L’Amazzonia, la più importante foresta mondiale, Patrimonio Naturale dell’Umanità, continua a bruciare: per le popolazioni indigene che vi abitano e per le specie vegetali e animali è la devastazione.

È molto triste, nessuno sviluppo economico può essere più importante della vita di questa foresta pluviale che ha influenza sull’intero mondo.

Il mio pensiero va agli ultimi indios Yanomami e al viaggio nella foresta amazonica venezuelana che mi ha portato ad incontrarli nella Riserva di Biosfera Casiquiare-Alto Orinoco e temo per loro. Già sono stati avvelenati ed esposti per anni a violenti attacchi a seguito dell’invasione dei garimpeiros (cercatori d’oro) e continuano ad essere vessati.

È stato un viaggio di grande valenza naturalistica e antropologica che ha comportato però un notevole adattamento fisico: la maggior parte fatto, anche per sei ore al giorno, in bongo tipica imbarcazione locale con motore fuoribordo, pernottamenti in amaca e assalti di fastidiosissimi mosquitos tanto che per allontanarli mi gettavo, specie al tramonto, nel fiume sfidando i terribili pesci pirañhas, avidi di sangue e i cui morsi lasciano ferite profonde, come ho visto nelle schiene degli indios.

La pioggia è stata molto presente durante tutta la navigazione ma, per fortuna, il repentino sole ci asciugava in fretta.

Abbiamo attraversato, navigando, grandi e impenetrabili foreste al canto di milioni di uccelli delle specie più rare e circondati da nuvole di farfalle dello stesso colore: ora gialle, ora azzurre; abbiamo visto la foresta e i paesaggi che, in mancanza di inquinamento, si rispecchiavano nelle acque da noi solcate.

Gli ultimi delfini rosa hanno accompagnato, talvolta, il nostro procedere lento nelle acque dell’Orinoco. Terzo fiume dell’America Latina, con i suoi oltre 2000 km di lunghezza, sfocia nell’Atlantico con 37 canali.

Lungo i fiumi abbiamo visitato e ci siamo fermati nei villaggi indigeni immutati nel tempo e incontrato le loro antiche popolazioni amazzoniche che si che si muovano usando le piroguas: come i Guahibo, i Baniva, i Curripaco e soprattutto gli Yanomami immersi nella foresta.

Da Puerto Ayacucho, raggiunta in aereo da Caracas, fondata nel 1567 dall’esploratore spagnolo Diego de Losada, abbiamo percorso l’itinerario fluviale, navigando lungo il Rio Orinoco e i suoi affluenti, seguendo il percorso dell’esploratore tedesco Alexander von Humboldt che nel 1799 era partito con l’intento di provare l’esistenza del canale naturale Casiquiare che, secondo gli indios e i missionari, avrebbe collegato il fiume Orinoco al Rio Negro, affluente del Rio delle Amazzoni.

Viaggio nelle regioni equinoziali del Nuovo Continente è la mastodontica opera, composta da trentacinque volumi, nella quale racconta la sua esplorazione in quelle terre.

A Puerto Ayacucho capitale dello stato Amazonas, fondata nel 1924 da l’ingegnere Santiago Aguerrevere sulla riva destra dell’Orinoco in prossimità della frontiera con la Colombia, per entrare nello spirito del Paese, siamo andati a visitare il mercato indigeno. Lì abbiamo comprato le chanchiore, le amache indios, che sono state il nostro letto per tutta la navigazione. Ci siamo avvicinati al Rio Orinoco per prendere confidenza con il Grande Fiume.

Partiti da Puerto Ayacucho con una barca di media dimensione, costeggiando e talvolta fermandoci nei piccoli villaggi per visitare le loro scuole, siamo arrivati a Puerto Samariapo. Dopo aver passato la notte in una scuola, abbiamo preso un pick up per andare a San Fernando de Atabapo, raggiungibile in quel periodo solo tramite strada a causa delle rapide del Rio Orinoco.

Nella foresta abbiamo avuto la prima avventura: il pick up si è rotto. Per fortuna una jeep della Guardia civil, unico mezzo che era passato durante diverse ore, ci ha portato a destinazione. La stessa Guardia civil ci ha ospitato sotto una tettoia, dove abbiamo attaccato le amache ai ganci predisposti, come abbiamo fatto per tutte le altre location.

Alberghi nella foresta non li abbiamo trovati, ospitalità tanta. Solo una volta abbiamo potuto montare le tende: la foresta fitta arriva sino all’argine dei fiumi e non c’era spazio per montarle.

I bambini ci hanno sempre fatto festa con i loro sorrisi; le scuole, chiuse per vacanze estive, ci hanno offerto i ganci per mettere le amache; i pescatori ci hanno portato pesce fresco; talvolta anche morso dai terribili pirañhas. Era un avvertimento.

A San Fernando de Atabapo, la vecchia capitale dell’Amazzonia, ci hanno accolto con la Valchiria di Wagner, diffusa nella piazza principale.

Ho subito pensato al pazzo sogno di Fitzcarraldo, personaggio dell’omonimo film di Werner Herzog: costruire un teatro d'opera in una missione nella giungla, al fine di portare Wagner, Caruso e Verdi agli indigeni.

Da San Fernando de Atabapo lasciato l’Orinoco, con il bongo dallo scafo rudimentale di una dozzina di metri con tettoia in allumino, abbiamo risalito il suo affluente Rio Atabapo e, deviando sul fiume Temi, raggiunta Yavita, abbiamo passato la notte in una scuola, accolti con gran stupore dalla comunità indigena.

Giunti a San Carlos de Rio Negro, piccolissimo centro di frontiera tra Venezuela, Colombia e Brasile, siamo stati salutati, questa volta con l’Aida: forse avevano intuito che a bordo c’erano degli italiani.

Circondati da un nugolo di bambini che si attaccavano al nostro bongo per salutarci, abbiamo poi ripreso la navigazione lungo il Rio Negro verso il Rio Casiquiari circondati da una incombente natura e un paesaggio che evocano libertà e mistero.

Il Casiquiare lungo 350 km, dalle caratteristiche tanto particolari da essere definito braccio, el brazo Casiquiare, più che fiume, unisce due bacini idrografici, l’Orinoco e il Rio Negro, che scorrono in senso inverso e vanno a gettarsi nel mare in due punti distanti tra di loro di ben oltre mille chilometri È la cosiddetta “mostruosità geografica” che tanto aveva interessato Alexander von Humboldt.

Raggiunto nuovamente l’Orinoco, dopo aver risalito il Casiquiare, siamo entrati, alla foce del Rio Pasimoni, nel mondo dei Waikas che nel loro idioma significa quelli che uccidono. Loro preferiscono chiamarsi, e così sono conosciuti, Yanomami.

Gli Yanomami sono esili e hanno tratti tipicamente amerindi; hanno cerimonie e rituali elaborati e sono poligami.

Credono fortemente nell’uguaglianza fra le persone. Ogni comunità è indipendente dalle altre e non esistono capi, le decisioni vengono prese spesso dopo lunghi dibattiti con il consenso di tutti.

Vivendo isolati, non avendo gli anticorpi per combattere le nostre comuni malattie, sono stati sterminati dalle stesse più che dai fucili e dai veleni dei cercatori d’oro.

Da 1991 il loro territorio è stato dichiarato riserva indigena speciale e per accedervi occorre un permesso speciale.

Sono stata sorpresa dall’accoglienza del gruppo che abbiamo avvicinato e che ci ha ospitato.

Un’altra comunità, più addentrata nella foresta e più primitiva e selvaggia, non si è invece lasciata avvicinare. Da lontano abbiamo potuto scorgere che brandivano archi e frecce e, diversamente da quelli che ci hanno accolto, erano praticamente nudi.

Le comunità Yanomami vivono, nello yano detto anche sciabono che ha la forma di un grande anello e può contenere sino a quattrocento persone. Al centro c’è un ampio spazio aperto destinato alle danze, alle cerimonie e ai giochi; la circonferenza è coperta ed è lì che le famiglie si riuniscono, ciascuna attorno al fuoco perenne nello spazio delimitato dalle amache; spazio che costituisce il nucleo della vita familiare.

Anche noi abbiamo avuto il nostro spazio nello yano per mettere le amache e nei giorni della permanenza abbiamo potuto osservare queste piccole e laboriose persone nello svolgimento delle loro attività quotidiane. Ho avuto l’impressione come di essere in un formicaio.

Con loro abbiamo partecipato alla raccolta dei frutti e giocato con i bambini che vengono educati dall’intera comunità, non solo dai genitori.

Ci hanno fatto conoscere i loro orti, dove le donne coltivano vari tipi di piante che usano per nutrirsi, curarsi e costruire lo yano e gli utensili.

Alla nostra partenza, sono venuti a salutarci, disponendosi sulla sponda del fiume. Sulla via del ritorno da questo viaggio non ho potuto che pensare e condividere quanto ha scritto degli Yanomami Walter Bonatti In Terre Lontane:

Tale gente, che Humboldt cita poco nella sua opera monumentale - conduce una vita innegabilmente primitiva e selvaggia; tuttavia a differenza di noi popoli progrediti, essi non dominano, distruggendola, la natura dalla quale dipende la loro esistenza, ma vi si adattano in piena armonia.