Meno di un mese fa, ricorrevano i cinquant’anni dalla strage di Piazza Fontana, a Milano; sfortunatamente né la prima né l’ultima, nella storia di questo nostro paese. In un modo o nell’altro, infatti, il terrorismo stragista ha segnato la storia d’Italia, dal Secondo dopoguerra in poi; dalla strage di Portella della Ginestra (1947) a quelle mafiose del 1993, una lunga scia di sangue che si è dipanata lungo gli anni, e se spesso cambiavano gli esecutori, pressocché identica, quasi come un marchio di fabbrica, è stata la mano dell’apparato statale, che interveniva per organizzare, depistare, coprire.

A cinquant’anni da quella di Milano, che aprì una lunga stagione di terrore, è opportuno fare un esercizio di memoria. Provando anche a guardare in prospettiva ciò che sappiamo.

Il primo dato, ormai saldamente noto, è che l’operatività del terrorismo stragista è sempre stata affidata a spezzoni della galassia neofascista. Così come è noto che sempre è poi arrivato l’intervento dei servizi segreti, per coprire e depistare.

Il nesso tra questi due ‘momenti’ - del “medesimo disegno criminoso”, per dirla in termini giudiziari - è importante, per comprendere appunto la prospettiva. È chiaro che i servizi (niente affatto ‘deviati’...) non intervenivano a cose fatte, e per mera ‘simpatia politica’ verso gli esecutori; l’attività di depistaggio era, per così dire, programmata quanto gli attentati stessi. Della cui esecuzione, del resto, non potevano non essere al corrente, data l’estrema commistione tra gli uomini dei servizi stessi e gli ambienti del neofascismo stragista - che trovavano ‘casa comune’ nella struttura clandestina di Gladio.

Da questo punto di vista, la storia di Piazza Fontana è emblematica. L’intera fase organizzativa ed esecutiva dell’attentato è ad opera della cellula veneta di Ordine Nuovo (il Veneto, frontiera Est della NATO, era una delle aree a maggior presenza militare americana, e dove la struttura unofficial di Gladio era più legata, in una vera e propria osmosi, all’estrema destra).

Nell’immediatezza del dopo bomba, i servizi sono già in azione per coprire i responsabili ed addebitare la colpa agli anarchici (ben sette agenti dell’Ufficio Affari Riservati erano presenti all’interrogatorio di Pinelli, poi ‘volato’ dalla finestra). Il piano, oltretutto, era ben oltre le possibilità di un gruppo di fanatici neonazisti, e prevedeva infatti la proclamazione dello stato di emergenza da parte dell’allora Presidente del Consiglio Mariano Rumor. E l’obiettivo era fermare l’avanzata delle sinistre nel paese, attraverso una svolta autoritaria. Di fronte alla reazione popolare, Rumor non ebbe poi il coraggio di firmare l’atto. Ma, già in quei giorni, ci fu uno scontro ai vertici dello stato (e della DC, cha allora praticamente coincidevano). Aldo Moro, informato dal suo fedelissimo Gui - allora Ministro della Difesa - sulla responsabilità dei fascisti, accettò la versione ufficiale che ne copriva le colpe addossandole agli anarchici, in cambio di una rinuncia alla svolta autoritaria prevista dal piano stragista - che avrebbe condotto ad un clima di guerra civile.

Il ‘voltafaccia’ di Rumor, peraltro, non piacque per niente agli ambienti atlantisti. La cellula ordinovista veneta cercò più volte di organizzarne l’uccisione, e quattro anni dopo, uno strano anarchico certamente legato ai servizi segreti militari, lanciò una bomba a mano sulla folla mentre Rumor scopriva una lapide alla questura di Milano.

Appare molto più convincente pensare che dietro ciò vi fosse ben altro che il risentimento d’una pattuglia neonazista, che peraltro certamente non si sarebbe avventurata ad uccidere un’alta autorità dello stato senza avere le adeguate coperture. Si trattava piuttosto di recidere il nesso di alto livello, ritenuto pericolosamente inaffidabile dopo la mancata promulgazione dello stato di emergenza.

Questo ‘quadro generale’ è stato la costante dello stragismo italiano. Che rappresenta un’assoluta anomalia, forse mondiale. Se si escludono, infatti, Paesi che sono stati teatro di una guerra civile, nessun altro ha visto una così lunga stagione di attentati e di stragi. Per non dimenticare poi i tentativi golpisti, dal ‘piano Solo’ del generale Di Lorenzo al golpe Borghese, al cosiddetto ‘golpe bianco’ degli ex-partigiani anticomunisti Sogno e Martini-Mauri...

L’obiettivo è sempre stato uno ed uno soltanto: assicurare la massima fedeltà atlantica ed anticomunista del Paese.

Ovviamente, questo si spiega in parte col fatto che in Italia vi fosse il più forte Partito Comunista d’occidente. Ma, d’altro canto, non eravamo né l’unico né il più ‘sensibile’ Paese di confine col blocco sovietico. Anzi, non solo la nostra frontiera orientale era limitata, ma oltre quella c’era la Jugoslavia di Tito, un paese ‘anomalo’, che non faceva parte del Patto di Varsavia, ed era assai aperto all’Europa occidentale.

Nulla di simile, per dire, è mai accaduto in Germania, che pure era il ‘cuore’ d’Europa e la principale frontiera tra i due blocchi.

Se l’anticomunismo era il collante ideologico, che teneva insieme larghi pezzi dell’estremismo neofascista, dell’establishment politico-militare italiano e gli interessi statunitensi nello scacchiere europeo, erano le strategie atlantiche a determinare tempi e modalità d’azione.

E questa ‘strategia globale di contenimento’, articolata tra azione politica ufficiale ed operazioni coperte, viene formalizzata teoricamente nel famoso convegno dell'hotel Parco dei Principi, nel 1965, in cui esponenti dell’estrema destra e delle Forze Armate discutono sulla ‘guerra rivoluzionaria’.

Poiché l’Italia era formalmente una democrazia, inevitabilmente vi avevano diritto di cittadinanza posizioni politiche assai diverse, ed anche nell’ambito delle differenti ‘scelte di campo’ sussistevano a loro volta ulteriori differenze. In tal senso, possiamo dire che questo ‘campo atlantista’ rappresentava parte dello stato, ed in particolare i suoi apparati di difesa e sicurezza, e quindi se pure è improprio identificarlo tout court con lo Stato, altrettanto improprio è pensarlo come estraneo ad esso. E per questo, parlare di “servizi deviati” costituisce un’ambiguità.

Ma, dal punto di vista USA, la necessità di mantenere un ferreo controllo sull’Italia si spiegava con qualcosa in più, rispetto all’essere Paese ‘di frontiera’. Del resto, la suddivisione dell’Europa in due ‘aree d’influenza’, stabilita a Yalta nel 1945, non è mai stata messa in discussione né dagli Stati Uniti né dall’URSS, quindi l’idea di una possibile invasione sovietica era una mera ipotesi di scuola, necessaria più che altro - appunto - per tenere ‘buoni’ e compatti i paesi europei alleati.

Il ruolo strategico dell’Italia, quindi, già negli anni della Guerra Fredda, andava oltre il presidiare a Sud la ‘Cortina di Ferro’, ed era precisamente la sua proiezione mediterranea, il suo essere testa di ponte avanzata rispetto all’Africa ed al Medio Oriente.

Non a caso, già nel 1951 viene stabilito a Napoli l'Allied Forces Southern Europe (AFSOUTH), poi Allied Joint Force Command (JFC)-Naples, che è appunto il comando strategico da cui dipende la proiezione a Sud della NATO. E poi negli anni successivi, in Sicilia, vennero gli ‘euromissili’ Cruise a Comiso, ed il MUOS (Mobile User Objective System), un sistema di comunicazioni satellitari militari, gestito direttamente dal Dipartimento della Difesa USA, e che integra forze navali, aeree e terrestri in movimento in qualsiasi parte del mondo.

La strategia americana di controllo globale (gli USA hanno ben 686 basi militari, in 74 paesi del mondo!), pur in presenza di contesti strategici e tattici differenti nel tempo, individua da sempre nel Mediterraneo uno dei suoi punti di forza irrinunciabili.

La fine - speriamo per sempre - dello stragismo italiano, quindi, non è soltanto conseguenza della ‘caduta del muro’ e del susseguente crollo dell’Unione Sovietica, ma anche del ‘depotenziamento’ della “minaccia comunista” - dalla famosa frase di Berlinguer del 1976, che definiva la NATO come un "ombrello protettivo", una sorta di scudo per "costruire il socialismo nella libertà", alla definitiva dissoluzione del PCI e l’adesione dei suoi ‘eredi’ al modello liberista.

Ricordare cosa ha attraversato il nostro Paese, chi ne porta la responsabilità come esecutore, chi ha contribuito alla sua impunità, è un doveroso esercizio di memoria, che però sarebbe incompleto senza un’idea chiara del contesto in cui quei tragici fatti si sono generati, e dunque delle ragioni che hanno messo in moto il sanguinario meccanismo.