiche in tutto il mondo. Tutti loro avevano però una visione enciclopedica della natura, a discapito dell'approfondimento specifico della botanica.

Più importanti, quindi, furono i cacciatori di piante che erano effettivi botanici-scienziati, e che alternarono, a costo di fatiche inumane, la tranquilla e sedentaria vita dello studioso di laboratorio a quella convulsa ed errante dell'esploratore. Così fu per il palermitano Filippo Parlatore (1816-1877), per il piemontese Luigi Carlo Spegazzini (1858-1926), per i fiorentini Stefano Sommier (1848-1922) e Odoardo Beccari (1843-1920).

Filippo Parlatore, dopo aver compiuto vari viaggi botanici sul territorio della penisola italiana, in Svizzera, in Scozia e sulla catena del Monte Bianco, nel 1851 affrontò la sua esplorazione più importante, in Norvegia, Svezia e Finlandia. Continuò a viaggiare anche dopo l'unificazione nazionale, nonostante la malattia contratta nella penisola scandinava per via delle fatiche e degli stenti duramente sopportati, malattia che gli impedì di affrontare altre esplorazioni. Così egli intensificò le ricerche in Italia e, nei primi anni Sessanta dell’800, effettuò numerosissime escursioni della durata di giorni o settimane, che avevano luogo perlopiù d'estate e si svolgevano lungo gli Appennini e sulle Prealpi. Il suo scopo era duplice: in primo luogo completare la sua Flora italiana, monumentale compendio innovativo di grande valore scientifico sulla flora della penisola italiana, lavoro iniziato nel 1845 e continuato fino alla morte; secondariamente, proseguire negli studi geografia botanica, ai quali era stato avviato durante una suo soggiorno a Parigi nel 1842 dal grande naturalista tedesco Alexander von Humboldt (1769-1859) e che aveva continuato anche durante il viaggio lungo la catena del Monte Bianco, del San Bernardo e sulle Highlands scozzese, effettuate l'anno successivo.

Stefano Sommier, francese di origine e fiorentino di adozione, discepolo e devoto amico di Filippo Parlatore, iniziò a lavorare nella ricerca botanica sistematica sul Monte Argentario nel 1870, dietro suggerimento del maestro, per poi proseguire in altre zone italiane, in particolare nell'Arcipelago toscano e nelle isole di Linosa, Lampedusa Pantelleria e Malta, lasciandoci numerose monografie.

Attratto come Filippo Parlatore dalle zone fredde e forse incitato da quest’ultimo, che aspirava a veder completata la sua opera fitogeografica, nel 1879 Sommier si recò con l'antropologo e fisiologo milanese Paolo Mantegazza (1831-1910) in Scandinavia, la cui flora era ancora poco conosciuta, riportandone una ricca collezione botanica alpina. Spronato dallo stesso Mantegazza, Sommier aprì i suoi interessi all'antropologia, tanto che, quando l'antropologo milanese decise di tornare in Italia prima della fine del viaggio, si assunse il compito di conoscere, misurare e fotografare i lapponi, riportandone in patria una vasta documentazione. Nel 1889 Sommier partì per la Siberia occidentale: nonostante una violenta tempesta che aveva seppellito la tundra sotto una coltre di neve, rendendo impossibile ogni erborizzazione, riuscì a portare con sé 459 specie nuove, la più ricca collezione di quella zona della Siberia, sulla cui flora si avevano fino ad allora solo notizie sommarie. Le sue osservazioni sulla vegetazione siberiana e le sue raccolte botaniche furono illustrate nella sua Flora dell'Ob inferiore: studio di geografia botanica, Pellas, Firenze, 1896. Infine, nel 1887 Sommier organizzò, insieme con il botanico e amico Emilio Levier, un viaggio nel Caucaso, dove i due esploratori nel giro di quattro mesi esaminarono la vegetazione di 85 località diverse, raccogliendo più di diecimila esemplari che furono descritti nella loro Enumeratio plantarum anno 1890 lectarum ... additis nonnullis speciebus a claris viris H. Lojka ... (Petropoli, Florentiae 1900). Negli anni successivi Sommier riprese le “erborizzazioni” in Italia, soprattutto in Toscana, completando il suo ricchissimo erbario che fu donato dai nipoti all'Istituto Botanico di Firenze. Luigi Carlo Spegazzini (1858-1926), dopo aver studiato con Pier Andrea Saccardo (1845-1920), allora prefetto dell'Orto botanico di Padova, salpò per l'Argentina nel 1879. Qui venne aggregato all'Università di Buenos Aires come capo del Gabinetto di Storia Naturale. Le sue esplorazioni iniziarono subito: nel 1881 prese parte alla spedizione Bove, finanziata dal governo argentino, Isla de los Estados, un’isola argentina situata nell'Atlantico del Sud, a Est dell'Isola Grande della Terra del Fuoco, dove effettuò ricche raccolte botaniche. Negli anni successivi, Spegazzini, dopo essersi trasferito da Buenos Aires a La Plata come professore di Chimica, Igiene e Scienze Naturali e in seguito come docente di Botanica nella Scuola di Agricoltura e Veterinaria, egli compì numerosi altri viaggi percorrendo non solo l'Argentina fino allo Stretto di Magellano, ma anche in Cile, Bolivia, Perù, Brasile, raccogliendo un'ampia collezione composta di 50.000 esemplari di piante superiori e 10.000 specie di funghi, regalata alla sua morte all'Università di La Plata, insieme alla sua ricca biblioteca. Dal punto di vista scientifico Spegazzini ebbe il merito di effettuare un completo inventario della flora argentina. La sua opera, che si compone di un centinaio circa di monografie sui funghi e sulla flora del Sud America, mostra il carattere sistematico e tassonomico del suo lavoro. Fra le piante da lui scoperte, il cactus Rebutia spegazziniana e la Mimosa spegazzinii.

Il più importante botanico-esploratore italiano del 1800 fu però il fiorentino Odoardo Beccari (1843-1920). Al pari di Sommier, anzi in misura assai maggiore, allargò i suoi interessi ad altre discipline: il materiale zoologico e antropologico da lui raccolto nel corso delle sue lunghe e avventurose esplorazioni fu così abbondante che a prima vista potrebbe sembrare corretto considerarlo, così come Raimondi e Balzan, un naturalista enciclopedico. Basti pensare alla ricchezza e alla varietà di uccelli, pesci, rettili, insetti, pelli di mammiferi, armi, utensili, e crani umani da lui raccolti e preparati. Le sole collezioni zoologiche furono in numero tale da costituire, insieme a quelle dello zoologo genovese Giacomo Doria, il nucleo originario del Museo Civico di Storia Naturale di Genova. A uno sguardo più attento si comprende Baccari lasciò l'illustrazione e la catalogazione di questi materiali agli specialisti più idonei, per dedicarsi interamente allo studio delle collezioni botaniche, dando alla luce oltre 150 pubblicazioni, perlopiù di sistematica, ma anche di fitogeografia, floristica, botanica commerciale e coloniale.

Baccari viaggiò in luoghi dai quali di solito non si tornava, diventando amico persino dei tagliatori di testa del Borneo, tipi notoriamente poco malleabili, dei cannibali della Nuova Guinea, pure loro non propensi alla socievolezza, e dei famigerati predoni della Dancalia, nel Corno d’Africa.

Considerato, insieme a Filippo Parlatore, il naturalista più importante d’Italia, Baccari era animato da quella che si definisce un’inesauribile sete di conoscenza, sostenuta da ardimento, ma leggendo le sue memorie di avventura e osservando le sue fotografie, se ne comprende il senso dell’umorismo all’inglese e una capacità di valutazione dei rischi, che lo resero capace di incontrare senza danni gente parecchio aggressiva, quella che Salgari descrisse, ma non frequentò.

Il suo primo viaggio, che si svolse nel Borneo tra il 1865 e il 1868, fu organizzato a titolo privato da Giacomo Doria di Genova. Per meglio prepararsi all'impresa Beccari passò un periodo a Londra a studiare le piante della Malesia esistenti negli erbari dei Giardini di Kew e del British Museum e quindi salpò da Southampton, incontrandosi con Doria ad Alessandria d'Egitto e raggiungendo il Borneo, dove ebbero inizio le raccolte naturalistiche. Ma Doria, sopraffatto dalle febbri, dovette rimpatriare già nel 1866, mentre Beccari continuò le raccolte botaniche da solo, iniziando uno stile di lavoro destinato ad essere applicato anche nei viaggi successivi: egli si fece costruire una capanna nella quale si installò per vivere e lavorare. La capanna era dotata di tutte le comodità e di tutti gli strumenti necessari per disseccare le piante e preparare le raccolte zoologiche, tanto da poter essere considerata un vero e proprio laboratorio. Qui rimase fino al 1867, quando, ammalatosi di malaria e di elefantiasi, fu costretto a tornare a Firenze, dove avviò il lavoro di ordinamento delle collezioni, formate da 700 specie in buon numero di esemplari ciascuna degli appunti, dei disegni e delle annotazioni e fondò inoltre il Nuovo Giornale Botanico Italiano che al pari del Giornale Botanico Italiano, nato per volontà di Parlatore nel 1844 e interrottosi nel 1852 ebbe vita breve.

In seguito Baccari fece molti altri viaggi, raggiungendo in particolare la Nuova Guinea, dove egli si fece costruire una capanna-laboratorio. I risultati scientifici del viaggio si rivelarono di notevole interesse, anche se gli esemplari botanici portati in patria non furono molto numerosi. Rientrò a Firenze, accolto con grandi onori, nel 1876, ma presto ripartì per il Borneo per poi proseguire per l'Australia. In un villaggio interno di Sumatra, dove aveva costruito una capanna sul modello delle precedenti, fece la scoperta del Conophallus titanum, da lui stesso poi denominato Amorphophallus titanum, gigantesca aroidea, che produce la più grande infiorescenza nota nel mondo vegetale. Dai semi germinò una piantina che, trasportata ai Giardini di Kew, vi fiorì dopo undici anni. Tornato in Italia nel 1880, Baccari abbandonò le sue avvincenti e gloriose esplorazioni, iniziando un intenso periodo di studio. Da allora egli si dedicò infatti interamente all'illustrazione delle sue raccolte, che aveva venduto, costrettovi dalle spese sostenute per i viaggi e le esplorazioni, all'Istituto di Studi Superiori Pratici di Perfezionamento nel 1879, rinunciando alla nomina di direttore del giardino botanico del Museo di storia Naturale. Ad attirare il suo impegno fu soprattutto la famiglia delle palme, che costituivano un gruppo fino ad allora tassonomicamente poco noto. Su di esso pubblicò numerose monografie e inoltre la sua opera forse scientificamente più importante, Asiatic Palms (1908-1914), comparsa negli Annals of the Royal Botanic Garden of Calcutta, che lo rese il più sicuro e completo conoscitore di questa famiglia. Le sue collezioni sono conservate nell'erbario del Museo botanico di Firenze e il loro numero si aggira intorno ai 16.500 esemplari. Paolo Luzzi, responsabile del Giardino dei Semplici di Firenze, con Pisa e Padova l’orto botanico più antico del mondo, conferma il ritratto del naturalista: “Famosissimo per le palme e l’erbario, l’Erbario Beccari, il più grande d’Europa, era un tipo carismatico, molto autorevole che si faceva obbedire da tutti. Dormiva sempre con il fucile carico e assoldava persone in loco affinché lo aiutassero nelle ricerche”.

A Firenze, nel suo giardino del Castello del Bisarno in Pian di Ripoli, un edificio del 1200 con rifacimenti vari fino al 1700, prosperano ancora piante portate da Beccari. Nel suo giardino Beccari è riuscito ad acclimatare la palma cespitosa Nanorrhops ritchiana che nonostante lo choc subito nel gelido inverno del 1985 è rigogliosa e con molti polloni vegetativi alla base: questi polloni mandano in sollucchero gli studiosi. Verdeggiano poi Trachycarpus fortunei,Trachycarpus caespitosa, Jubae chilensis, Chamaerops humilis. “Penso che le piante portate da Beccari siano sopravvissute quasi tutte - aggiunge Luzzi. In un’aiuola fioriscono i tulipani che richiamano una specie individuata da Beccari studente a circa quattro miglia da Lucca e descritta nel 1861 da Cesare Bicchi come Tulipa beccariana: […] perché scoperta dal signor Odoardo Beccari, valente alunno del nostro collegio, erborando in compagnia del reverendo signore Ignazio Mezzetti, amatore anch’egli della botanica e della storia naturale”.

Il Novecento

In questo secolo travagliato le esplorazioni botaniche proseguono, ma assai poche da parte dell’Italia. Più interessanti sono invece le introduzioni o reintroduzioni sul mercato e nei giardini italiani, compiute da vivaisti, paesaggisti e giardinieri, anche se non mancano alcune figure di spicco di cacciatori botanici veri e propri. Andiamo Ferrante Gorian (1913-1995) e Pier Luigi Priola: architetto paesaggista veneto il primo, giardiniere e vivaista trevigiano il secondo, per esempio, hanno reintrodotto in Italia, negli anni Settanta, la coltivazione e l’uso in giardino delle graminacee ornamentali, di moda negli anni Venti-Trenta. A Priola anche il merito di aver sviluppato il gusto delle erbacee perenni. Anna Peyron, vivaista piemontese, è stata fra le prime, intorno agli anni Ottanta, a reintrodurre in Italia le rose antiche. Carlo Pagani, vivaista piemontese, è stata fra i primi, intorno agli anni Ottanta, a reintrodurre in coltivazione e sul mercato italiano, oltre alle rose antiche, i frutti antichi, i lillà, le magnolie, le clematidi e altre piante “delle nonne”.

Gianlupo Osti (1920-2012) è stato invece un vero e proprio esploratore botanico: laureato in legge, manager di importanti aziende pubbliche e appassionato di botanica e in particolare di peonie, ha viaggiato a lungo in Cina. Da lui prende il nome Paeonia ostii, la specie più vigorosa e di rapido sviluppo tra tutte le peonie arbustive, da lui scoperta in Cina alla fine degli anni '80. Dopo molti importanti incarichi alla guida di importanti aziende, fra cui l’Italsider, Osti si dedica alla ricerca botanica, partecipando fra l'altro alla fondazione nel 1980 dell'Associazione Amici dei Giardini Botanici Hanbury. Scrive diversi libri ed è l’unico italiano insignito dell’Oscar botanico reale inglese Roma e il primo cui è stato conferito l'Oscar della floricoltura dalla Royal Horticultural Society. Le peonie sono state il suo principale interesse botanico, addirittura una sfida, viste le difficoltà che si incontrano nella propagazione e coltivazione del fiore: “I cinesi - racconta Osti - la preferiscono di gran lunga alle rose, considerate troppo facili. Il mio mentore, in fatto di peonie è stato Sir Peter Smithers, l'uomo che ha riorganizzato la rete di controspionaggio inglese nella Seconda guerra mondiale e poi è stato più volte parlamentare. Con una buona dose di snobismo inglese era solito dire: per la peonia servono tempo libero, soldi e passione. In parte è vero, ma non del tutto: ho visto collezioni interessanti anche nei piccoli giardini di case di operai”.

Mario Margheriti, fondatore dei Vivai Torsanlorenzo, invece, non ha viaggiato molto direttamente ma è stato fra i primi, se non il primo, primo a interessarsi e credere nelle piante australiane, neozelandesi e sudafricane. Solo la flora australiana annovera circa 18.000 specie per la maggior parte ancora sconosciute al mercato europeo – sono particolarmente interessanti dal momento che possiedono buone potenzialità di adattamento al clima mediterraneo. Come i cisti, i cipressi, le fillireee, i mirti, i corbezzoli e tutte le altre piante tipiche della macchia mediterranea, le australiane presentano un fogliame coriaceo, capace di riflettere i raggi solari, un’alta concentrazione di oli essenziali che riducono l’evapotraspirazione e radici ramificate in grado di trovare l’acqua sia in profondità sia in superficie. Sono caratterizzate da una buona rusticità e un’estrema resistenza nei confronti della radiazione luminosa diretta, del caldo, dell’aridità, del vento e della salsedine. Inoltre, al pari delle piante mediterranee, quelle australiane tendono ad avere un portamento compatto, motivo per il quale non richiedono potature frequenti. Si tratta, quindi, di piante con limitate esigenze idriche e manutentive, adatte a climi caldi e asciutti, giardini delle seconde case, verde pubblico in situazioni difficili. Alcune, resistenti alla salsedine, possono essere utilizzate con successo per stabilizzare le dune. Dal 1978 alla sua morte, ha introdotto in Italia circa 300 specie di origine australiana o neozelandese, molte delle quali sono state successivamente diffuse anche all’estero. Tra le prime piante esotiche introdotte ricordo il genere Callistemon che, grazie alle infiorescenze a scovolino di colore rosso fuoco, alle foglie appuntite e all’estrema resistenza alla siccità, ha conquistato rapidamente il mercato. Tempo dopo, il medesimo percorso è stato seguito anche da Chamelaucium uncinatum, arbusto dal fogliame sottile, soprannominato wax flower, ossia “fiore di cera”, per l’aspetto particolare delle sue corolle: una specie inizialmente sconosciuta che ora viene offerta addirittura dalla grande distribuzione organizzata e della quale esistono numerose varietà, caratterizzate da fiori di colore rosa, bianco e porpora.

Metrosideros è un genere che riscuote un crescente successo: M. excelsa, M. collina, M. robusta, M. kermadecensis e relative varietà sono alberi sempreverdi dalle foglie coriacee, di colore verde argenteo, e dai fiori spettacolari, simili a piumini rossi (si veda l’immagine). Altri generi di origine australiana di particolare interesse sono Acacia, Banksia, Brachyglottis, Dodonaea, Kunzea, Myoporum, Pittosporum e Senna. L’ultima introduzione in ordine di tempo – a testimonianza dell’incessante lavoro di ricerca dei vivai Torsanlorenzo– è Swainsona formosa, un arbusto della steppa australiana dai fiori di colore rosso: dalla semina del settembre 2011 abbiamo ottenuto circa 200 piante delle quali stiamo studiando l’adattabilità al clima e le migliori tecniche colturali. Fra la fine del secolo scorso e l’inizio dell’attuale, Mario Margheriti ha valutato e messo in produzione molte graminacee ornamentali, estremamente decorative, resistenti al secco e alla salinità, svariate specie tropicali, adatte a climi caldi e umidi, quali Millingtonia hortensis – molto usato in India come alberatura stradale – e oltre 120 specie e varietà di palme e assimilate, quali Yucca, Musa e Strelitzia, provenienti tutto il mondo. Le palme – nonostante l’interesse nei loro confronti sia leggermente scemato a causa della diffusione del punteruolo rosso – sono un forte elemento di connotazione del paesaggio grazie alla loro altezza e alla forma svettante. In passato, probabilmente, vi è stato un uso eccessivo di palme al punto che si è assistito a una banalizzazione del paesaggio. Tuttavia, a seguito della distruzione di questo patrimonio vegetale dovuta al punteruolo rosso, nel paesaggio mediterraneo sono tornati lecci, querce e altre specie caratteristiche.

Va sottolineato che negli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso si percepiva, fra vivaisti, paesaggisti e appassionati, un profondo e sincero entusiasmo verso il mondo vegetale e i giardini. Tutte le principali testate non specializzate del tempo – L’Espresso, La Repubblica, Il Sole 24 Ore –, e non soltanto quelle di settore, parlavano di piante e paesaggio e lo facevano attraverso personaggi del calibro di Ippolito Pizzetti, Guido Piacenza e Paolo Pejrone. Era l’epoca in cui Joan Tesei, con voli di linea dall’Inghilterra, portava in Italia le rose antiche, allora una novità assoluta. C’era una ricerca continua per ciò che era nuovo e sconosciuto, un fermento, una sana rivalità tra vivaisti che rendeva le nuove specie e varietà molto preziose. In seguito si è verificato un forte appiattimento, con la trasformazione del giardino, da luogo di piacere, a status simbolo. Per fortuna le cose stanno ora nuovamente cambiando.

Il ventunesimo secolo

Nel ventunesimo secolo la ricerca di specie e nuove varietà non è certo terminata. Attraverso i cataloghi, ormai disponibili anche via Internet, soprattutto i vivaisti individuano le specie più interessanti e promettenti. Oltre alle piante australiane e neozelandesi, l’interesse è oggi nuovamente rivolto alle specie sudafricane, la maggior parte delle quali sono adatte a molti nostri ambienti meridionali e centrali. Dal momento che provengono da una terra in cui la stagione invernale è asciutta, si tratta di piante caratterizzate da foglie coriacee, buona resistenza al freddo e un’estrema tolleranza a climi caldi e secchi. Alcuni interessanti esempi sono costituiti da Tarchonanthus camphoratus, un cespuglio dalle foglie persistenti di colore grigio-verde che emanano un forte odore di canfora; Sutherlandia frutescens, dai luminosi fiori papilionacei, resistente sia alla siccità sia al gelo; Burchellia bubalina, conosciuta come melograno africano per l’aspetto dei frutti commestibili. Vi sono alberi dalle fioriture curiose quali Bauhinia galpinii, Erythrina sp., Sparrmannia africana, il tiglio africano, Balusanthus speciosus, chiamato “glicine arboreo” per gli spettacolari mazzi di fiori viola. Molte di queste specie sudafricane hanno notevoli potenzialità, oltre che per il bacino del Mediterraneo, anche per il Medio Oriente, un mercato interessante e in espansione per le imprese vivaistiche.