Ciò che è differente concorda con se medesimo
armonia dei contrari è come l’armonia della lira e dell’arco.

(Eraclito, frammento 51)

Infinita è la finitezza della forma compiuta,
immortale l’è che vive saldo nel proprio limite.

(Massimo Cacciari, Labirinto filosofico)

Il passare degli anni talvolta permette di chiarificare la visione. Così per cercare di cogliere l’essenza del cinema di Tarantino, esemplificando in due suoi film: il più celebre, che ne decretò il successo internazionale, vincendo la Palma d’Oro a Cannes nel 1994, Pulp Fiction, e Grindhouse, del 2007, che ritengo illustrare in purezza tale essenza-carisma, libero da ogni sovrastruttura narrativa.

Su Pulp Fiction molto si è detto e quindi è inutile ripetere come, ad esempio, sugli aspetti da “pathos della citazione” e da “epos della violenza gratuita”. Un cinema de-genere nel senso etimologico, che viene dalla rielaborazione di più generi, uscendone fuori, quale cinema che riconfigura materiali filmici di serie B e seriali. Qui ci limiteremo a sottolineare due polarità dialettiche e complementari che ritengo fondamentali e strutturali: il situazionismo e il pudore dei sentimenti.

Il soggetto protagonista in Pulp Fiction non è il decorso narrativo né l’importanza dei personaggi ma il “rumore di fondo”, la chiacchera vitale e caotica del divenire, dell’accadere. Il “particolare” è il deus ex machina della visione. Dentro questo sottofondo rumoroso, dentro il fuoco eracliteo degli opposti, dall’interno del confliggere dei caratteri e delle tendenze emergono dettagli di pura poesia, lasciati volutamente sottotraccia, allusi, accennati e in quanto tali intensi e delicati nel contempo e non considerabili autonomamente rispetto al contesto in cui emergono, come nella vita reale di tutti i giorni.

La violenza stessa in Tarantino non è vera violenza, cioè non viene in realtà né celebrata né idealizzata ma fa parte dell’irreparabile dell’accadere, emerge quale serialità del caos di kronos, contesto naturale del vitalismo dell’effimero. È il polemos di Eraclito che regge l’armonia cosmica degli opposti. Definisce confini, apre scenari, è medium fiammante di passaggio fra dinamiche esistenziali e possibilità. Appartiene all’aspetto sorgivo dell’accadere fenomenico. Queste purità poetiche-intime appaiono emergere come in una poetica implicita di tipo orientale riguardo i sentimenti: mai raccontati, sempre elusi e al massimo allusi. Ne abbiamo parecchi interessanti esempi: il bacio che Vincent Vega lancia non visto a Mia alla fine della burrascosa nottata e la patetica barzelletta che Mia racconta a Vincent per aprire un’intimità, come per ringraziarlo di quello che ha fatto per aiutarla dall’overdose come pure le chiacchere sull’intimità o meno di un massaggio ai piedi fra Vincent e Jules o il loro discorrere sull’esperienza in Olanda, sul diverso modo di nominare i panini di McDonald’s.

È quello che accade a tutti: il mondo quale chiacchera, quale otium, quale incrocio di complessità in svolgimento e incrocio. Conversazioni che sono il sale del carisma magico di Tarantino, come quella sul senso dell’essersi salvato di Jules dai colpi di pistola maldestri di Brett: caso o destino?

Amicizia, amore, passione, desiderio, vengono narrati in modo situazionistico, implicito, sottotraccia, come accade nel gioco delle essenze esistenziali. Una contro-finzione, dove la violenza serve a tenere su un altro piano, qui recitato ed esibito, la finzione artistica, per velare pudicamente il pathos profondo della tenuta interiore del sentire. La risposta è nella conversazione non nel suo esito inesplicabile quanto ineludibile. E che dire dell’incantevole disagio di Vincent quando porta fuori a cena Mia? Qui il contesto regge la narrazione ma in una fluidità fisica incisiva e credibile. E che dire del gesto di Mia che indica con un dito un gesto di delimitazione dello spazio, visualizzato con un rettangolo tratteggiato a significare il non doversi comportare in modo chiuso di Vincent?

Dettagli geniali e innovativi, quintessenza di questa magia filmica, come quando Butch spara a Vincent all’uscire improvviso delle fette dal tostapane, quasi metafora universale “dell’essere scelti” dal vivere. Il senso primo di ogni tragicommedia, specie di quella chiamata “vita”. Anche il montaggio delle scene a circolo dove i due killer ricompaiono a chiudere la scena iniziale, con una valigetta di cui si esibisce la vicenda senza spiegarla e le vesti cambiano attraverso il sangue ma non i personaggi, le maschere, sembra alludere ancora ad una filosofia simile a quella di Eraclito dove “la natura ama nascondersi” ed è il fuoco che media ogni trasformazione di un elemento nel suo opposto.

Siamo di fronte al regno di Ananke, alla rete curva della dea Necessità dove il telos è già nell’archè e il velo delle forme risorge dal fuoco che le dissolve. Il pro-cedere della vita viene colto nel suo porsi quale inter-esse, quale causare come “chiamare in causa”, interessare, pro-vocare. Tarantino narra in modo credibile, concreto l’allucinatorietà fisiologica del quotidiano, la visionarietà spontanea, l’incontrollabilità fatale di ogni elemento, di ogni fattore. Ogni piccolo fatto è irreparabile, decisivo, effimero quanto apocalittico, escatologico.

Pulp Fiction sembra visualizzare magistralmente quel “labirinto filosofico” fra essere e divenire di cui parla Massimo Cacciari, dove l’Essere resta indicibile, ineffabile ma pur interno al gioco delle cose di cui Necessità chiude la visione completa. Ogni fatto è sia apparire unico, singolarissima e concretissima unicità, che segno dell’Essere sempre sfuggente. Il mondo quale linguaggio, quale dispiegarsi di un’energia che contiene in se stessa il suo cominciamento e la sua attualità. Il participio presente quale modo omni-inclusivo dell’aiòn del racconto.

In Grindhouse (nome che indica sale statunitensi in cui si proiettano film di serie B, di genere) si manifesta ancora più pienamente l’essenza di questo carisma, in quanto quasi non appare trama narrativa. Un film uno e doppio. La storia senza storia di uno stuntman killer seriale di giovani e belle donne inconsapevoli che nella seconda parte del film provoca delle donne stunt che poi lo uccidono per rappresaglia. Non c’è veramente alcuna trama, ma puro situazionismo, puro “rumore di fondo” tra amici e sconosciuti. Il pub, la radio e l’automobile quale luoghi esistenziali. Caso e Nemesi. L’effimero e il fatale che incombono e danzano intrecciandosi.

Una delle immagini iconiche del film sono i piedi femminili sul cruscotto o sulla portiera di una automobile. L’amore c’è ma è orientalmente silenziato, appena accennato in un sms, in una musica di fondo, in un incontro mancato, in una canzone. Non conta come si svolge il racconto ma cosa succede dentro il racconto, dentro l’evolversi fatale del rumore del mondo. Che poi il crash delle vetture e gli inseguimenti siano tanto metafore erotiche che visualizzazioni del Fato, della rete di Ananke che incombe sopra l’effimero accadere delle cose non aggiunge nulla all’intensità dell’esserci delle e nelle conversazioni che irradiano e reggono la magia e il pathos del racconto di Tarantino. Non serve chiedersi perché Mike si diverta a uccidere quelle ragazze: quello è solo il presupposto inesplicabile del racconto stesso, l’“essere” prima e dentro l’apparire del divenire. Forse Mike ha perso la differenza fra il vivere nella finzione filmica di uno stunt man e il vivere nella recita quotidiana.

In Grindhouse la protagonista è proprio la conversazione, la complicità tra amici, l’infinito cesellare di sfumature nel e del mondo che parla di sé. Nella scena iniziale le quattro amiche parlano mentre vanno in automobile verso un locale e la scena prende ben otto minuti: un tempo filmico assai lungo che scardina ogni cliché e genere e che mostra l’aiòn della poesia postmoderna di Tarantino. In questi tempi assoluti, in queste radure esistenziali pulsa il senso profondo dell’esserci, l’unità vivente di parola e fatto, il de-lirare dentro le apparenze di Necessità.

In Tarantino le parole assumono la consistenza dei fatti e i fatti la fluidità delle parole. I due film infine appaiono infine speculari in quanto mentre Pulp Fiction è un film tutto al maschile, dove la donna appare poco più di un fantasma anche se in tre modulazioni (la donna del capo: Mia, la donna-bambina, la fidanzata di Butch e la donna-complice, in tutti i sensi: Zucchina) Grindhouse è una rarità in quanto appare con evidenza un film tutto al femminile: nella prima parte domina la scena un gruppo di amiche tra radio, autovettura e locali, mentre nella seconda scena protagonista è un altro gruppo di amiche stuntman appassionate di vetture da competizione.

Grindhouse si posiziona non solo quindi quale film che racchiude la quintessenza della poetica e del fascino di Tarantino ma pure quale film assai raro e prezioso perché vi domina l’elemento femminile raccontato “al femminile”, anche nei suoi aspetti di “goliardia”, complicità e amicizia che appaiono oggettivamente difficili da narrare e raramente così intimamente rappresentati nella loro emblematica quotidianità. Opere epocali dove il tempo narrativo è forma filosofica.