Attrice, regista, drammaturga e insegnante di teatro. Cresciuta nella Comuna Baires è laureata in filosofia presso l'Università degli Studi di Milano. Ha co-fondato FE Fabbrica dell'Esperienza, dove dirige Acting Languages Academy, scuola di formazione professionale per attori di teatro e cinema, prima struttura in Italia accreditata all'insegnamento della Meisner Technique.

Sono nata a Buenos Aires, quasi letteralmente in un teatro - mia madre Liliana ruppe le acque durante una classe di recitazione. Ho passato l'infanzia assistendo alle prove dei miei genitori (neonata avvolta in un fagotto, mi mettevano in cabina luci) e seguendo la compagnia durante le tournée. Il mio nome, è un omaggio parentale al teatro di Čechov. Da bambina ne andavo fiera, finché lessi Le tre sorelle e mi rabbuiai: non è che, come lei, non vedrò mai la mia Mosca? Chiesi ragione di una scelta tanto triste e mi rassicurarono che Irina era un personaggio bellissimo e voleva dire pace. La vita è stata però movimentata.

Nel '73, in fuga dai prodromi della dittatura argentina, il gruppo teatrale trovò asilo politico in Italia - grazie all’aiuto di Serena Sartori, figlia di Amleto Sartori - dove arrivò nel pieno del fermento politico e culturale, prima in una cascina del padovano e poi in una Milano aperta, solidale, dove la gente di teatro era generosa protagonista. Sono stati anni avventurosi, di grande condivisione. Lo spagnolo - lingua madre e delle fiabe - e l'italiano – idioma dell'asilo e degli amici – iniziarono a confluire una nell'altra.

La presenza in teatro era intervallata solo dalla scuola, dove papà mi accompagnava ogni giorno, puntuale, perché, mi diceva, "l'appuntamento è sacro". Amava raccontare storie, nutriva la mia curiosità in molti modi, mentre cucinava, o costruiva una biblioteca con vecchie assi, ma soprattutto ascoltava con attenzione assoluta, e non si stancava mai di rispondere ai miei "perché?". Non possedevamo nulla, tutto era regalato o di seconda mano. Era una vita felice. Povera di cose, ma ricca di umanità.

A nove anni, recitai per la prima volta al festival internazionale di Stoccolma - mio padre creò per l'occasione una parte nei tre spettacoli che presentavamo. Aveva il dono dei miracoli e il senso dell'irripetibile (aveva abolito dal vocabolario la parola "solito", se al bar dove faceva colazione gli avessero chiesto "il solito?" non sarebbe più tornato). Fu un'impressione indelebile. Il primo incontro col sacro. Fu anche la prima volta che dovetti chiedere aiuto per capire cosa volessero da me due giovani svedesi: era un autografo, ma nessuno mi aveva insegnato cosa fosse. Ai miei occhi di bambina la cosa parve priva di significato e non ho mai avuto il piacere di una seconda volta.

Il teatro è stata la mia casa e la mia scuola di vita. Crescere in una comunità di persone che sognavano e cercavano di costruire un mondo più giusto, è stata un'esperienza umana che mi accompagna e mi incoraggia a proseguire nello stesso credo.

Abbiamo viaggiato, conosciuto idiomi e popoli diversi, lungo tutta l'Europa, e dovunque mi sono sentita come a casa. Ho imparato che sono più le cose che ci uniscono che quelle che ci separano. Da piccola le parole nuove si imparavano velocemente e quando non bastavano c'erano i gesti: un abbraccio era uguale in tutte le lingue del mondo. Papà diceva che la gente di teatro, di qualsiasi latitudine, appartiene alla stessa etnia.

L'unica cosa che avevamo portato dall'Argentina erano i libri, che ci hanno seguiti sempre, nei cambi di casa e di sede. Crescendo mi sono appassionata allo studio e ho scoperto l'amore per la filosofia, ma non ho mai lasciato il teatro. Seguivo tutte le classi. Divenni, giovanissima, assistente di mio padre, prima come insegnante, poi come regista.

Sfidando il carisma paterno ho continuato a formarmi anche fuori dall'esperienza familiare - Spagna, Inghilterra, Stati Uniti - nel solco della tradizione in cui ero cresciuta, seguendo il magistero di Kostantin Stanislavskij. Ma anche questa volta lui aveva ragione: "non troverai nulla che non conosci già" e posso dire di essere felice di averlo constatato. La profondità dell'insegamento ricevuto non ha nulla da invidiare ai pur ottimi maestri che ho incontrato dopo, cui va il mio riconoscimento. Anche qui ho provato l'esperienza di tornare a casa. In fondo, diceva Platone, la conoscenza è ricordo.

È la fondatrice della Fabbrica dell'Esperienza: ce ne può sintetizzare la storia e le finalità?

Questo sogno prende corpo nell'ottobre del 2012, insieme con Alessandro Zatta, fondatore di Salti teatrali, e Dora Dorizzi, già attrice della Comuna Baires. Abbiamo pensato molto al nome e poi abbiamo scelto uno dei tanti creati da mio padre: Fabbrica dell’Esperienza. Ci trovavamo in una vecchia officina - che abbiamo riportato allo stato originale - dove volevamo dar vita alle varie forme di esperienza umana. Ma ci ha convinti il fatto che, in spagnolo "fe”, vuol dire fiducia, fede, speranza. Il desiderio è stato ispirato dalle parole di Max Jacob: “Aprirò una scuola di vita interiore e sulla porta scriverò: Scuola d’arte”. Creare un luogo d’incontro e formazione, in cui il teatro - che unisce tutte le arti - fosse il fondamento. Per i Greci il teatro era luogo di educazione della polis, ma anche mezzo di conoscenza e guarigione: il primo strumento psicologico di cura delle anime della collettività. La passione per le voci dell'anima è stata all’origine di questa scholè, fucina di ricerca di diversi ambiti disciplinari. Tutti i linguaggi dell’arte si richiamano metaforicamente uno con l’altro, volevamo perseguire una strada che passasse attraverso questo dialogo intrecciato.

Oltre al teatro, dunque, diamo spazio alla scrittura (con laboratori di poesia e narrativa) e ospitiamo una casa editrice indipendente (Editori della peste – premio Microeditoria di qualità 2016), coltiviamo la filosofia e la creatività per i più piccoli.

Dal 2015 al 2017, in collaborazione col Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano, abbiamo partecipato all'inaugurazione dell'anno accademico con proposte teatrali nate da testi filosofici. Dal mio desiderio di riunire teatro e filosofia nasce anche il seminario SAFFO, Sperimentazioni Artistiche Filosofiche Fuori Orbita: dal 2016 convochiamo filosofi, teologi, letterati, critici teatrali, su un medesimo tema monografico per approfondire l’origine del processo creativo. Da quale necessità nasce un’opera d’arte, cosa mette in gioco, che segno porta con sé? Non basta saper fare ciò che facciamo, ma tornare a chiedersi come e perché. Il perché oggi credo di saperlo. Recentemente, però, dopo uno spettacolo, uno psicoanalista - guardandosi attorno nello spazio, mi disse che era evidente lo sforzo, il fatto che noi vivessimo quel posto fino a fonderci dentro – e con una certa preoccupazione mi chiese per chi lo fate? Mi sono fermata a pensare e non ho ancora risposto. Forse fa parte dell’incertezza a cui si consegna il proprio gesto. Il seme deve morire per divenire frutto - diceva Nemirovič-Dančenko - succede così anche nel rapporto tra regista e attore: il regista scompare nel lavoro di un attore a cui ha trasfuso immagini, sentimenti, idee. Come il lavoro è riuscito quando non vedi più la regia. Ma sono domande che occorre tornare a farsi. Da quattro anni la nostra attività si intreccia con Mechrì, laboratorio di filosofia e cultura, diretto da Carlo Sini e presieduto da Florinda Cambria, con cui abbiamo stretto una profonda amicizia.

Il Teatro Renzo Casali ospita nostre creazioni e produzioni esterne. Abbiamo avuto il piacere di accogliere in residenza e promuovere il lavoro di giovani artisti indipendenti del panorama nazionale e di compagnie della scena internazionale, come il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. FE è anche luogo di incontri, testimonianze, giornate di studio e presentazioni di libri: una grande biblioteca – ricavata con le assi dell'utimo palco della Comuna Baires - separa la sala teatrale dal foyer - arredato con elementi di scenografie di vecchi spettacoli.

Nonostante i numerosi premi e riconoscimenti, che vengono dalla lunga storia della Comuna Baires (tra cui un Ambrogino d’oro nel 2008), siamo una piccola realtà metropolitana, autofinanziata.

Il suo insegnamento si basa sul metodo Stanislavsky e sulla pratica Meisner: come si integrano?

The Meisner Technique è un approccio che nasce dal magistero di Stanislavskij, una forma specifica di declinare la sua ricerca della verità sulla scena, andando oltre il cliché recitativo. Fondandosi sui principi del maestro russo, Sanford Meisner elabora un metodo diretto per andare al cuore del lavoro dell'attore, grazie a cui questi riesce ad essere totalmente in ascolto, aperto, vulnerabile, capace di re-agire a ciò che accade momento per momento. Nel suo disegno non c'è nulla di mentale, tutto l'insegnamento "è portare un attore dalla testa al cuore". Meisner era un pianista e credeva che gli attori non fossero in grado di ascoltare perché troppo concentrati su se stessi, così elabora un modo semplice ed efficace di forzare l’attore ad un contatto autentico, da cui nascono emozioni vere.

L'attore non illustra un'emozione, ma vive veramente le circostanze immaginarie di quello che chiamiamo ingenuamente personaggio. Questi non è fuori, ma dentro di sé. Non è qualcosa da costruire partendo da un'idea astratta, ma una parte interna da scoprire grazie al "sé magico", che permette di attivare l'immaginazione e portare oltre la propria esperienza, espanderla, esprimerla. L'arte dell'attore non è quella di diventare qualcun altro, ma risponde piuttosto all'invito nicciano di divenire ciò che si è. Meisner offre un metodo (precisamente una strada) di scoperta su se stessi, grazie a cui testimoniare il segno del proprio sguardo e sentimento sul mondo. Poiché è nella singolarità che riverbera l’universale umano.

Tra le diverse tecniche di recitazione, The Meisner Technique è tra le più stimate e seguite negli Stati Uniti, ma ancora poco nota nel nostro Paese, dove il grande insegnamento di Stanislavskij rimane, purtroppo, marginale e misconosciuto rispetto ad altre visioni del teatro. In Italia siamo in colossale ritardo, ed è un paradosso se pensiamo che chi ispirò la rivoluzione teatrale del maestro russo furono Tommanso Salvini ed Eleonora Duse. Il mio impegno è riportare Stanislavskij “a casa”, lì dove tutto ha avuto origine.

In particolare, come si configura il rapporto attore-spettatore?

A teatro tutto è convenzionale, tranne l'essere umano che ci sta di fronte, e quando ciò che accade in scena è vero, quando le emozioni dell'attore sono reali, non puoi che esserne coinvolto. La conoscenza passa sempre da un canale emotivo, ha un fondamento empatico: non esiste sapere che non sia emotivamente segnato. Le neuroscienze oggi spiegano ciò che il teatro sa e insegna da migliaia di anni. La facoltà di specchiarci in un'altra persona, di sentire ciò che sente il nostro simile, amplifica la conoscenza di noi stessi e dell'umano.

Il coinvolgimento del pubblico non è necessariamente diretto - non mira a portare gli spettatori sulla scena per fargli giocare un ruolo attivo, come viene tradotto, spesso, ingenuamente – ma, ignorandolo, paradossalmente, l'attore coinvolge il testimone in ciò che ha di più intimo. Grazie alla "quarta parete" immaginaria, può testimoniare la propria verità. Ri-velando se stesso l'attore dona le proprie contraddizioni, dubbi, fallimenti, sogni e segreti, intraducibili a parole. L'anima parla una lingua fatta di silenzi, sguardi, lacrime, sospiri. Il significato non sta mai nel testo. Il senso non può essere spiegato intellettualmente, ridotto ad espressione verbale, è un indicibile che si manifesta in gesti, sussulti, esitazioni.

Ciò detto, più che dagli stili in cui si presenta o con cui cerca di distinguersi, il teatro vivo, il teatro necessario, lo riconosciamo dagli effetti che provoca. Diverse possono essere le forme sceniche che prende il rituale laico del teatro. Non occorre rincorrere la novità né difendere la tradizione, piuttosto ri-cordare l'essenza originaria.

Il teatro di cui abbiamo bisogno, non è spettacolo né intrattenimento, ma un'esperienza da cui si esce trasformati: dove ritroviamo il senso religioso, il sacro della nostra umanità. Questa via transita dal cuore.

Esiste una differenza di genere nell'approccio all'esperienza teatrale?

Il linguaggio delle emozioni è fisico, non rimane sul piano dei concetti, ma si situa nel corpo dei soggetti. Le donne sono naturalmente a contatto con l'idioma emotivo, ma questa facoltà non è loro patrimonio esclusivo, è solo culturalmente riconosciuto. Tale capacità femminile risiede in ogni persona. Purtroppo viviamo in una società patriarcale, dominata dal logos e da un Io ipertrofico. Il femminile - che nell'arte trova un canale privilegiato di espressione - ha un compito essenziale: compensare la mancanza culturale di cui tutti soffriamo, come singoli e come società. L'aspetto animico, sensibile, emotivo dei fenomeni - rispetto a quello razionale, meccanico, quantitativo - è il grande rimosso, il sommerso, di cui tutti soffriamo l'esilio. Grazie al coinvolgimento dell'inconscio nella creazione dell'opera le asimmetrie possono essere riequilibrate. Di qui la funzione centrale per la cultura che l'arte portatrice di un'istanza femminile può svolgere.

Non credo che nel teatro vi sia una differenza di genere, ma di sensibilità, che concerne sempre la persona, al di là del sesso e di ogni altra distinzione. Quando ci emozioniamo è perché qualcosa di vero sta accadendo, e quel qualcosa "mi tocca". Il teatro di cui sono alla ricerca tocca i sentimenti delle persone, non solo la testa. Si dice, a ragione, che il teatro non abbia sesso né età, ma Meisner soleva ripetere: "Acting is an emotional profession", perciò deve possedere questa qualità femminile.

La sua formazione è legata all'esperienza nella Comuna Baires: che cosa le è rimasto e che cosa ha innovato?

Pur restando fino all'ultimo a fianco di mio padre, ho avuto grande autonomia e libertà, con periodi di allontanamento per studio o progetti personali, che mi hanno permesso di sviluppare una direzione di ricerca che oggi coltivo assieme alla tradizione da cui provengo. I miei studi filosofici e gli interessi rivolti alla psicoanalisi sono confluiti nella ricerca sulla funzione creativa dell'inconscio, forza motrice del processo trasformativo nella creazione dell'opera d'arte.

Nel 2005, ispirata da James Hillman, ho creato Fare Anima, gruppo di ricerca teatrale, e Piccola Accademia Fare Anima, con seminari che intrecciavano teatro, filosofia e psicoanalisi. Nella ricerca teorica integro ciò che ho ereditato dai miei maestri a quello che ho scoperto grazie alle mie ossessioni.

Tutto ciò confluisce in una forma personale di insegnamento dell'arte dell'attore che, nella relazione con gli allievi, mi regala momenti di autenticità e pienezza, difficili da trovare fuori dalla sala di lavoro. Una rapporto maieutico da cui esco trasformata, insieme a loro. L'arte dell'attore, come ogni opera d'arte, richiede di essere arrivati all'estremo.

Nel lavoro scenico la poetica nasce dal corpo e si orienta verso un teatro fisico - mia madre Liliana era ballerina, da lei viene la passione per la danza. Non ho ereditato il suo talento, ma la potenza del gesto e del movimento fanno parte della mia ricerca diretta all'espressione non-verbale, perché credo che dove la persona tace, l'anima parla. Il motivo per cui si danza, disse Isadora Duncan, non si può esprimere a parole: "Se lo potessi dire non danzerei".

Gli spettacoli della Comuna Baires erano veri e propri rituali, che mi hanno marchiata a fuoco. Non li si può stringere in un genere, poiché racchiudono una vasta produzione di lavori. Non ho mai cercato di copiare o replicare uno stile. Il tempo della Comuna era segnato da un forte impianto di gruppo, imponenti lavori corali. Ora il quadro è cambiato e anche volendo sarebbe difficile riproporre un tale apparto scenico. Fino a Haci Giugo:8,15 (a cui fu conferita una medaglia dal Presidente della Repubblica) ho lavorato su grandi quadri storici, ma eravamo sei attori con un gruppo di lavoro coeso. Poi è venuto un altro tempo, più raccolto e il mio sguardo si è rivolto dentro. È stata la volta della poesia, con Frio Y Fuego, un monologo danzato sui poemi di Pablo Neruda, fortemente autobiografico, in cui si è definita la mia poetica, dove la comicità nasce dalla tragedia. In seguito sono arrivati Gli imprescindibili, un lavoro a due senza parole, di puro linguaggio fisico, fatto di tenerezza ed ironia. Con Riflessioni di un giovane equilibrista. Non tanto giovane, la narrazione letteraria si intreccia col teatro in un diario intimo, confessione nel mezzo della vita. La dimensione profonda della scrittura si infittisce negli spettacoli Corrispondenze d’amore, sui carteggi tra Olga Knipper e Anton Cechov, e Le mie preghiere tra le tue mani, tratto dalle lettere tra Rainer Maria Rilke e Lou Salomè.

Quello che resta immutato tra gli spettacoli della Comuna e i miei è la forza interna, il furore che sento ogni volta che varco la soglia. Il teatro per me è una forma di preghiera. Mi preparo sempre, come fosse la prima volta. Nulla è scontato, perché so che ogni volta si gioca una partita con le cose ultime. Ci accomuna la ricerca della verità e l'idea del teatro come testimonianza. Un atto di coraggio che può costare all'attore contemporaneamente ammirazione e avversione. Spiega Renzo, nel suo Antropologia dell'attore: "Essere «crudeli» con se stessi significa offrire agli altri la possibilità dell'autoanalisi, dell'autocoscienza. L'individuo/attore della testimonianza è un animale in gabbia: visitato, studiato, temuto, invidiato, rispettato, amato e odiato allo stesso tempo, oggetto di tenerezza e di disprezzo, di accettazione e rifiuto. Lo si nega e allo stesso tempo lo si ricerca".

Nell’insegnamento di suo padre, Renzo Casali, largo spazio era dedicato alla funzione pedagogica del teatro per la costruzione di un uomo nuovo…

Mio padre era un idealista, nipote di un guitto anarchico e di un conte tolstojano, che rinunciò al titolo nobiliare, restando in povertà, per regalare la terra ai contadini. Giunto a sei anni in Argentina con i genitori - fuggiti dalla fame dopo la Seconda guerra mondiale –a dodici anni lavorava in fabbrica per aiutare la famiglia, studiando di notte. Lì prese l'unica tessera del Partito Comunista della sua vita, coinvolto da un vecchio operaio, (in tutto la cellula era composta da tre persone). Strappò la tessera a Praga, il giorno dell'invasione dei carri armati sovietici. Nella città boema vi era giunto con mia madre, appena sposati, senza visto né soldi, per studiare teatro all'Università Carolingia. Erano certi che sarebbero stati accolti da un Paese socialista, di cui presto conobbero, invece, il volto oscuro. Espulsi successivamente dalla Spagna franchista, tornano in Argentina, dove fondarono la Comuna Baires, ma furono costretti all'esilio dopo le minacce di morte.

Tutta la sua vita è stata segnata dal sogno e, con la fondazione della Comuna Baires, la ricerca sospinta da una continua e metamorfica traduzione dell'utopia. Quell'orizzonte che – come dice Edoardo Galeano - camminando si sposta sempre di un passo, non lo raggiungi mai, ma serve a camminare.

Il teatro e la vita non sono stati per lui luoghi separati, ma forme di realizzazione della libertà dell'essere umano, inteso come totalità indivisa. Nel teatro - che accade sempre nel tempo presente, qui e ora - è possibile avverare questa totalità, senza rimandarla. C'è la possibilità di essere felici, senza delegare né procrastinare la propria autorealizzazione.

Ha recentemente curato, per Jaca Book, la riedizione di Antropologia dell’attore di Renzo Casali, ce ne può sintetizzare il messaggio?

Il testo è un materiale ricchissimo. Si apre con un Prologo, bellissimo, con parole che l’autore fa pronunciare a un vecchio capo indiano. Lo sciamano racconta la potenza del mondo spirituale e dell'immaginario, che è lo stesso dei bambini, con le sue visioni, intuizioni, profezie. Tutto ciò è incomprensibile all'uomo occidentale, privo di religiosità, prigioniero della superstizione scientifica, che riconosce solo il mondo tangibile della materia. Con potenti pennellate, dense di metafore, ripercorre l'infanzia dell'umanità e del teatro, tornando alle sorgenti del rituale. Nella magia della cerimonia tutto è uno: interno ed esterno, realtà e immaginazione, preda e cacciatore, raffigurazione e bisonte vivo, danza e lotta, vita e morte. I confini sono annullati da un’unità che ricompone ogni scissione. Parlare dell'origine del teatro non è ritorno nostalgico, ma attualizzazione di un'istanza primaria. La concezione antropologica del teatro di Casali considera quest'arte uno strumento "produttore di rapporti umani". Il teatro nasce attorno alla figura dell'attore, è antropocentrico. L'occidente ha intellettualizzato e scisso questo atto totale, così come l'individuo, con i suoi saperi e le sue forme espressive. Il libro ci parla del tramonto del progetto positivista, meccanicista e delle conseguenze nella vita delle persone. La soluzione alla crisi, il riscatto dall’alienazione avviene attraverso la creatività. Qui il riferimento va ad Artaud e Stanislavskij, partendo dai quali l’autore condivide il processo che sfocia nel proprio “teatro della testimonianza”. Antropologia dell’attore è un fondamentale contributo teorico, originalissimo, che si inscrive nella tradizione del maestro russo. Casali, dopo aver introdotto il metodo Stanislavskij in Italia nei primi anni ’70, con il suo magistero ha incarnato e trasmesso la missione dell’attore, scavalcando generi e frontiere disciplinari, riuscendo a parlare al cuore di tutti.

Sempre in Antropologia dell'attore, si sottolinea la crisi dell'individuo urbano: come la rapporterebbe alla sua esperienza di vita milanese?

Renzo racconta lo smarrimento dell'individuo metropolitano, all’interno della crisi di un progetto di società che ha prodotto soggetti razionali, specializzati, sempre più intelligenti, ma al tempo stesso meno intuitivi e incapaci di parlare la lingua dei sentimenti. Personalmente - pur dovendo tutto alla città in cui sono cresciuta e che ho molto amato per la ricchezza degli incontri con persone meravigliose - non posso tacere il disagio che provo di fronte alle trasformazioni avvenute negli ultimi anni, che hanno acuito questa crisi. Ho avuto la fortuna crescere e studiare a Milano facendo l'esperienza degli asili autogestiti, le scuole sperimentali a tempo pieno e l'università pubblica prima della riforma. In questi ultimi vent'anni, però, il Paese è molto cambiato e anche la città. La situazione che descrive Renzo, già a metà degli anni '80, non è migliorata. Molti aspetti della vita globalizzata sono esplosi sotto i nostri occhi con la crisi. Non è tanto né solo il fenomeno economico che mi inquieta, quanto ciò che ha portato alla luce: la perdita della dimensione collettiva sostituita da un ripiegamento individuale sempre più grande, che a sua volta ha prodotto un tasso di infelicità diffusa. Nonostante gli sforzi e i proclami encomiabili, Milano è una città pulita, efficiente, ma sempre più divisa tra ricchi e poveri, tra chi sta dentro e chi fuori dalla cerchia.

La cultura dell'impegno e della partecipazione è stata erosa da manifestazioni estemporanee, prive di radici. Questa assenza di radicalità coincide con una minor profondità e una richiesta di minor sforzo. Tuttavia la cultura richiede tempo, fatica. Il berlusconismo ha fatto credere che i soldi potessero rimpiazzare il sapere, ma questo non è vero, lo sappiamo. Oggi l'ignoranza dilaga e il mercato insegue i modi di un facile consumo di massa. Il dibattito politico purtroppo riflette questa povertà di pensiero e la cultura ne risente, in tutti i modi possibili.

Come vede l'offerta teatrale a Milano?

Dal punto di vista teatrale non mancano le opportunità, su questo non c'è dubbio. I teatri a Milano sono belli e sono tanti, per fortuna, tra questi i grandi teatri finanziati possono ospitare le migliori produzioni nazionali e internazionali. Non è poco. Occorre però ricordare che le piccole realtà fanno fatica. Esistono situazioni indipendenti, coraggiose, ma sempre più isolate: la fatica del quotidiano, i costi altissimi di gestione degli spazi erodono le energie. Questo vale tanto per la vita dei singoli che dei gruppi teatrali, praticamente scomparsi. Il sistema è fortemente malato. Il punto è che siamo al collasso di un modello di società fondata unicamente sul profitto che non prevede l'umano. Tutto ciò che esula dal danaro viene dopo. E l'umano non arriva mai.

È difficile mantenere un'attività culturale che non sia improntata al consumo e vendita di prodotto. I rappresentanti istituzionali parlano espressamente di volere favorire l'impresa culturale, equiparando chi fa cultura a un'azienda che deve produrre oggetti o beni di consumo. Anche nel cuore dell'istituzione universitaria, sempre più legata all'economia delle aziende - si è infiltrato questo pensiero, con le conseguenze insidiose che ne derivano (alcuni rami della ricerca, che garantiscono un sbocco di profitto, vengono promossi e finanziati, mentre altri ambiti di studio, privi di un immediato risvolto economico sono lasciati indietro e rischiano di scomparire). Si tratta di un pensiero pericoloso.

Si inseguono operazioni commerciali, confezionando format riproducibili, in spazi patinati, senza personalità né storia, senza identità. Ci si affida al marketing più che alla sostanza. Così facendo, però, non si intercetta un bisogno più profondo, paradossalmente sempre più diffuso, di esperienze autentiche. Perché sono le storture, i particolari, i segni distintivi che ci colpiscono nelle persone di cui ci innamoriamo, non l'uniformità generica.

Come si sono poste la città e le istituzioni di fronte alle vostre proposte culturali?

Le istituzioni ci ignorano, elegantemente, come hanno sempre fatto. In questo senso posso dire che non è cambiato nulla. Non è questione di colore politico, ma di sistema. Non abbiamo mai ricevuto finanziamenti pubblici, se non quote simboliche a cui abbiamo deciso di rinunciare, da anni, per questione di dignità. La nostra indipendenza, è però anche, da sempre, la nostra forza. Si fa sempre più fatica a resistere a Milano. In tutti i sensi. Per ora resistiamo, finché ci sosterranno le nostre forze fisiche e spirituali. E finché pubblico, allievi, compagni, amici e compagni vorranno camminare insieme a noi.

Una volta Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz, dopo aver visto il nostro spettacolo sulla shoa (Haci Giugo. 8 15) con forte emozione mi disse: dovete portarlo in giro questo lavoro, dovete andare ovunque. Qualcuno degli attori, rispose che era difficile e lui interrompendolo, con lo sguardo fermo aggiunse, “anche sopravvivere ad Auschwitz è difficile”. Abbiamo girato con lo spettacolo per otto anni, in Italia ed Europa.

Non è mai stato facile, ma le parole di Fiano sono un monito che non scorderò mai. Le mie lezioni di teatro iniziano sempre con la lettura del Canto di Ulisse di Primo Levi di Se questo è un uomo. Come uno squillo di tromba, ci ricordano, il nostro destino, di cui la poesia è custode e cui nulla può strappare, nemmeno un campo di sterminio.

Se dovesse ambientare una sua regia “en plein air”, quali luoghi “teatrali” della città sceglierebbe?

Di Milano mi piacciono i luoghi nascosti, intimi, sotterranei. Ho avuto l'onore di presentare il Simposio di Platone nell'aula a Crociera alta dell'Università Statale di Milano, una serata di luna piena. La storia pesava su noi, silenziosa e saggia, con le sue pietre secolari.

Più che gli spazi aperti, per una regia sceglierei una chiesa sconsacrata, una cripta o un’antica biblioteca medievale. Un luogo dove l'anima possa raccogliersi in silenzio ed essere ascoltata. Uno spettacolo in cui possa accadere un incontro. Non ho mai inseguito la folla delle grandi platee, amo le distanze ravvicinate.

Invitati al Fringe festival di Edimburgo, ebbi la fortuna di presentare Haci Giugo. 8 15 in una chiesa sconsacrata che avvolgeva stretta attori e pubblico. Lo spettacolo era molto forte e il pubblico usciva sempre in lacrime. Di fronte alla chiesa in cui recitavamo, c’era una chiesa protestante, consacrata. Mi capitò di vedere, dopo lo spettacolo, persone uscire dalla sala, attraversare la strada per andare a pregare.