Nei difficili tempi in cui viviamo, si fa strada l’idea che da ciò possa nascere un nuovo, diverso modo di organizzare la nostra vita, in misura meno stressante, più a misura d’uomo. C’è, in questo, sia una sincera aspirazione ad una diversa dimensione del vivere, sia il tentativo di ‘indorarci la pillola’, farci credere che alcune delle misure cui siamo costretti siano il prodromo a questo ‘nuovo mondo’.

In realtà, per quanto l’impatto di questa crisi sanitaria globale sia davvero considerevole, la sua dimensione e profondità sono più una questione di percezione, che non di effettivi cambiamenti. Prova ne sia che, nel pieno della crisi, emerge come il precedente trend globale - l’arricchimento smisurato di pochi - abbia addirittura subito una accelerazione.

In particolare, l’idea che lo ‘smart working’ costituisca quasi una liberazione dal lavoro, e che rappresenti il mezzo attraverso cui realizzare una liberazione di massa, capace anche di trasformare radicalmente le città, è una fallace utopia, quantomeno nel breve e medio periodo.

Il passaggio dal lavoro ‘in situ’ a quello in remoto, è una possibilità concreta soprattutto per un numero ristretto di persone, prevalentemente ad alta qualifica e con ruoli non subordinati. Senza qui entrare nel merito specifico della questione ‘lavoro’, e di tutti i risvolti anche negativi che lo smart working implica, per tutti i soggetti coinvolti (basti pensare alla Didattica a Distanza, che è appunto una forma di smart working...), interessa piuttosto confutare l’idea che si prospetti un'epoca di ‘decentramento’, di decongestionamento dei grandi centri urbani.

In realtà, proprio i modelli - produttivi e politici - affermatisi nella crisi, spingono nella direzione opposta; la concentrazione, infatti, aumenta le possibilità di controllo sociale, ed al tempo stesso bene si sposa con il modello produzione-distribuzione-consumo della ‘new economy’.

Appare evidente che le gigantesche megalopoli sviluppatesi negli ultimi decenni (Tokyo, 37 milioni di abitanti, Shanghai, Città del Messico e Karachi, 24 milioni, Pechino, Mumbai, New York, Seul, San Paolo, per restare a quelle che ne contano almeno 20 milioni) non possono produrre un significativo movimento centrifugo di popolazione, non fosse altro perché il territorio circostante non ne reggerebbe l’impatto.

“Anche la società ‘post-umana’, quella ad alta robotizzazione, necessita che la popolazione sia concentrata. Ieri prevalentemente in quanto produttrice, oggi e domani soprattutto in quanto consumatrice. La logistica del futuro prossimo (dai mega magazzini robotizzati di Amazon, alle consegne via drone, ai taxi volanti di Uber...), ovviamente predilige un mercato-target ad alta densità, che renda ottimizzabile al massimo la gestione del movimento merci e/o dell’erogazione dei servizi. Grandi città ‘connesse’, sempre più governate da algoritmi, sono il modello verso cui - tra mille contraddizioni - sembrano orientarsi le ‘scelte’.”1

Sia pure in scala più ridotta, la questione si pone negli stessi termini anche per le grandi città metropolitane europee. La grande conurbazione padana centrata su Milano, o la sterminata dimensione di Roma (seconda città d’Europa per estensione), per stare alle nostre, sono le principali - ma non esclusive - sfide reali del prossimo futuro.

Una sfida che si dipana, ancora una volta, anche su una questione antichissima, ovvero il rapporto centro-periferia. Infatti, “la divisione centro/periferia è uno degli elementi che rafforza la struttura sociale verticale ‘bloccata’, in cui la mobilità sociale è l’unica forma di mobilità ad essere ingessata. Il gap scolastico e culturale che separa la popolazione urbana, e che tra l’altro è uno degli ostacoli a una effettiva possibilità di realizzare delle vere ‘smart cities’, e non - ancora una volta - delle mere ‘smart areas’ all’interno del tessuto urbano, è uno dei fattori che impediscono lo sviluppo armonico delle megacittà, delle grandi aree metropolitane.”2

Il punto è che lo sviluppo urbano, soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo scorso, si è caratterizzato per due fattori: l’espulsione dai centri storici delle classi subalterne, e lo sviluppo delle periferie urbane come satelliti del centro cittadino. La rete della banlieu parigina ne è l’esempio paradigmatico.

Il rapporto centro/periferia è costitutivamente ‘perverso’. Mentre prima della rivoluzione industriale il rapporto città/campagna era basato su un dualismo mutualistico, su uno scambio reciprocamente conveniente - e sostanzialmente equilibrato - quello centro/periferia è “basato su un dualismo parassitario, su uno scambio ineguale. La periferia non un modello socio-abitativo ‘altro’, rispetto alla città-centro, come lo era la campagna; la periferia è la città depauperata e marginalizzata, il ‘deposito urbano’ della città.”3

Ciò perché, appunto, la periferia, il margine della città, si costruisce su un processo variamente articolato ma comunque concentrico, come l’onda di un sasso nello stagno, che si irradia dal centro, allontanando da questo ciò che è considerato marginale, ma pur sempre necessario, per la città.

A questo modello marginalizzante, nella seconda metà del Novecento si è pensato variamente di ‘opporsi’ attraverso un’idea di ‘rivitalizzazione’ delle aree periferiche. Ma questo obiettivo si è cercato di conseguirlo in modo ‘amministrativo’, provando a decentrare funzioni precedentemente allocate nei centri storici. Basti pensare al quartiere della Défense a Parigi, al Centro Direzionale di Napoli, alle ‘18 centralità’ veltroniane di Roma (Porta di Roma e Università di Tor Vergata, ad es.), che sono divenute cattedrali nel deserto urbano, giganteschi ‘vuoti’ passata l’ora di chiusura degli uffici.

Perché, con tutta evidenza, non basta spostare una funzione amministrativa (con il connesso spostamento quotidiano di lavoratori ed utenti), per innescare un processo di rivitalizzazione urbana. La sinistra politica, quando ha governato le grandi città, ha sempre pensato al superamento della marginalità urbana nel quadro della stessa ottica centro/periferia che le aveva generate. Tipicamente, migliorando la rete di trasporto lungo gli assi che dalla periferia portano verso il centro urbano, per agevolare la mobilità centripeta (lavoro, consumo culturale) e quella centrifuga (rientro nel quartiere dormitorio).

Nei due decenni del nuovo secolo, si è intanto determinato un moto di ulteriore spinta marginalizzatrice, una seconda onda concentrica. Un fenomeno che ha investito particolarmente le città italiane, e che potremmo definire come una nuova forma di gentrification: la trasformazione d’uso del tessuto urbano dei centri storici, che ha visto il massiccio passaggio dall’abitativo residenziale all’ospitalità turistica. Città come Venezia, Firenze, Napoli e Roma ne sono rimaste significativamente trasformate. Nella capitale, inoltre, si è parallelamente prodotta una ipertrofia del personale politico (si calcola 20.000 persone circa), che risiede più o meno stabilmente intorno ai centri del potere politico e amministrativo. Questa seconda ondata, che ha avuto una ben maggiore velocità espansiva, ha a sua volta determinato una graduata pressione verso i margini della città, spingendo - sempre in modo concentrico - parte dei residenti a spostarsi verso la periferia.

Questo processo, il cui impatto socio-economico è stato ed è notevolissimo, è peraltro collassato quando la crisi sanitaria ha sostanzialmente paralizzato il turismo internazionale, e così oggi ci ritroviamo non solo con la crisi dell’economia legata al turismo, ma anche con la desertificazione dei centri storici.

Di là dalla contingenza, auspicabilmente breve, della crisi pandemica, il problema delle metropoli, del loro sviluppo sociale, rimane comunque intatto, e vanno ripensate le politiche per affrontarlo, a partire proprio dal rapporto centro/periferia.

Innanzi tutto, a partire dal riuso abitativo del patrimonio immobiliare (pubblico e privato) attualmente non utilizzato; a Roma, ad esempio, è assurdamente aumentata sia l’emergenza abitativa sia la quantità di città cementificata. Ma, soprattutto, provando ad immaginare e costruire delle metropoli policentriche, quindi non più secondo un modello ‘copernicano’, con una serie di periferie che ‘ruotano’ intorno ad un centro, ma secondo un modello rizomatico, come una rete di mini-città.

Oltre l’idea di metropoli (“centro economico e culturale di una regione o di un Paese”), e verso quella di città multipolare.

Affinché si possa arrivare a questa condizione di policentricità, sarà necessario mettere in atto le opportune politiche sia in ordine al trasporto pubblico, sia in ordine alle politiche abitative, sia per quanto riguarda la programmazione culturale.

Un processo di questo genere richiede però necessariamente che, in ciascuna area urbana che si vada configurando come uno dei centri del territorio, si sviluppi anche una economia ‘locale’ significativa, liberando gli abitanti dalla prevalente necessità di grandi spostamenti legati al lavoro. Ciò è solo in parte ottenibile attraverso il decentramento amministrativo (come si è visto nel secolo scorso), perchè l’indotto è limitato, e chi vi lavora non risiede sul posto; si può ottenere qualche risultato più significativo quando si insediano nuovi centri amministrativi (come ad esempio le grandi agenzie internazionali) o di ricerca, soprattutto se la loro edificazione è affiancata da una opportuna edilizia abitativa, tale da renderla attrattiva per chi ci dovrà lavorare.

Il modello policentrico, in ogni caso, richiede innanzitutto una rivoluzione culturale, un radicale cambiamento di paradigma. Sotto questo profilo, quindi, si può comprendere come il processo di trasformazione da metropoli a città multipolare debba e possa passare dalla produzione culturale - che è appunto, e primariamente, produzione ‘di senso’.

Questi processi, per quanto sostenuti ed incoraggiati dal ‘centro’, devono però svilupparsi a partire dal territorio, dalle sue specificità; devono esprimere quella particolare realtà, non possono esservi ‘innestati’. Così come il centro politico-culturale della metropoli deve ‘liberare’ le sue periferie, queste devono ‘riprodurlo’ per ‘scissione’, moltiplicandosi sul territorio. L’attivazione di processi culturali - di produzione e di consumo culturale - policentrici, genererà sul medio periodo anche l’attivazione di processi economici. Trasformerà le periferie, rendendole non più delle dependance del centro, ma realtà ‘autonome’, connesse tra loro e con il centro urbano, in una rete paritetica di relazioni.

É questa, la vera rivoluzione su cui vale la pena scommettere.

Note

1Enrico Tomaselli, Blob Cities.
2 Blob Cities, ibidem.
3 Blob Cities, ibidem.