L’inattesa esplosione del contagio del COVID-19 in Italia ha determinato la necessità di una normativa emergenziale, della quale fanno parte, vari decreti ministeriali del Ministero della Salute, la delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, che dichiarava, per la durata di mesi sei (quindi sino al 31 luglio), lo stato di emergenza sul territorio nazionale relativo al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili. L’ordinanza era stata emessa nell’esercizio dei poteri in materia di protezione civile previsti dal d.lgs 2 gennaio 2018, n. 1 (Codice della Protezione Civile), che, all’articolo 24 disciplina lo “Stato di emergenza di rilievo nazionale”. Nel caso specifico, l’intervento era giustificato dalla più grave delle ipotesi previste e precisamente da quella di cui alla lettera c): emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24.

Seguivano il decreto-legge 23 febbraio 2020 n. 6, convertito in legge 5.03 2020, n. 13, e quindi i numerosi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) e il decreto legge del 25 marzo, n. 19, tutti emessi all’interno della dichiarazione di emergenza nazionale del 31 gennaio. Essi si succedevano seguendo il corso del progressivo espandersi del contagio su tutto il territorio nazionale ed il conseguente necessario intervento di contenimento. Senza necessità di enumerarli tutti e riportarne il contenuto, essi offrono un quadro significativo quanto allarmante dell’aggravamento della situazione, dell’aumento del numero dei contagi, dei ricoveri, dei decessi. Mentre all’inizio le zone di diffusione del contagio erano limitate alle cosiddette “zone rosse” (la provincia di Lodi ed il comune di Vo’ in Veneto), in un breve volgere di tempo esse interessarono l’intera Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna e, in seguito, l’intero territorio nazionale, sia pure con diverso grado di gravità, assai meno preoccupante, ad esempio, nelle regioni meridionali e insulari. Alla fine del mese di marzo, le misure restrittive di contenimento del contagio hanno raggiunto il livello massimo di intensità. Chiusura di tutti i locali pubblici di intrattenimento e di ristorazione, di parchi e giardini, degli esercizi commerciali, tranne farmacie, negozi di generi alimentari, compresi i supermercati, edicole. Divieto assoluto di uscire di casa per tutti i cittadini se non per strette necessità (spesa alimentare e farmaceutica, acquisto di giornali, attività motorie e cura degli animali domestici), ma sempre nell’ambito di prossimità alla propria abitazione. Le violazioni di tali misure comportano sanzioni amministrative, le sanzioni penali previste dall’art. 650 del codice penale. Ancora più gravi le sanzioni previste per chi viola l’obbligo della quarantena perché contagiato asintomatico o sottoposto a terapia domiciliare. In questo caso infatti scatta il delitto colposo contro la salute pubblica, di cui all’art. 452 del codice penale.

Già ad una prima lettura dei provvedimenti citati risulta evidente come buona parte di essi incide su diritti costituzionalmente garantiti, comprimendone alcuni e annullandone altri, tanto da aver fatto dubitare della loro compatibilità costituzionale. Si fa riferimento ai diritti di cui agli articoli 16 17, e 19 della Costituzione.

L’articolo 16 stabilisce che “ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale”.

L’articolo 17 sancisce la libertà di riunione, “purché avvenga pacificamente e senz’armi. Per quelle in luogo aperto al pubblico non è necessario alcun preavviso alle autorità. Per lee riunioni in luogo pubblico deve essere dato avviso alle pubbliche autorità”.

L’articolo 19 stabilisce la libertà di culto, “in forma individuale o associata” e di “esercitarne in privato o in pubblico il culto”.

Per ognuno di questi diritti sono previste limitazioni. Il diritto di libera circolazione e soggiorno è limitato, con riserva di legge, per motivi di sanità e sicurezza. E invece la possibilità di circolazione è del tutto preclusa, persino quella da comune a comune e, addirittura all’interno del singolo comune. Nel secondo comma è sancita la libertà di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrare, salvo gli obblighi di legge. e anche questa è stata preclusa, salvo eccezioni.

Per la libertà di riunione la limitazione è ancora più radicale, essendo vietate non solo e non tanto le riunioni “organizzate” per fini politici o sindacali, ma anche quelle artistiche (concerti e spettacoli all’aperto, mostre d’arte, spettacoli musicali, teatrali, cinematografici, spettacoli sportivi), e, addirittura, le riunioni spontanee, (gli assembramenti nelle piazze e le passeggiate della “movida”. Vietate ancora le riunioni familiari della domenica all’aperto e in casa, le feste sia fuori che in casa.

Quanto alla libertà di culto sono sospese le messe e ogni altro tipo di celebrazioni religiose, come processioni, pellegrinaggi, e persino le adunate in piazza San Pietro.

In sostanza, quella che è stata attuata può definirsi riduzione della socialità, socialità che è una componente essenziale delle modalità della nostra vita di relazione, soprattutto a livello giovanile.

Le limitazioni sin qui esposte producono ulteriori effetti. La chiusura di scuole di ogni ordine e grado e delle università, comprese le biblioteche, riduce l’accesso allo studio e ad istituzioni culturali e di ricerca; la chiusura di cinema, teatri, mostre d’arte, scuole di ballo, si riduce lo spazio ad attività al tempo stesso culturali e ricreative; con la chiusura di palestre, piscine, impianti sportivi, si sopprime l’accesso ad attività sportive, ricreative e utili alla salute.

La nostra legislazione ha previsto in passato e prevede tuttora misure restrittive, di isolamento e di controllo, per malattie anche gravi (oggi in gran parte eliminate) come vaiolo, colera, tubercolosi, malattie trasmissibili sessualmente (in passato sifilide, oggi AIDS), trattamenti sanitari obbligatori in psichiatria, per finire con le vaccinazioni obbligatorie. Tutte, in varia misura, incidenti su diritti di rilevanza costituzionale. Tali limitazioni riguardavano però solo i soggetti colpiti da queste patologie e non certo il resto della collettività. Questa volta è diverso. Per la prima volta le misure di tutela riguardano tutto il territorio nazionale e tutta la popolazione italiana. Un caso unico nella storia sanitaria del paese, anche rispetto all’epidemia della cosiddetta “spagnola”, una pandemia diffusa in tutto il mondo subito dopo la Prima guerra mondiale che fece circa cinquanta milioni di morti (in Italia trenta mila circa).

La compatibilità delle misure passate e presenti in materia di tutela della salute con restrizione di diritti costituzionali di così ampia portata, si scontra in teoria col diritto primario all’autodeterminazione. L’art. 32 della costituzione prevede il diritto alla salute, ma non l’obbligo alla salute. Vale in materia di consumo di alcool, di tabacco, di droga persino, di abitudini di vita dissennate, autolesioniste (la scelta di vita dei clochard, ad esempio), ma anche per le pratiche di piercing, tatuaggi integrali. Il limite è uno solo: che il danno cagionato o subìto alla propria salute non produca danno alla salute degli altri. Ma prima ancora di pensare al danno per la salute degli altri, vi è il danno, possibile più che potenziale, alla vita degli altri. E la vita è senza ombra di dubbio il maggior valore al quale l’uomo aspira, che tutti gli altri subordina, e al quale debbono soggiacere. Non è senza motivo che questo punto va richiamato alla nostra attenzione, dal momento che il COVID-19, ha purtroppo un esito mortale assai elevato soprattutto nei soggetti più deboli, per età, malattie pregresse, diagnosi ritardate. Inoltre è una pandemia determinata da un virus sinora sconosciuto nei confronti del quale, proprio per la sua novità, non esistono vaccini, né terapie specifiche e sperimentate. Si procede in modo empirico, utilizzando un mix di farmaci usati per altre gravi patologie, come l’ebola, L’AIDS, la malaria. Una concausa non trascurabile è quella della rapidità con la quale il contagio si propaga, con conseguente sovraccarico sulle strutture ospedaliere, che stentano a tenere il passo con la frequenza dei ricoveri e la carenza delle strutture, sia pure implementate con grande sforzo sia sotto il profilo dei mezzi materiali che sotto quello del personale medico e infermieristico.

Vi è inoltre il pericolo che l’esercizio dei diritti individuali, oggi compressi o inibiti del tutto, potrebbe far correre alla vita dei soggetti non ancora contaminati. Anche sotto questo profilo, la tutela della salute collettiva è esigenza prevalente sull’esercizio degli altri diritti costituzionali. La tutela della salute all’apice della scala di valori anche costituzionali? È così ed è necessario che sia così. Il termine “salute”, infatti, non è (solo) sinonimo di assenza di malattia, ma di benessere psico-fisico generale ed è proprio questa condizione a consentire al cittadino di esercitare appieno la libertà di movimento, di viaggiare, di partecipare ai momenti di vita pubblica, di socializzare, di svolgere attività sportive, ricreative. La salute, pertanto, oltre che ad essere un valore di per sé, è precondizione “funzionale” all’esercizio della cittadinanza attiva, come il lavoro in tutte le sue declinazioni, la piena partecipazione alla vita sociale, culturale e politica del paese, l’esercizio di attività sportive, ricreative, la “prossimità di gruppo” in tutte le sue potenzialità. Non certo a caso, la Costituzione, all’art. 32, definisce “fondamentale” il diritto alla salute, termine non usato né per il diritto al lavoro, né per gli altri diritti della persona.

Il punto centrale della questione, sul quale dibatte la dottrina giuridica, è a questo punto, quello dell’equilibrio tra le opposte esigenze di godimento dei diritti di libertà e quelli di tutale della salute, al fine di non prevaricare le une a danno delle altre e viceversa. A fondamento di questo, difficile, equilibrio, stanno due ineliminabili condizioni. La prima è la temporaneità della durata, senza la quale le misure restrittive perderebbero il loro carattere emergenziale ed assumerebbero caratteri tipici di regimi autoritari, come il caso Orban ha dimostrato di recente; la seconda caratteristica è la proporzionalità delle misure restrittive alle esigenze di tutela, con la conseguente flessibilità rispetto all’espansione del contagio sul territorio nazionale e/o dell’andamento dei livelli di contagio, in aumento o in diminuzione, all’interno delle aree maggiormente colpite (in questo momento le regioni settentrionali del paese). Se queste condizioni non venissero rispettate, vi sarebbe una sicura incompatibilità con il nostro quadro costituzionale, con particolare riferimento al divieto di uscire dalla propria abitazione, assimilabile a quello della detenzione domiciliare, sanzione penale assistita dalle ben più ampie garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione con la doppia riserva, di legge e di giurisdizione, “per qualsiasi altra forma di restrizione della libertà personale”. Queste condizioni possono essere assicurate solo attraverso la previsione di una normativa primaria di riferimento (leggi e atti aventi forza di legge), e quindi con l’imprescindibile ruolo del Parlamento, con l’accentramento temporaneo della disciplina emergenziale nelle mani del governo, (va ricordato che la Protezione Civile è un organo alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio dei Ministri), rimettendo ai poteri locali (regionali e comunali – oltre a quelli provinciali di Trento e Bolzano) gli interventi di dettaglio, riferiti alle caratteristiche del territorio, alle esigenze economiche e produttive proprie di ciascuno di essi, all’organizzazione delle strutture sanitarie. Occorre anche prevedere che in situazione di pandemia, diffusa su tutto il territorio nazionale, ed in parziale deroga alla ripartizione di competenza tra Stato e Regioni prevista dall’art. 117 della Costituzione, la gestione delle situazioni di emergenza, come quella in corso, va rimessa in via esclusiva allo Stato centrale, come previsto dal Codice della Protezione Civile, che assegna al Consiglio dei Ministri la competenza esclusiva in materia. Ciò anche al fine di superare le discrasie tra i provvedimenti emessi dai Presidenti delle Giunte regionali, spesso contrastanti, privi di coordinamento, ed emessi, a volte per le esigenze di protagonismo di singoli Presidenti di Giunta.