Scegli prodotti con poco imballaggio,
ricorda che il mondo l’hai avuto in omaggio.

(Slogan del CoCoRiCò – COnsumatori COscienti RIciclanti COmpatibili)

Nel 1862 un inglese di nome Parkes brevetta il primo materiale plastico semi sintetico, che battezza senza eccessiva fantasia Parkesine.

Il nuovo materiale viene impiegato nella produzione di manici e scatole ed anche di colletti e polsini per le camicie fino al giorno in cui, negli Stati Uniti, John Wesley Hyatt e suo fratello Isaiah cominciano a pasticciarci attorno ed inventano la celluloide.

Nel 1870 Hyatt fonda una ditta che impiega il nuovo materiale per produrre denti falsi, palle da biliardo e tasti per pianoforti, rendendo un enorme servigio ai pianisti giocatori di biliardo sdentati e salvando la vita a moltissimi elefanti.

L’invenzione della plastica è un crimine internazionale, di cui si rendono inconsapevoli colpevoli successivamente il belga Baekeland che nel 1907 inventa la bakelite, il tedesco Friz Klatte, che nel ’12 inventa il PVC e l’anno dopo lo svizzero Brandenberger inventa il cellophane. L’Italia partecipa con Giulio Natta, che viene insignito del Nobel nel ’54 per i suoi studi che porteranno alla produzione del polipropilene: se negli anni ’60 eravate già in giro su questo vasto e allora quasi incontaminato pianeta, il polipropilene ve lo ricordate con il suo nome commerciale: il Moplen.

Ai tempi del Moplen, la produzione annuale mondiale di plastica era di 8 milioni di tonnellate, che se lo chiedete a me, mi sembrano già tante.

A quei tempi si andava a scuola con la merenda preparata dalla mamma avvolta in un pezzo di carta, e si beveva l’acqua del rubinetto, non esisteva il sacco di plastica per l’immondizia domestica, si usava un portarifiuti foderato con il giornale del giorno prima. Siccome non c’erano gli imballaggi, una famiglia di cinque persone riempiva un secchiello di spazzatura in due giorni, produceva cioè il quantitativo di rifiuti che oggi viene prodotto in un giorno da un single, perché passati i tempi del Moplen siamo entrati nell’era dell’imballaggio passando da 8 milioni di tonnellate di plastica da buttare a 350 milioni di tonnellate che non sappiamo dove mettere né come liberarcene.

Certo, gran parte dell’inquinamento da plastica proviene da Paesi poveri e popolosi come il Sud Est Asiatico. Ma attenzione: è a loro che noi rifiliamo i nostri rifiuti.

È una sintesi di due vecchi sistemi: nascondere la polvere sotto lo zerbino e far finta che sia sparita, e buttare la cartaccia oltre lo steccato, nel giardino del vicino. Ma rendere un problema invisibile non lo fa scomparire, basta un colpo di vento e la spazzatura di cui facevamo finta di esserci liberati torna al suo posto.

L’Italia esporta 197.000 tonnellate di rifiuti plastici non riciclati all’anno. Il giardino del vicino (che pagavamo perché si prendesse la nostra spazzatura) era la Cina, ma lo scorso anno Pechino ha deciso di chiudere le proprie frontiere ai rifiuti occidentali.

Naturalmente in Cina nessuno andava a guardare cosa succedesse sotto lo zerbino: sebbene la normativa comunitaria preveda che i rifiuti della UE possano essere esportati solo in Paesi che garantiscano il rispetto degli standard di tutela delle persone e dell’ambiente applicati nel territorio comunitario, in Cina i controlli venivano facilmente evasi: in questo modo i nostri partner nello smaltimento della plastica hanno invaso il mercato Europeo con prodotti made in PRC fatti con la nostra vecchia plastica che essendo stata riciclata senza i debiti controlli è un pochettino tossica. Ma soprattutto è sempre plastica, non più riciclabile e adesso dobbiamo rifilarla a qualcun altro.

Ma tornando alla chiusura delle frontiere cinesi: a quel punto, che si è fatto? “Si è ridotta drasticamente la produzione e il consumo di plastica!” Direbbe anche un bambino di 5 anni dotato di un minimo di logica e di un briciolo di istinto di sopravvivenza.

No, si è cercato un altro zerbino.

Malesia, Vietnam e Thailandia e quando anche questi Paesi hanno introdotto misure restrittive sulle importazioni, si è passati ad usare come discarica l’Indonesia, I’India e la Turchia.

Mentre l’avvelenamento dell’aria dell’acqua e della terra prosegue assieme alla distruzione dell’habitat di tutti gli esseri viventi che popolano questo disgraziato pianeta, focalizziamo la nostra attenzione sulla raccolta differenziata, oramai sapendo che siamo sempre più vicini al punto di non ritorno. La raccolta differenziata è un gesto nobile e un modo di farci rimanere un pochino coscienti rispetto a ciò che consumiamo e scartiamo, ma è come mettere un cerotto sulla parete di un grattacielo che sta per crollare sperando che tenga.

Chiariamo un paio di punti.

Il nostro Paese produce 4 milioni di tonnellate di rifiuti, di cui l’80% proviene dall’industria degli imballaggi, e ogni anno riversa in natura 0,5 milioni di tonnellate di rifiuti plastici. (fonte: Greenpeace)

L’Italia esporta 197 mila tonnellate di plastica che non sa come smaltire.

Il 43,5 per cento della plastica raccolta con la differenziata viene realmente trasformato in nuovi oggetti – peraltro di qualità spesso inferiore rispetto a quelli originali – mentre il 40 per cento finisce nei termovalorizzatori per la produzione di energia e il 16,5 per cento in discarica. (fonte: Corepla)

La plastica si può riciclare una volta sola, cioè un prodotto fatto di plastica riciclata è fatto di plastica non riciclabile.

Io assisto sgomenta alla proliferazione di start up che puliranno gli oceani in cui continuiamo a immettere spazzatura. Anche se ce la facessero a raccogliere le attuali di 150 milioni di tonnellate di plastica che abbiamo già buttato in mare, di fatto continuiamo a riversarcene 8 milioni di tonnellate al giorno, e qui credo che il bambino di prima osserverebbe che se questo è il miglior progetto che siamo collettivamente riusciti a trovare, siamo collettivamente fottuti.

Ma per fortuna l’industria che ci ha sommersi di spazzatura ed ha avvelenato il pianeta sta studiando nuove forme di packaging per potere continuare a usare lo stesso identico catastrofico sistema della plastica monouso con nuovi materiali.

Le multinazionali promettono di sviluppare alternative sostenibili che sostenibili non sono, di rendere gli imballaggi in plastica riciclabili, riutilizzabili, compostabili o realizzati con materiali riciclati, ma di fatto contemporaneamente continuano ad aumentare la produzione di prodotti confezionati in plastica monouso. Uno studio dell’università di Plymouth pubblicato sulla rivista Environmental Science & Technology ha testato un sacchetto compostabile, uno biodegradabile, due sacchetti ossodegradabili diversi, che dispersi nell’ambiente sono risultati indistruttibili: si dissolvono solo nella immaginazione dei consumatori a cui l’industria ha rifilato l’ennesima patacca.

I sacchetti sono compostabili esclusivamente se trattati in appositi impianti industriali.

Un rapporto dell’UNEP (il programma ambientale delle Nazioni Unite) del 2015 conclude dicendo che: “Secondo gli attuali dati scientifici, l’adozione di prodotti di plastica etichettati come ‘biodegradabili’ non comporterà una riduzione significativa né nella quantità di plastica che penetra nell’oceano né nel rischio di impatto fisico e chimico sull'ambiente marino”.

L’uso della carta e delle bioplastiche (che provengono da materiali esclusivamente vegetali) contribuiscono alla deforestazione e allo sfruttamento del suolo causata dall’agricoltura industriale, sono quindi solo apparentemente una alternativa praticabile.

E allora che fare? La soluzione è così semplice, così facile che non ha bisogno di anni di studi e ricerche scientifiche: basta piantarla con l’usa e getta. I nostri predecessori ce l’hanno fatta per milioni di anni con il riutilizzo e il riuso, ce la possiamo fare anche noi.

Un esempio eclatante di questa pratica lo trovate a Bombay dove ogni giorno i Dabbawalla recapitano 200.000 pasti. È una distribuzione di pasti casalinghi, il Tiffin Box (contenitore di acciaio per il pranzo) parte e ritorna a casa dopo che il pasto è stato consumato, sono quindi 400.000 consegne al giorno con un margine di errore che è 1 su 16 milioni.

Il servizio esiste dal 1890, e non è ancora stato sostituito da pasti preconfezionati avvolti in molteplici strati di plastica.

Se è possibile a Bombay, questo è un modello esportabile.