Chi davvero è in grado, così come dovremmo, di viver la vita come un gioco? O, in altre parole: chi davvero è in grado di vivere? Perché di questo, in effetti, si tratta.

In un gioco si vince o si perde. Punto e basta. Nessuna tragedia, nessun rimorso. Che folle sarebbe colui che - in seguito a una sconfitta a scacchi, per esempio - si trovasse a trascorrere i giorni successivi a farsi compiangere dagli amici, a cercar consolazione tra le persone che gli voglion bene, o a sentirsi attanagliato dal rimorso per un errore commesso durante la partita?

Lo spirito sportivo impara subito a non vantarsi né a sminuirsi mai. A trattare ogni partita come un evento da cui imparare e basta. Senza drammi o disperazione. Senza vanagloria. Che senso avrebbe, infatti, vantarsi o dannarsi, per una gara ormai conclusa?

Il giocatore esperto sa che deve concentrarsi con la massima attenzione quando è il momento. Sa che deve farlo adesso, in questo preciso istante, mentre la partita è in corso, e non dopo. Deve prestare attenzione a ogni mossa del rivale, osservare ogni suo gesto, spiarne ogni espressione. Dopodiché, a partita finita, i giochi saranno fatti. E nessuna recriminazione, nessuna lamentela o nessun autocompiacimento avranno più senso.

Il gioco richiede l'uso del pensiero. Ma solamente mentre esso si sviluppa. Una volta finita la partita è inutile pensarci ancora su. Tanto più se ci si lascia trascinar dall'emozione. Ogni eventuale riflessione sulla partita giocata dev'esser assolutamente costruttiva. Fredda, limpida e razionale. Orientata solo a delineare con la massima chiarezza, alla luce degli errori commessi in gioco, lo spazio di miglioramento su cui concentrare il proprio successivo allenamento. Le emozioni stesse debbono essere vagliate, controllate, selezionate. Il giocatore, invece che farsi trascinare da esse, deve imparare a sceglier solo quelle che possano condurlo alla vittoria. Per poi sfruttarle al meglio.

Il gioco è nato dall'uomo? Forse in una fase preistorica era un tutt'uno col suo viver quotidiano. In quel tempo egli era ancora in grado di controllare il proprio pensiero. Di accenderlo, adoperarlo e spegnerlo, secondo necessità. Che il gioco sia nato dall'uomo o, invece, da un'attenta osservazione degli altri animali, quel che però conta è che dalla dimensione ludica - che probabilmente in quel tempo antico coincideva con la sua stessa esistenza - egli si è progressivamente e dolorosamente allontanato. Basta guardar le altre forme di vita, per capirlo. Le piante e gli animali, appunto1.

Il gatto che combatte con un rivale dà il meglio di sé, lottando con una forza e una concentrazione impressionanti. Ma quando lo scontro finisce, si accuccia placidamente a riscaldarsi al sole. Lo sguardo torna immediatamente sereno, perfino annoiato, pur leccandosi le ferite. L’espressione si fa subito pigra, quasi disinteressata; la stessa che aveva fino a un attimo prima della lotta. Nessun rimpianto, nessuna rabbia. Al suo posto, l'uomo sconfitto e ferito maledirebbe il cielo, coverebbe rancore, sete di vendetta. Al suo posto, l'uomo vittorioso si pavoneggerebbe e si vanterebbe; oppure accumulerebbe dubbi e sensi di colpa.

Il gioco è competizione, confronto, scontro. È dunque essenziale aver di fronte a un rivale. Ma il giocatore esperto sa che la sua controparte si trova esattamente nella sua situazione. La stessa tensione, la stessa ambizione, lo stesso timore. Nessun odio, nessun disprezzo egli cova, nei confronti del suo rivale. La voglia di vincere, la determinazione agonistica a primeggiare sull'altro che entrambi provano, si riduce esattamente al tempo della partita. Nasce sul campo da gioco e lì si esaurisce, alla fine della competizione. E la partita termina con un abbraccio, a prescindere da chi e come abbia vinto o perso, come se nulla fosse stato. La circostanza in cui un giocatore, alla fine della competizione, non stringesse la mano al suo rivale e nei giorni successivi arrivasse perfino ad accusarlo, ad attaccarlo pubblicamente, o addirittura ad andarlo a cercare a casa per fargliela pagare chissà in quale modo, sarebbe a ragione considerata una dimostrazione di pura follia. Il livello del gioco, insomma, si mantiene a enorme distanza da quello della vita “reale” che l'uomo conduce quando non gioca. La stessa distanza che separa la calma e la serenità dalla disperazione. La salute dalla malattia.

Ne è prova il fatto che in molti giochi si renda necessaria la presenza di un terzo super partes. Di un arbitro che sovrintenda alla gara e che vigili sull'effettivo e scrupoloso rispetto delle regole. L'arbitro è giudice implacabile; le sue decisioni sono assolutamente inderogabili e inaggirabili. Egli premia e punisce in modo irrevocabile. Ma la sua competenza e la sua area di influenza si limitano esclusivamente alle fasi della partita. Al di fuori di quel contesto, infatti, è un uomo come gli altri, soggetto a una giustizia superiore. E in quanto uomo, può sbagliare. E sbaglia, necessariamente sbaglia. Durante il gioco, con una certa moderazione, è perfino possibile lamentarsi delle sue decisioni, tentare di dissuaderlo, di fargli comprendere l'errore di valutazione commesso; ma a gioco concluso non avrebbe proprio alcun senso continuare ad accusarlo. Perché anche l'arbitro può sbagliare. E la giustizia perfetta, in un gioco, non esiste.

In una gara, per esempio, riveste un ruolo importantissimo il caso. La fortuna o la sfortuna. Alcuni giochi dipendono quasi interamente dalla casualità. E un giocatore lo sa. Per quanto sia preparato, per quanto sia forte e allenato, per quanto rispetti con scrupolo le regole del gioco, la fortuna può improvvisamente voltargli le spalle. E consegnar la vittoria al più debole, al più scorretto, al meno meritorio tra i contendenti.

Che senso avrebbe, a fine gara, esplodere in considerazioni ridicole come: “Non è giusto!”

La questione delle regole, poi, è a dir poco fondamentale. Il concetto di gioco, infatti, a prima vista evoca spensieratezza, libertà, spontaneità. Sembra distinguersi dalla normale e pesante quotidianità proprio in virtù della sua totale sregolatezza. Ma a ben pensarci, invece, nessun contesto si rivela più legato al sistema delle regole di quello del gioco. Ponendo la domanda: “Come si gioca?”, infatti, ci aspettiamo in risposta null’altro che un elenco di regole. Pare incredibile, ma è così. Niente diverte di più di un sistema di norme ben definite (e non di rado piuttosto difficili da rispettare, se non in seguito a un opportuno allenamento), a cui doversi scrupolosamente attenere per sperare in una vittoria su un rivale.

Ma c'è di più. Le regole del gioco sono sacrosante, sì. Condivise e assolutamente indiscutibili per tutti i giocatori. Ma anche perfettamente inutili, prive di significato. Norme a cui ci si deve attenere, punto e basta. A prescindere da un senso, da una qualsiasi e inesistente motivazione ulteriore. Spesso, vengono inserite appositamente perché vincere, altrimenti, risulterebbe “troppo facile”. In questo senso, allora, sarebbe davvero un pazzo chi volesse leggere in esse (per esempio, nella regola che prescrive al calciatore di colpire il pallone soltanto con i piedi o, allo scacchista, di muovere il cavallo sempre e solo “a elle") chissà quale principio superiore (razionale, morale, divino...). O chi entrasse addirittura nella determinazione di rispettarle fedelmente anche al di fuori del gioco stesso. Come potremmo considerare, per esempio, un uomo che, nel corso della sua consueta quotidianità, si riproponesse di non uscir mai dalle linee che delimitano un campo di calcio, anche a costo della propria vita?

Un altro aspetto del gioco fa riflettere e, ancora una volta, induce a concludere che viver la nostra vita di tutti i giorni come se si trattasse soltanto di una partita, si dimostrerebbe una scelta assolutamente vincente. Ed è la questione del limite.

Un bel gioco dura poco, mi ricordavano sempre i grandi quando erano stanchi di giocare con me, da bambino. All’epoca, quella frase non mi piaceva per nulla. Man mano che si cresce, però, si impara poi ad ammetterlo. È vero, sì. Se una partita si trascina oltre il suo limite, perde fascino. Si trasforma in una noiosa fatica, smarrisce il suo stesso significato. Come non considerare il fatto che ogni consumato giocatore sappia con certezza, fin dall'istante iniziale, che la sua gara avrà necessariamente una fine? Come non sottolineare che proprio su quel termine, su quella scadenza, l'intero gioco si imbastisce e si orienta? Chi è in vantaggio, tende ad amministrare questa sua posizione lasciando passare il tempo e contando proprio sul provvidenziale, bramatissimo e salvifico fischio finale. E chi è in svantaggio sa che c'è tempo, che c'è ancora tempo. Che niente è impossibile e che tutto può ancora succedere. Che c'è ancora speranza di ribaltare il risultato, prima della fine.

C'è ancora tempo, sì. Fino all'ultimo minuto. All'ultimo secondo! Il vero sportivo non si demoralizza. Controlla, seleziona le emozioni. Si concentra in modo assoluto, tende i muscoli e si dispone a vender cara la pelle, come si suol dire. A non darsi per vinto fino all'ultimo istante. A non mollare fino alla fine. Niente lo abbatte, anzi: lo svantaggio lo sprona; eccita i suoi pensieri, la sua fantasia. Perché le vittorie più belle, le gare che han fatto la storia, son proprio quelle che tutti davano per perse fino a un soffio dal termine. Quelle che stupiscono, meravigliano, spaesano. Quelle che finiscono come nessuno si sarebbe aspettato, a dimostrazione dell'intrepido coraggio, della forza di carattere, della strenue determinazione di chi le ha giocate fino in fondo. Le gare che stravolgono tutto e tutti, proprio all'ultimo secondo. Quelle sì che son gare!

Poi, però, arriva la fine. E, a quel punto, al risultato bisogna arrendersi. Punto e basta. E la questione della resa è, di nuovo, determinante.

Arrendersi. Ossia: “restituirsi a”, “riconsegnarsi a”. Un atteggiamento essenziale, assolutamente fondamentale da imparare ad assumere. E non solo dopo la fine, bensì in ogni attimo della competizione. Qualsiasi cosa accada - un punto subìto o conquistato, un errore dell'arbitro, una caduta sfortunata - è assolutamente importante arrendersi. Restituirsi alla situazione presente. Non rifiutarla, non rimuoverla mentalmente, non provare in alcun modo a respingerla o a camuffarla. Quel che è accaduto è accaduto: è un dato di fatto. Che va accettato, incondizionatamente.

Ciò non significa rassegnarsi, logicamente. Si tratta, infatti, di arrendersi alla situazione, non all'avversario. Nessuna rimonta sarebbe, altrimenti, mai possibile. Significa prendere in considerazione, nel modo più freddo e oggettivo possibile, la circostanza che si è determinata. E alla luce di questa lucida considerazione, agire.

Nulla come una partita insegna a coltivar l'interesse e la concentrazione più totali sull'adesso. Ci hanno fatto goal? Palla al centro. È andata così: ora si riparte. Preoccuparsi in vista delle fasi successive della gara, darsi per sconfitti in anticipo, disperarsi per l'accaduto: tutti atteggiamenti che davvero nulla hanno a che fare con la condotta e il modo di pensare dello sportivo. Che non pensa al passato. Che non pensa al futuro. Che tiene stretto tra le dita l'adesso, concentrato con tutte le sue forze sull'azione da sviluppare in risposta ai fatti, nella piena e totale accettazione di essi. Un’accettazione che non è rassegnazione, bensì virile capacità di guardare in faccia la realtà.

E di rispondere, adeguatamente.

1 Sulla dimensione del presente costantemente vissuta dagli animali e, soprattutto, dalle piante, si veda anche il mio recente Il Testimone, Bibliotheka edizioni, Roma, 2020.