In realtà, questa è o almeno dovrebbe essere una domanda pleonastica, dato che non solo da oltre 9 mesi SARS-CoV-2 ha corrisposto alle due definizioni base di pandemia (Il nuovo virus identificato ha causato epidemie prolungate a livello di comunità in due o più Paesi in più di una regione dell'OMS. La trasmissione da uomo a uomo del nuovo virus è stata provata) ma ha anche già causato (colpendo praticamente tutti i Paesi del mondo) più di 900.000 morti e quasi 30 milioni di casi (confermati). Eppure, paradossalmente non è così, visto che non solo migliaia di persone sembrano ancora dubitare che questa drammatica situazione sia una “vera pandemia”, ma persino alcuni esperti continuano a seminare pericolosi dubbi al riguardo. È dunque indispensabile fare chiarezza sulle reali potenzialità di SARS-CoV-2 e cercare su questa base di ipotizzare le potenzialità evolutive del virus e della pandemia in atto.

Per cercare di meglio affrontare la problematica, bisogna mettere subito in chiaro che un virus “pandemico” non è un agente patogeno come gli altri, ma un possibile “agente del caos”, in grado di penetrare nella nostra specie a partire dal suo serbatoio animale/naturale (evento anche noto come spillover, “salto di specie”); di evolvere rapidamente (mediante mutazioni del suo genoma) per meglio adattarsi alle nostre cellule (necessarie alla sua replicazione e diffusione) fino a diventare estremamente contagioso, invasivo e virulento; di innescare nel nostro organismo, essendo ignoto al nostro sistema immunocompetente, una violenta reazione immuno-infiammatoria potenzialmente letale. È evidente già a partire da queste prime, semplici osservazioni che chiunque pensi di trovarsi di fronte ad un virus “potenzialmente pandemico” non possa che valutare come estremamente pericolosa la sua evoluzione e diffusione in ambito umano. E che, per converso, chi continua a proporre versioni rassicuranti non abbia fin qui ravvisato in SARS-CoV-2 un virus pandemico e nell’epidemia in atto le caratteristiche specifiche e allarmanti della tanto attesa “prima grande pandemia del III millennio”.

Per meglio chiarire il problema dobbiamo ricordare che per virologi e pandemic hunters nei primi anni di questo secolo lo scenario è cambiato totalmente. Se infatti per oltre un secolo il rischio pandemico legato a virus respiratori era stato di pertinenza esclusiva dei virus influenzali, i due outbreaks epidemici della SARS (2002) e della MERS (2012) hanno letteralmente stravolto le regole del gioco. Anche perché i due nuovi e del tutto inattesi Coronavirus (potenzialmente letali per l’uomo a differenza di quelli che normalmente circolano per il mondo causando raffreddori comuni) erano emersi da un animale che era sotto stretta sorveglianza da alcuni decenni: il pipistrello. Un serbatoio naturale1 molto più pericoloso di quello aviario degli Orthomyxovirus influenzali: sia per la sempre maggiore promiscuità tra uomini e pipistrelli nelle periferie delle megalopoli del Sud del pianeta; sia per il già documentato ruolo del pipistrello come serbatoio di alcuni dei virus più letali emersi negli ultimi decenni (Ebola, Marburg, Nipah, Hendra...); sia per il fatto che il pipistrello essendo un mammifero, cioè un animale filogeneticamente molto più vicino a noi, i suoi virus possono più facilmente adattarsi ai recettori delle cellule umane, soprattutto a quelli presenti sulle cellule delle nostre vie aeree superiori , il che rende in primis molto più facile il salto di specie e in un secondo tempo molto maggiori la contagiosità e la virulenza.

Per tutti questi motivi non stupisce che i virus hunters di tutto il mondo si siano dedicati con particolare attenzione a partire dal 2003 (cioè all’indomani dell’epidemia di SARS) allo studio dei Coronavirus dei pipistrelli asiatici (bat Coronaviruses) in grado di infettare l’uomo. Ricerca che ha dato abbastanza presto i suoi frutti, se è vero che già nel 2005 nelle grotte dello Yunnan (Cina) furono isolati numerosi ceppi di bat-Coronavirus simili al SARS-CoV-1 della SARS e quindi estremamente pericolosi. Per lo stesso motivo non dovrebbe stupire che da allora questi stessi virus siano stati oggetto di ricerche e di esperimenti (probabilmente necessari anche se oggettivamente pericolosi e lungamente contestati2), essenzialmente intesi a creare in laboratorio ceppi altamente contagiosi e invasivi (e quindi potenzialmente pandemici) al fine di meglio conoscerne le caratteristiche genetiche e antigeniche che sono all’origine della loro contagiosità e virulenza e di progettare farmaci e vaccini in grado di contrastarli3. Infine e per le stesse ragioni, non avrebbe dovuto destare sospetti, né causare interpretazioni malevole il fatto che da alcuni anni a questa parte e dopo ulteriori scoperte concernenti l’incombente minaccia rappresentata dai bat-Coronavirus asiatici siano stati lanciati dagli scienziati (e puntualmente rilanciati dalle principali istituzioni sanitarie mondiali) numerosi allarmi di una imminente pandemia a probabile partenza dalla Cina; installati, nelle zone a maggior rischio, laboratori internazionali per l'isolamento di pericolosi agenti biologici, caratterizzati dai massimi livelli di biosicurezza (BSL-3 e 4); messi in atto piani pre-pandemici ed esercitazioni preventive (purtroppo troppo spesso rivelatesi inutili, almeno nei Paesi occidentali).

A questo punto non rimane che chiedersi se esistano chiare evidenze, oltre a quelle “anamnestiche” sopra menzionate, che depongano a favore dell’interpretazione in chiave pandemica dell’outbreak in atto. Altrimenti detto: se è possibile affermare con relativa sicurezza prima di tutto che le modalità dell’espansione epidemica confermano che quella in atto è la prima vera (tanto attesa e preannunciata) grande pandemia del XXI secolo; in secondo luogo che SARS-CoV-2 presenta le tanto temute caratteristiche (contagiosità e virulenza, essenzialmente intesa come capacità di innescare gravi risposte immuno-infiammatorie in una parte consistente dei soggetti colpiti) tipiche di un virus pandemico.

Pandemia sì, pandemia no

La subito documentata trasmissibilità/alta contagiosità del nuovo virus (caratteristica fondamentale di un agente pandemico, che dimostra come il nuovo virus si stia rapidamente adattando alla nuova specie); la quasi immediata scoperta dei primi cluster praticamente in tutto il mondo; l’andamento molto diverso degli outbreak nei vari Paesi e nei diversi continenti in relazione alla tempestività ed efficacia delle strategie di contenimento messe in atto4; i quasi 20.000 decessi registrati nei primi due mesi nella sola Lombardia; gli oltre 180 medici morti in Italia e i circa 7000 operatori sanitari deceduti nel mondo; la rapidità con cui il virus si è diffuso in Europa e poi in tutti i continenti; l’elenco dei primi 100.000 morti pubblicato il 24 maggio dal New York Times; le immagini drammatiche giunte da Paesi come il Brasile e l’Ecuador; i quasi 30 milioni di casi e gli oltre 920.000 decessi documentati nei primi 6 mesi di pandemia (15 03 20/15 09 20), con un indice di letalità che sfiorerebbe il 3%... consentono di rispondere affermativamente alla prima domanda che ci siamo posti: i dati epidemiologici registrati fin qui sembrano confermare che quella in atto sia la prima fase della tanto temuta e inutilmente preannunciata prima grande pandemia del III Millennio5.

Ma allora, come si spiega che clinici e persino infettivologi esperti abbiano assunto posizioni così diverse e non di rado diametralmente opposte (e spesso apertamente critiche) rispetto a quella dei virologi e delle principali istituzioni sanitarie nazionali e internazionali (a cominciare dall’OMS)? Mentre questi ultimi appaiono sempre più convinti che siamo di fronte a un dramma epocale che rischia di assumere dimensioni apocalittiche se non si corre ai ripari e cercano di indurre sia le istituzioni che i cittadini a comportamenti e strategie precauzionali (inevitabilmente e progressivamente impopolari), i primi si dicono assolutamente certi che si tratta di una crisi sanitaria come tante altre, la cui portata sarebbe stata notevolmente sopravvalutata o addirittura volutamente amplificata (anche con finalità di ordine affaristico/speculativo, se non terroristico). È importante sottolineare che non si tratta di una problematica puramente teorica, ma di una questione estremamente concreta e importante, non solo perché la presenza di posizioni così diverse sta determinando un pericoloso disorientamento nell’opinione pubblica, ma anche perché via, via che il contrasto tra virologi e clinici aumenta e si radicalizza, anche tra i non addetti ai lavori (e in particolare tra i professionisti dell’informazione) e tra i comuni cittadini tendono a formarsi vere e proprie fazioni contrapposte e spesso antagoniste. Comprendere l’origine di queste diverse interpretazioni è dunque essenziale non solo per evitare la confusione e il disorientamento crescenti, che potrebbero indurre in parte della popolazione comportamenti azzardati, provocatori e irresponsabili, ma anche per meglio comprendere e in certa misura prevedere l’evoluzione della pandemia in atto e per affrontarla nel modo migliore.

I due schieramenti

È interessante a questo punto sottolineare un dato interessante: l’appartenenza a ciascuno dei due “schieramenti” non è cambiata nel corso della pandemia. I sostenitori della tesi pandemica in senso stretto e quindi della drammaticità della situazione da un lato e i teorici di un’epidemia da virus parainfluenzale tutto sommato facilmente controllabile dall’altro sono rimasti essenzialmente gli stessi fin dall’inizio della crisi. Ed è anche importante notare come questi secondi siano diventati il punto di riferimento, quando non addirittura gli eroi di un ampio movimento d’opinione che tende a vedere la pandemia se non come un’invenzione, comunque come il prodotto di un’amplificazione mediatica collegata a una vasta combine internazionale supportata da Big Pharma.

Già su queste basi possiamo supporre che all’origine della problematica che stiamo cercando di chiarire, c’è una differenza di prospettiva fondamentale. Nel senso che ciò che caratterizza e distingue i due “schieramenti” è, fin dall’inizio, un’interpretazione radicalmente diversa del dramma in atto e, più in particolare, della natura stessa e delle potenzialità dell’agente patogeno implicato. I sostenitori di una visione e di una linea per così dire “morbida”, evidentemente non riconoscono in SARS-CoV-2 un vero pandemico e lo considerano alla stregua di altri comuni patogeni, arrivando a teorizzare che possa rapidamente indebolirsi e/o che il nuovo ospite (noi) possa acquisire in tempi brevi una memoria immunitaria stabile ed efficace. Al contrario dei pandemic hunters che, come detto, tendono a considerare questi virus vere e proprie “bombe a orologeria” il cui percorso evolutivo-adattativo andrebbe rallentato subito, ad ogni costo e per lungo tempo: almeno fino a quando gran parte della popolazione umana non abbia acquisito (per via naturale o grazie a strategie globali di immunoprofilassi attiva di massa) una immunità sufficientemente stabile.

Dobbiamo a questo punto cercare di rispondere alla seconda domanda-chiave, quella concernente specificamente il nuovo virus: è possibile oggi affermare con assoluta certezza che SARS-CoV-2 è il temuto e atteso nuovo Coronavirus pandemico o è ancora possibile sostenere che si tratta di un “comune virus parainfluenzale”, sia pur dotato di notevole virulenza, destinato con ogni probabilità a indebolirsi e a scomparire rapidamente di scena, come affermano ancora oggi alcuni esperti6?

SARS-CoV-2: il nuovo (e atteso) virus pandemico?

I Coronavirus sono un gruppo di virus a RNA a singolo filamento presenti in una vasta gamma di vertebrati. Attualmente sono noti quattro generi di Coronavirus comuni (alfa, beta, gamma e delta) che causano lievi malattie del tratto respiratorio anche nell’uomo. Ma nel corso degli ultimi vent’anni 3 beta-Coronavirus altamente patogeni per l’uomo sono emersi da eventi zoonotici7: nel 2002 SARS-CoV infettò circa 8000 persone con un tasso di mortalità del 10% causando una prima allerta pandemica (SARS); nel 2012 MERS-CoV, correlato alla Sindrome Respiratoria del Medioriente (MERS), infettò circa 2500 persone con un tasso di letalità ancora più alto (circa 35%). Nell’autunno del 2019 un nuovo coronavirus, 2019-nCoV, poi rinominato SARS-CoV-2, sembrerebbe aver fatto il temuto salto di specie dal pipistrello all’uomo8.

Il sequenziamento del nuovo virus fu terminato in tempi molto rapidi, grazie ai notevoli avanzamenti tecnologici avvenuti nell’ultimo decennio e ai già ricordati studi a torto o a ragione vivacemente contestati, sui coronavirus potenzialmente pandemici. Già all’inizio del 2020 i ricercatori cinesi misero a disposizione della comunità scientifica internazionale la sequenza del nuovo Coronavirus. Pochi giorni dopo anche l’Istituto Pasteur annunciò di aver completato il sequenziamento, a partire da campioni di tre casi sospetti (due pazienti a Parigi e uno a Bordeaux). Le sequenze complete furono depositate il 30 gennaio sulla piattaforma GISAID (Global Initiative on Sharing All Influenza Data) 9. Occorre a questo proposito sottolineare che il rapido sequenziamento e la scoperta tempestiva di casi in tutto il mondo avrebbero potuto essere un enorme vantaggio per affrontare la situazione in atto, perché è oggi possibile, incrociando i dati genetici e filogenetici, prevedere in certa misura le potenzialità e persino l’evoluzione di un virus. E, come meglio vedremo, a partire dalle prime analisi della sequenza master si era potuto constatare che SARS-CoV-2 aveva acquisito in pochi mesi alcune mutazioni chiave, concentrate nelle due sezioni della sequenza in grado di conferirgli maggiore potenzialità invasiva e contagiosità ed uno spiccato tropismo per i tessuti del nuovo ospite: non soltanto per le vie aeree superiori e i polmoni, ma anche per arterie, apparato gastroenterico, sistema nervoso centrale. Fu anche subito evidente che la sequenza genetica del nuovo virus era soltanto per il 70% analoga a quella del Coronavirus della SARS e per oltre il 95% a quello di uno dei Coronavirus di pipistrello scoperti e censiti nelle grotte dello Yunnan10: un dato che insieme alle analisi filogenetiche comparate con altri Coronavirus confermava l’ipotesi che si trattava di un virus che aveva fatto di recente il salto di specie e che aveva tutte le carte in regola per diventare una seria minaccia per la salute umana a livello globale11.

Le prime analisi approfondite della sequenza12 rivelarono che SARS-CoV-2 aveva acquisito (nei confronti del bat-Coronavirus RaTG13 da cui era probabilmente originato) alcune mutazioni-chiave nel gene codificante la proteina spike (S) che permette l’aggancio del virus ai recettori ACE-2 presenti in gran numero nelle vie aeree superiori umane, ma anche negli endoteli e in molti altri tessuti. L’attacco del virus alle cellule è il primo step di ogni infezione virale ed è anche un fattore determinante del tropismo per i tessuti del nuovo ospite: come già il SARS-CoV della SARS, anche SARS-CoV-2 infetta le vie respiratorie superiori legandosi al recettore ACE2, con il supporto della proteasi TMPRSS2 che facilita l'infezione delle cellule epiteliali delle vie respiratorie13. È importante notare che una elevata capacità di binding al recettore ACE-2 era stata già attestata in SARS-CoV14, ma le prime modellizzazioni della proteina spyke di SARS-CoV-2 sembrarono attestare un’affinità aumentata15. In particolare, le mutazioni N493Q e T499P sembravano determinare una maggiore affinità del sito di binding (RBD) per ACE216. Ma è anche importante notare che il nuovo segmento RBD appariva acquisito, da parte di SARS-CoV-2, tramite un complesso processo evolutivo, piuttosto che mediante un progressivo accumulo di mutazioni17. Le principali nuove mutazioni concernenti il sito di binding, non erano infatti presenti nel bat-Coronavirus originario (RaTG13) e si ipotizzò che il processo ricombinatorio si fosse verificato in un altro mammifero, il pangolino, che avrebbe funto da ospite intermedio18. Un dato intrigante, anche se tuttora controverso19. Altrettanto importanti apparvero subito le due mutazioni nel sito di clivaggio, sequenza adiacente a quella codificante la proteina S e fondamentale nel determinare la capacità del virus di diffondere nei tessuti, grazie all’interazione con un enzima presente nei polmoni ma anche nel fegato e nell’intestino tenue dell’uomo: la furina20. È utile ricordare che la presenza di un sito di scissione polibasico, che può essere facilmente processato da proteasi simil-furina, è tipico anche dei virus dell'influenza aviaria ad alta patogenicità e li distingue dai virus influenzali “stagionali”21: l'espressione in vari organi umani di furina e proteasi consimili potrebbe spiegare l’incremento del tropismo di SARS-CoV-2 per i tessuti umani22.

Quanto detto dimostra che già a febbraio la comunità scientifica internazionale aveva le prove del fatto che SARS-CoV-2 era un virus che aveva fatto da poco il salto di specie ed era estremamente contagioso e pericoloso per l’uomo: un pandemico vero quindi e non un normale virus parainfluenzale23. Ma per concludere questa breve analisi dei motivi per cui SARS-CoV-2 dovrebbe essere definitivamente riconosciuto come l’atteso agente causale della prima grande pandemia del III millennio, dobbiamo almeno accennare all’altro fattore fondamentale che determina la particolare virulenza di un virus pandemico (cioè di un agente patogeno nuovo e del tutto sconosciuto al nostro sistema immunocompetente): la sua capacità di innescare nel nuovo ospite una reazione immuno-infiammatoria sistemica potenzialmente letale. Il quadro clinico più specifico è la Acute Respiratory Distress Syndrome (ARDS) con possibile esito rapido in fibrosi polmonare24; ma sono anche possibili: Macrophage Activation Syndrome (MAS), cytokine storm, Disseminated Intravascular Coagulation (DIC)e insufficienza cardiocircolatoria. Nelle grandi pandemie del passato e nei recenti outbreaks, per fortuna almeno fin qui autolimitanti, da H5N1 (Avian flu), SARS-CoV-1 e MERS-CoV gli alti tassi di letalità anche tra soggetti giovani furono probabilmente dovuti agli stessi meccanismi patogenetici: lo studio della risposta trascrizionale è il modo migliore per decifrarli.

In questo senso è utile ricordare che il riconoscimento e la risposta dell’organismo ad un virus hanno luogo essenzialmente all’interno delle cellule, dove una famiglia di recettori intracellulari rileva l’RNA esogeno che si forma durante la replicazione del virus stesso. La cellula reagisce attivando alcuni fattori di trascrizione, in particolare i fattori di regolazione dell’interferone (IRF) e il fattore nucleare kB (NF-kB) innescando così due programmi antivirali di base. Gli IRF inducono la trascrizione degli interferoni di tipo primo e terzo (IFN-I e IFN-III) e la successiva upregulation dei geni stimolati dagli IFNs (ISG); NF-kB è invece il principale fattore di trascrizione che attiva i programmi infiammatori, reclutando e coordinando specifici sottogruppi di leucociti mediante secrezione di chemochine e citochine. Tali risposte hanno esercitato nei milioni di anni una forte pressione selettiva sui virus e determinato in essi la messa in campo di innumerevoli contromisure molecolari in una sorta di corsa (co-evolutiva) agli armamenti25. Ebbene, in estrema sintesi è possibile affermare che tutti gli studi fin qui pubblicati mostrano come a seguito di infezioni da SARS-CoV-2 caratterizzate da forte carica virale, nonostante la quasi completa mancanza di espressione di IFN, la risposta chemiotattica e infiammatoria documentata dall’espressione di CCL20, CXCL1, IL6, IL-1B, CXCL3, CXCL5, CXCL6, e TNF rappresenti la caratteristica fondamentale ed è in grado di spiegare la possibile evoluzione critica che colpisce circa il 5-10% dei pazienti affetti da Covid26.

A questo punto, nella speranza di avere fornito alcune motivazioni importanti in favore di SARS-CoV-2 come virus pandemico e del dramma in atto come “prima grande pandemia del III millennio” non possiamo non chiederci se sulla base di quanto detto fin qui sia possibile prevedere l’evoluzione di questa. E anche in questo caso la domanda è duplice: è possibile sulla base del monitoraggio sia genetico, sia filogenetico del virus prevedere in che modo SARS-CoV-2 evolverà? È possibile, sulla base dei dati e soprattutto dei trend epidemiologici attuali prevedere l’evoluzione della pandemia?

La possibile seconda ondata: il peggiore scenario possibile

È evidente che anche in questo caso le due domande sono strettamente interconnesse. Sulla base di quanto detto sappiamo che un nuovo virus tende a evolvere acquisendo mutazioni adattative. Il modello più plausibile è quello secondo cui più il virus circola, contagiando un alto numero di individui della nuova “specie ospite”, più sviluppa mutazioni. Inoltre, l’adattamento progressivo del virus producendo più casi, inevitabilmente tende a produrre più decessi. Questa coevoluzione dovrebbe in teoria protrarsi fino al raggiungimento di un equilibrio tra il nuovo virus e il sistema immunocompetente umano.

Nonostante queste semplici regole siano condivise da decenni nell’ambito della comunità scientifica internazionale, vengono quotidianamente proposte ipotesi contrarie, in base alle quali alcune fin qui rarissime mutazioni che indeboliscono il virus27 potrebbero sia spiegare la notevole frequenza di casi lievi nei Paesi come l’Italia in cui è stata superata la drammatica fase iniziale; sia lasciar campo a previsioni ottimistiche circa l’evoluzione dell’epidemia stessa. Alcuni autori hanno persino ipotizzato che sarebbe “più conveniente” al virus sviluppare mutazioni che lo rendano meno virulento per diffondersi più facilmente nella nuova specie. Bisogna però ribadire che sul piano scientifico, almeno nell’ambito del modello classico, le mutazioni sono essenzialmente eventi stocastici e la selezione premia quelle più vantaggiose per il virus, cioè quelle più adattative: come conferma una delle poche mutazioni fin qui dimostratasi stabile e frequente (D614G nella Spike protein) che avrebbe favorito in Europa, fin da febbraio, una più rapida trasmissione del virus rispetto ai Paesi asiatici28.

Infine, facendo riferimento al passato bisogna ammettere che lo scenario più simile a quello attuale è la Pandemia Spagnola: l’unica pandemia moderna dovuta a un virus respiratorio del tutto nuovo per il nostro sistema immunocompetente. Questo non significa ipotizzare che la possibile seconda andata epidemica avrebbe conseguenze altrettanto catastrofiche di quella di un secolo fa, ma semplicemente che sarebbe corretto tenere in considerazione questo che è lo scenario peggiore possibile e organizzare di conseguenza i sistemi sanitari di tutto il mondo al fine di scongiurare che una comunque possibile seconda ondata pandemica ci ritrovi impreparati.

Zoonosi e pandemie: strategie di prevenzione sono ancora possibili?

Sappiamo da tempo che la gran parte delle malattie infettive che hanno funestato per millenni la vita di Homo Sapiens e delle più terribili epidemie della storia sono zoonosi: secondo la nota tesi dell’antropologo Jared Diamond un “dono”, ma potremmo anche dire quasi una “vendetta” di milioni di animali da noi imprigionati, torturati, sfruttati e costretti a modalità di vita innaturali e spesso terribili almeno a partire dal neolitico29. Sappiamo anche che i disastri ecologici provocati dall’uomo - guerre, stravolgimenti eco-sistemici, deforestazioni, migrazioni forzate di uomini e animali e infine costruzione di immense megalopoli a ridosso di aree naturali degradate e violentate e caratterizzate da immensi mercati popolati da migliaia di specie animali tenute artificialmente in contatto tra loro – rappresentano oggi il maggior fattore favorente i “salti di specie” e le pandemie.

Forse è sempre stato così: le grandi epidemie e pandemie del passato anche recente (basti pensare proprio alla Spagnola) sono state, in genere, la conseguenza di catastrofi naturali o sociali (in primis guerre, carestie e migrazioni). Ma certamente la globalizzazione e l’attuale intensità e varietà degli scambi e degli spostamenti di esseri umani e di altre specie animali e microbiche (intenzionali o accidentali: si pensi alle bio-invasioni di specie tropicali) non hanno precedenti nella storia.

Ecco perché anche in relazione al Covid è stato sottolineato il ruolo causale del rapido degrado degli ecosistemi30 e soprattutto di quelli microbici che rappresentano l’essenza della biosfera; si è rammentato come la promozione di accordi internazionali atti a proteggere o ripristinare gli ecosistemi danneggiati costituisca una contromisura necessaria ed urgente per rallentare il continuo emergere di malattie zoonotiche, legate alla crisi della biodiversità e al degrado dei cicli bio-geo-chimici in tutti i comparti dell’ecosfera; si è affermato che anche questa, come ogni altra crisi ambientale e climatica rappresenta oltre che una sfida globale urgente, una grande opportunità per un cambiamento culturale, politico ed economico radicale che dovrebbe partire dalla consapevolezza della possibile irreversibilità della crisi biologica in atto (immanente più che imminente). Sperando di essere ancora in tempo…

Note

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17 Othman H, Bouslama Z, Brandenburg JT, et al. Interaction of the spike protein RBD from SARS-CoV-2 with ACE2: Similarity with SARS-CoV, hot-spot analysis and effect of the receptor polymorphism. Biochem Biophys Res Commun. 2020;527(3):702-708. doi:10.1016/j.bbrc.2020.05.028.
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