Tutto ciò che immaginavamo come libertà fondamentali, diritti conquistati, valori indiscussi, democrazie consolidate vengono sgretolate. La sete di potere, che poi è una gabbia, non dà tregua. Il primo a togliere il limite di due mandati è stato il Presidente della Cina Xi Jinping trasformando, di fatto, la Repubblica Popolare in Impero Celeste prima del 1911.

Putin s'è garantito la Presidenza fino al 2036; cioè per sempre. Il referendum post pandemia è durato sette giorni ed i seggi sono stati allestiti un po’ ovunque. Tra i 206 emendamenti (votati in blocco dagli elettori) quello che lo prevede è rimasto invisibile. Nella campagna d'informazione ufficiale hanno invece trovato spazio le norme su memoria degli antenati, status della lingua russa e, visto che siamo nel Paese che ha proclamato l'ateismo per decenni, la fede in Dio.

In Africa Paul Kagame, presidente del Rwanda e già presidente dell'Unione Africana, ha prolungato con una legge costituzionale e referendum il suo mandato sino al 2034. Un paio d'anni prima di Putin. E questo, paradossalmente, per la pace interna è una buona notizia in quanto nel vicino Burundi le elezioni libere, con relativo ricambio, sono sempre una tragedia.

Ma non è il solo. L'Africa è costellata di Presidenti inamovibili: Paul Biya in Camerun da 30 anni al potere; Teodoro Obiang Nguema Mbasogo in Guinea equatoriale che è stato “rieletto” 5 volte. Yoweri Museveni in Uganda, punta al 2026 con 40 anni di potere.

E l'Asia? Hun Sen divenne primo ministro della Cambogia nel 1985, quando aveva solo 33 anni, e lo è ancor oggi, che ne ha 66. Gli fa buona compagnia Nursultan Nazarbayev che è a capo del Kazakhstan fin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1989 con votazioni irregolari. Ali Khamenei è stato presidente dell’Iran dal 1981 al 1989 per poi diventare la Guida Suprema a vita.

Ma la sete di potere colpisce anche oltreoceano. Trump ha reintrodotto la pena di morte per crimini federali. Non una buona notizia per i 60 prigionieri “federali” rinchiusi nei bracci della morte. Il presidente che nel post COVID ha visto un tonfo nei sondaggi che danno incredibilmente Biden in testa sta tentando la via della radicalizzazione per infervorare i tradizionalisti collegati ai razzisti contro l’opinione pubblica moderata e liberal. In questa direzione insieme alla pena di morte, va l’esaltazione delle iniziative nativiste contro gli immigrati di colore, la diffusione senza limiti delle armi e l’intolleranza verso l'omosessualità. Tutto in vista del 3 novembre.

Gli Usa, davanti a cotanta sfrontatezza, hanno rotto la tradizionale “non ingerenza” che vedeva il precedente Presidente non fare dichiarazioni politiche. Obama, dopo aver “invitato tutti i candidati democratici ad un passo di lato”, sta affiancando Biden in raccolte fondi per la campagna elettorale. “Questo è un momento critico e cruciale della nostra storia e tutti noi dobbiamo fare la nostra parte per trasformare questo Paese in ciò che sappiamo può essere”, ha twittato l’ex presidente, ancora molto popolare e in grado di generare quell’entusiasmo che, ad onor del vero, non traspare in Biden.

Se gli Usa sono in difficoltà l'America Latina non sorride: dal Venezuela di Nicolás Maduro al Nicaragua di Daniel Ortega vi sono popolazioni sotto dittatura. Nuovo alla politica è Bolsonaro ma, francamente, non è una buona notizia per il Brasile e i suoi popoli indigeni che proteggono uno dei polmoni più importanti del pianeta.

Nel vecchio continente europeo l'ungherese Victor Orbán ha approfittato della pandemia per accentrare “pieni poteri” su di sé. Preoccupazione a riguardo sia dalle Nazioni Unite che dall'Unione Europea. Quest'ultima, fortunatamente, è saldamente in mano a tre donne: Christine Lagarde alla Banca Centrale Europea, Ursula von der Leyen alla Commissione Europea e Angela Merkel al Consiglio Europeo perché, a quanto pare, considerano il potere un servizio pro tempore.