A Cuba sono entrata in contatto con il vudù che letteralmente significa "spirito", "divinità". Originario delle regioni costiere del Togo e del Benin, oltre ad essersi diffuso in Ghana ed in altri stati dell'Africa Occidentale, è sbarcato nei Caraibi e nelle Americhe durante la tratta negriera.

Proprio in Togo e Benin, qualche anno dopo, ne ho approfondito la conoscenza e l’influenza nella vita quotidiana della popolazione.

In Benin il vudù è religione ufficiale dal 1996.

Spesso avvolto da un alone di mistero, i suoi riti erroneamente associati alla magia nera, il vudù è la religione animista nata ai primordi della civiltà umana. Alcuni studiosi ritengono che risalga addirittura a diecimila anni fa. Religione tramandata dagli antenati è ancora praticata da queste popolazioni, quale sintesi delle varie espressioni spirituali africane, con alcuni elementi cattolici.

Il vudù si basa sulla venerazione della natura e degli antenati e sulla credenza che i vivi e i morti coesistano fianco a fianco e che si può accedere al mondo dei morti grazie a una serie di spiriti intermediari, che sono un legame anche con dio.

Nei villaggi le cerimonie vudù si svolgono al ritmo sempre più ipnotico dei tam-tam, accompagnato da canzoni e alcuni danzatori cadono in profonda trance. In ogni angolo si incontrano piccoli templi, altari e feticci. Oggetti ai quali viene conferito dai sacerdoti, con riti complessi, potere ultraterreno.

Pezzi di animali (compresi sangue e piume) vengono offerti per aumentare tale potere. I riti hanno lo scopo primario di chiedere favori alle divinità. Se le preghiere sono esaudite, vengono offerti doni e altri animali.

Gran sacerdote del vudù è l'houngan, una sorta di predicatore, guaritore, indovino ed esorcista durante i riti in cui si verificano casi di possessione.

Arrivata a Lomé, la capitale del Togo, ho trovato una città cosmopolita che nel tempo ha subito influenze coloniali tedesche, inglesi e francesi sino all'indipendenza, ottenuta nel 1955.

L’incrocio di persone, culture e commerci le ha dato un’identità particolare che si riscontra nella sua architettura e nello stile di vita.

Il viaggio alla scoperta del vudù è iniziato con la visita dell’Akodessewa, il mercato dei feticci ospitato nel quartiere omonimo di Lomé. Girando per i banchetti del mercato, che è uno dei più grandi e più importanti in Africa Occidentale, ho visto in esposizione decine e decine di teste essiccate di coccodrilli, cani, gatti, scimmie, camaleonti, cobra, pesci palla, civette, avvoltoi, pappagalli e altri uccelli, corna di antilope o di cervo.

Si trova in vendita tutto quello che serve ai guaritori e agli sciamani per i riti vudù e per confezionare amuleti e feticci.

Nell’animato Grand Market sono venuta a contatto con un’altra tradizione: le Nana benz. Sono le donne che gestiscono il commercio dei pagne: pezzi di stoffa rettangolari, stampati o riccamente tessuti a mano, da allacciare intorno ai fianchi o con i quale vengono realizzati i vari modelli della moda africana.

Non lontano dal centro di Lomé abbiamo visitato gli edifici di stile coloniale e l'antico porto: le rovine di un lunghissimo pontile che parte da una immensa spiaggia.

In un villaggio vicino a Lomé abbiamo potuto assistere ad un rito vudù. Durante la celebrazione, sotto il ritmo incessante ed assordante dei tamburi, i partecipanti danzavano, mentre altri adepti cadevano in trance.

Nello stesso villaggio fuori dalle case, costruite in argilla con i tetti di paglia, vi erano appesi feticci. Confezionati con vari oggetti e da parti di animali, hanno la funzione di proteggere dagli spiriti cattivi la casa e i suoi abitanti.

Ad Atakpam, cittadina capoluogo della regione degli Altopiani, costruita sulle colline, ho ammirato e comprato il kente: tipico drappo, composto di strette bande tessute a mano dagli uomini e cucite tra loro. Viene indossato dai capi nei giorni di festa.

La danza del fuoco dei Them, vista a Sokodé, mi ha impressionato. Alcuni danzatori, in stato di trance, si sono lanciati tra le braci di un grande fuoco allestito nel centro del paese. Senza riportare alcuna ustione, le hanno maneggiate, mangiate e cosparso il corpo. Non ho capito se per coraggio o autosuggestione o magia.

L’incontro con la popolazione Kabye, nei villaggi in cima alle colline nel Togo settentrionale, ci ha fatto conoscere l’artigianato: gli uomini lavorano il ferro dandogli forma con il fuoco e pesanti pietre, le donne plasmano particolari vasi di argilla. Uno l’ho portato a casa e fa bella mostra insieme ad altri recuperati nei vari viaggi.

È una popolazione che conserva e segue le tradizioni ancestrali: i riti di passaggio e le pratiche rituali che vengono regolate da rigide regole, custodite dagli anziani e dai feticheur.

A Koutammakou, dei Tamberma che si fanno chiamare i Betammari-be “coloro che sanno costruire”, ho ammirato i villaggi fortificati. Patrimonio mondiale dell’UNESCO, immersi in una natura selvaggia, hanno spazi e siti dedicati alle cerimonie di iniziazione.

Le case, chiamate tata, sono costituite da una serie di torrette di fango collegate da mura, senza finestre, solo piccoli fori. Costituite da due o tre piani, al piano terra si trovano i magazzini e la cucina. All’ingresso sono appesi feticci (teschi o altre parti di animali). Il tetto della casa fortificata è il luogo più sicuro dove stendere i semi di sorgo, miglio ed altri cereali, da far essiccare prima di immagazzinarli nei granai.

Le pareti di fango della tata, la cui costruzione spetta agli uomini, sono decorate. Alle donne, in seguito, spetta la manutenzione. Devono essere costantemente plasmate.

I Tamberma, animisti praticanti, sono abili cacciatori e hanno molte similitudini con i Dogon del Mali.

Superato il confine in Benin abbiamo incontrato i Betammari-be del Benin: i Somba, “nudi”. Fino a pochi anni fa non conoscevano gli indumenti. Anche loro vivono nella tata.

Architetti di avanguardia come Le Courboisier, che parlò di “architettura scolpita”, sono rimasti colpiti per la plasticità delle forme di queste dimore fortificate.

Nella tradizione dei Somba permangono alcuni riti iniziatici molto suggestivi: i ragazzi, verso vent’anni, si fanno scarificare tutto il ventre con intricati e raffinati motivi geometrici, le ragazze il ventre e la schiena.

Nei primi contrafforti della catena dell'Atakora nel nord del Benin, negli antichi villaggi Taneka, abbiamo incontrato il féticheur e i giovani iniziati. Indossano un semplice perizoma di pelle di capra e fumano una lunga pipa ricavata da una zucca. Custodi delle tradizioni, non possono mai abbandonare il villaggio. Abbiamo anche visto un altro tipo di abitazioni. I villaggi sono composti da capanne rotonde con i tetti conici, protetti al centro da vasi di terracotta.

Nel Sud del Benin, abbiamo assistito alla stupefacente cerimonia denominata Zangbeto, tipica della popolazione Fon. Protagonista è la maschera omonima, la quale rappresenta “il guardiano della notte” che durante la cerimonia viene rappresentato da un costume di paglia a forma di covone che copre completamente colui che “incarna” lo spirito di Zangbeto. Ma sotto il costume non si cela nessuno: Zangbeto è animato da una forza magica.

Il viaggio ci ha portato a Abomey, capitale del regno di Dahomey, fondato dal popolo Fon nel 1625 e governato da dodici sovrani che si succedettero sino al 1900. Ognuno costruì un palazzo all’interno di un muro di argilla e paglia.

Il sovrano Behanzin, ultimo sovrano del regno, a seguito della sconfitta da parte dei francesi, diede fuoco alla città. Nell'incendio vennero coinvolti anche i palazzi reali. Si salvarono quelli del re Guézo e del re Glèlè che sono tuttora i palazzi meglio conservati. Il complesso dei palazzi reali fa parte del Patrimonio dell'umanità dell'UNESCO.

Il regno di Dahomey è stato tristemente famoso per la tratta atlantica degli schiavi e ricordato per i prodotti artistici, nonché per le unità militari composte da donne, note come Amazzoni di Dahomey e per le elaborate pratiche vudù.

Nel 1894 venne colonizzato dalla Francia e integrato come parte dell'Africa Occidentale Francese. Nel 1960 ottenne l'indipendenza come Repubblica del Dahomey e dal 1975 del Benin.

Con una barca a motore siamo giunti a Ganvié, villaggio su palafitte nella regione lacustre a nord di Porto Novo. Gli abitanti appartengono all’etnia Tofinou che, per sfuggire alle razzie della potente tribù Fon, alleata agli schiavisti portoghesi, costruirono la città con tremila palafitte in mezzo al lago Nokoué. Conosciuta come “la Venezia d’Africa”, è inserita tra gli aspiranti patrimoni dell’umanità dell’UNESCO.

È stato interessante assistere alla vita acquatica della sua popolazione. Le loro capanne sono costruite su dei pali di teak, con tetti ricoperti, da una spessa coltre di paglia o da lamiera e protette da feticci.

La pesca è l’attività principale di questa popolazione. Le piccole imbarcazioni sono condotte da bambini, da pescatori che si recono a pescare, o da donne che si recano al mercato e tutto sembra che si svolga al ritmo dello scadenzare del remo.

Non poteva mancare la visita a Ouidah, che è considerata una delle capitali del vudù africano. In questo antico porto del traffico negriero, con il forte portoghese trasformato in museo sulla tratta degli schiavi, ho ritrovato l’atmosfera descritta da Chatwin nel libro Il viceré di Ouidah. A Ouidah si trova il Tempio dei Pitoni, un importante santuario vudù, dove i fedeli si recano per fare ammenda dei propri peccati.

Andando di villaggio e villaggio, forse non ho fatto piena conoscenza del vudù. Una cultura estranea per capirla ci vuole preparazione. È stato, però, un incontro affascinante con la diversità e ho catturato immagini e sensazioni di un mondo che vive con poco, in armonia con la natura e che dà valore ad ogni attimo della vita.