Diese Kinder werden immer aufgeregter. Ich denke, wir sollten mit Mack Strudel vorbereiten.1

Diceva mia nonna ai miei genitori quando la situazione in cucina cominciava a precipitare e anche gli ultimi richiami rivolti a noi tre nipoti sovraeccitati erano caduti nel vuoto. All'epoca non conoscevo il significato di quella frase, lo strudel con i semi di papavero però lo preparavamo sempre al sabato mattina, preludio del pranzo ed inizio del consueto weekend trascorso a casa della nonna. Solo recentemente ho scoperto che i semi di papavero, contenendo sostanze alcaloidi, servivano per sedarci e questo era l'obbiettivo occulto di quel dolce.

Ancora oggi però penso che la bellezza di una nonna, nel senso più organico e del termine, si misuri in cucina. Lì avviene l'essenziale. Che ha a che fare più con le uova e la farina che con le parole, perché nella memoria dei nipoti restino scolpiti i ricordi olfattivi, i gusti e tutto ciò che ha a che fare con i sensi. Saranno questi ultimi a creare l'ineffabile nostalgia per qualcosa che si cercherà di ritrovare a tavola per tutta la vita.

La cucina di nostra nonna in quanto a spazio era modesta. All'epoca non si usavano ancora i mobili su misura e gli elettrodomestici ad incasso, c'erano solo dei mobili spaiati strategicamente posizionati intorno al blocco dei fornelli. In fondo al locale c'era un grande lavandino in graniglia e subito la finestra che dava sul balcone e là, in un piccolo locale trasformato in dispensa, decine di vasetti di marmellata ben allineati come soldati in attesa del loro momento di gloria. Dopo la sveglia e la colazione il tavolo della cucina veniva liberato e riempito di farina mentre sul fuoco un pentolone d'acqua veniva portato ad ebollizione. Il menù ovviamente variava ogni settimana. Spesso gnocchi di patate - indimenticabile il divertimento di creare i lunghi “serpenti” di impasto prima di ricavarne i gnocchi, poi un polpettone fittamente farcito di salsiccia e cipolla, contorno insalata, infine un dolce che era spesso una torta e che non poteva mancare.

Ricordo varianti per i primi, le tagliatelle, fatte a mano o gli agnolotti burro, grana e salvia. A seguire le Wiener Schnitzel con patate prezzemolate o arrosto e quando era stagione strudel di ciliegie con panna. Mentre ricordo e scrivo mi sembra incredibile ripensare a quanta manualità ci fosse in quelle nostre giornate, era veramente tutto un continuo montare bianchi e rossi senza fine, tritare noci, imburrare teglie, impanare, attendere cotture, scolare, condire. Troneggiava alle nostre spalle un grande armadio che era stato adattato a dispensa. Ancora a distanza di anni, svuotato e abbandonato nella casa vuota, aprendolo, riuscivo a riconoscere a varie altezze l'odore degli alimenti e delle spezie lungamente conservate là dentro. Mi sembrava di vederlo in alto a sinistra il contenitore cilindrico con la scritta “La farina Littoria”, affianco il pane grattugiato. Più in basso a destra semolino, pasta e un grande sacco di tela contenente riso. Poi olio, aceto, spezie, soprattutto cannella. Di fianco decisamente caffè e in alto tantissime scatole azzurre con la scritta “Zucchero semolato Roma” che per lungo tempo mi son chiesto a cosa servisse tutto quello zucchero. Poi ho scoperto che c'era anche molto sale e sapone di Marsiglia, tagliato grezzo a blocchi. E la cosa era diventata sempre più misteriosa. “Chi ha vissuto due guerre mondiali” mi disse un giorno mia nonna senza che io osassi chiedere “non dimentica. Sa cosa significhi non avere niente”.

Poi c'erano le domeniche che erano diverse. Crollava la tensione in cucina e veniva meno l'iperattivismo del sabato. Si dormiva fino a tardi e nessuno aveva nulla da dire e se il tempo era bello si partiva tutti per gite ed esplorazioni del territorio. A volte si trattava di vere escursioni in montagna altre volte tutto si limitava a brevi passeggiate che culminavano con indimenticabili picnic con tanto di plaid scozzese sull'erba e penniche post pranzo. In quei casi riapparivano i resti del polpettone, che veniva mangiato freddo arricchito da una densa maionese, le patate - che si trasformavano come per magia in una insalata russa - carote al burro o altra insalata per non rischiare di lasciarli soli. Se era stagione procedevamo alla raccolta di mirtilli e more e nei giorni che seguivano sapevamo che una fila di vasetti dal contenuto blu-violaceo avrebbe presto riempito una nuova mensola della dispensa.

Ci sono poi nonne fiabesche, come l'Erminia, che se me l'avessero raccontata e non l'avessi vista con i miei occhi non ci avrei creduto. L'Erminia esiste eccome e come nelle fiabe vive in una piccola casa nel bosco. Non chiedetemi dove, non ve lo svelerei neppure sotto tortura. Vi posso solo dire che il bosco è in una valle incantevole al confine con la Svizzera. Nonna Erminia non ha il telefono, per contattarla bisogna chiedere giù in paese ad una certa signora Julia, quella dell'emporio alimentare e lei le farà avere la comunicazione. Così la sua risposta giungerà allo stesso modo. Convenuto il giorno, si salirà parte della valle in macchina, fino alla sbarra detta della Malga Celeste e da lì con gli sci per altre tre ore buone, attraverso un paesaggio di rara bellezza, larici dorati a perdita d'occhio e neve candida e immacolata, roba da togliere il fiato All'improvviso noterete del fumo provenire dal bosco, quello vorrà dire che da quel momento potrete procedere a vista, e l'arrivo a destinazione sarà questione di minuti.

La volta che l'ho incontrata - e si parla ormai di qualche anno fa - Nonna Erminia era già molto anziana. Mi colpirono molto le sue mani, piccole, forti e leggermente arrossate. “Ho appena fatto il bucato” mi disse sorridendo “bisogna approfittare del sole anche se d'inverno dura poche ore. Quando scompare dietro il Sasso Nero, la giornata è finita”. Mi indicò il lavatoio esterno semi coperto di neve, mi sorrise e poi aggiunse: “Venga dentro che c'è il fuoco acceso”. La baita era in miniatura, come lei. Mi fece togliere il giaccone e gli scarponi e mi offrì delle grosse pantofole di lana infeltrita. Poi mi invitò a sedere davanti al camino. Notai che sulla sinistra, proprio sotto un'ampia finestra era già stato apparecchiato il tavolo. Rimasi col volto girato in ammirazione del paesaggio che pareva dipinto. “Ha visto che meraviglia?” fece l'Erminia. “Abito qui dal ‘44, ci sono venuta la prima volta da sfollata perché giù al paese c'era la guerra. Non sono mai più tornata indietro. Tra la gente che qui aveva trovato rifugio ho conosciuto anche l'Alvio, il mio caro marito. La decisione di restare l'abbiamo presa insieme. All'epoca lui era una giovane guardia forestale, poi, col tempo, hanno apprezzato la sua onestà ed è diventato responsabile del controllo della valle. Un lavoro duro sa? Solo ad affrontare tutti quei mascalzoni, soprattutto bracconieri. “Ma come facevate a vivere qui, isolati da tutto?” chiesi incuriosito mentre notai che nonna Erminia stava spostando un vassoio coperto da un telo da un tavolo alla cucina. “Cosa vuole che le dica, era normale. Noi siamo entrambi nati tra le montagne, siamo gente di montagna. Non ci manca mica la televisione sa?” E guardò prima alla volta della finestra e poi al contenuto del vassoio dove ora anch'io potevo ammirare i suoi leggendari pizzoccheri fatti a mano. “Questo è l'ultimo anno che accolgo persone, comincio ad essere un po' stanca. Ma questo non è un ristorante, lei l'ha capito. Chi vuole mangiare i pizzoccheri non ha che da chiedere, rendere felici le persone mi dà gioia”.

Dopo essermi scaldato davanti al camino mi sedetti a tavola. Sorseggiai del vino rosso e notai che la luce, fuori, era già cambiata. Quando assaggiai la prima forchettata di pizzoccheri chiusi gli occhi. Me lo avevano detto giù in paese. E mi avevano raccontato anche che le verze che usa nonna Erminia sono cresciute dietro la baita e sono state raccolte non prima di essere lasciate appassire dalle prime gelate. Mi avevano raccontato che il burro e il formaggio Casera li ha sempre fatti la mucca Cesarina che sta di fianco, nella sua stalla. Per nonna Erminia, che non ha avuto bambini, è come una figlia. Ma qual è il segreto di quella delizia filante e burrosa? Certo non solo gli ingredienti anche se, è chiaro, qui la qualità è impareggiabile. No, no, il segreto è... ah ...cosa darei per saperlo!

Continuai a fare le mie congetture tra me e me mentre nonna Erminia mi passò accanto e senza dire nulla svuotò il fondo del paiolo nel mio piatto. Mi avevano avvertito giù in paese, guarda che non è un vero ristorante, durante l'estate le persone come me che vengono su a mangiare i pizzoccheri si contano sulle dita di una mano. Si tratta di una esperienza mistica avevano detto, c'è la distanza da percorrere per arrivarci, il cammino iniziatico. E poi il ritorno, al crepuscolo. È vero, sapevo che sarebbe stata una esperienza segnante, uno spartiacque tra il prima e il dopo. Sinceramente non credevo così tanto. Dopo aver portato via il piatto vuoto nonna Erminia ritornò con una ciotola di legno con dentro una spuma calda e dorata. “Caro mio ci vuole qualcosa di dolce prima di tornare a casa. Ho fatto lo zabaione. Prenda anche uno dei miei biscotti, li ho fatti ieri”. Dei savoiardi e dello zabaione di nonna Erminia mi avevano tenuto all'oscuro quelli del paese. Eppure sicuramente lo sapevano. Dimenticanza? Sapiente regia degli amici della magica nonnina? Non ebbi mai più modo di scoprirlo.

Raggiunsi la mia auto dopo aver sciato per due ore nella notte gelida rischiarata dalla luce della Luna.

1 I bambini si stanno agitando un po' troppo, penso che faremmo bene a preparare uno strudel con il papavero.