Francesco Ricasoli, barone del Chianti, racconta come si è ripreso l’azienda e come vive dentro una storia quasi millenaria.

Un pipistrello svolazza nel salone dove sorseggiamo un Albia, bianco Igt della casa, fresco e fragrante, accompagnato da crostini toscani: «Penso abiti in quest’ala del castello», commenta il barone sbirciando il chirottero che scompare veloce. Il castello, qui dal 1141, è quello di Brolio, a Gaiole in Chianti. Appartiene alla famiglia Ricasoli da oltre 850 anni. Una storia di possedimenti, diplomazia, politica, commerci, intuizioni, visioni, innovazioni hanno ordito la trama di una dinastia oggi giunta alla trentaduesima generazione, che fa capo a Francesco, il più piccolo di due sorelle e un fratello venuto a mancare.

Fuori dalla grande finestra della reggia, austera come ci si aspetta da una fortificazione, un tempo baluardo fiorentino ma già in terra senese, il vespro allunga l’ombra delle colline ricamate dall’uomo in punta di vigna. «Sembra un quadro del Rinascimento e ogni giorno muta, secondo la luce» commenta il proprietario dei 1200 ettari tra boschi di querce e castagni, ulivi e vite sui quali il barone sofferma lo sguardo, come a voler fotografare lo spettacolo.

La fotografia d’altra parte è stata protagonista della prima vita di Francesco Ricasoli. «A sedici anni, quando mia madre è morta, sono andato in collegio a Venezia, all’Istituto Navale Morosini e, uscito da lì, ho iniziato a lavorare dandomi da fare da solo. Da ragazzo non avevo la percezione della storia di famiglia, non la consideravo, andavo libero». Così Ricasoli si è allontanato dal nido per seguire strade differenti. Riuscendoci perfettamente: diventa fotografo pubblicitario per clienti importanti come Valentino, Piaggio, Barilla, Parker, esprimendo un estro creativo e visionario che fa onore al suo quadrisavolo Bettino Ricasoli, presidente del Consiglio di un’Italia appena unita dopo Cavour e inventore del Chianti Classico. Una carriera fotografica prestigiosa, quella del barone Francesco, volontariamente interrotta dopo una telefonata di suo padre. «Era l’estate del 1990 quando chiamò. Disse di avere un regalo per me: una micro percentuale della Ricasoli che, dagli anni Settanta, era passata nelle mani degli americani e poi degli australiani. M’infuriai: gli dissi che se mi staccava un assegno era meglio. L’azienda era in grave crisi, con pesanti debiti e un complicato intreccio di società. Da tempo mio padre insisteva perché venissi a lavorare qui in campagna, perché una parte fondiaria dei vigneti era rimasta in capo a lui, ma andava male anche quella. Io non ne volevo sapere».

Cosa le ha fatto cambiare idea?

Capii che in pochissimi anni avremmo perso tutto. Allora gli feci una proposta radicale: se mi dava carta bianca, potere assoluto, decisioni illimitate su tutto mi sarei occupato della Ricasoli. Non volevo affrontare la situazione passando da uno scontro generazionale. Accettò la mia proposta.

Suo padre aveva molta fiducia in lei.

Incosciente, direi. E io pure: in un mese chiusi lo studio fotografico liquidando l’attrezzatura per non avere ripensamenti, anche se ero arrivato a un momento di stasi: non trovavo gli stimoli dell’inizio, cercavo nuove vie creative. Anche questo mi ha spinto ad accettare la sfida Ricasoli.

E all’inizio degli anni Novanta inizia l’avventura.

Non sapevo nulla di viticoltura e decisi di farmi affiancare dal direttore storico, che un tempo era stato il fattore: profondo conoscitore dell’azienda e lealmente affezionato. Per uscire da crisi così gravi servono anche l’amore e la dedizione, non solo la competenza. Studiammo insieme soluzioni e dopo un anno capii che non c’erano speranze. Durante la crisi del settore, negli anni Settanta e Ottanta, le due proprietà che si sono succedute avevano rilevato l’azienda con un marchio ancora forte. In venti anni lo avevano ridotto al lumicino, come le casse. Iniziai a dialogare con gli australiani, ai quali il nostro vino sfuso veniva venduto con un contratto capestro. O si riusciva a mettere insieme un vero spirito sinergico tra la produzione e la commercializzazione, o niente.

È vero che offrì un dollaro per ricomprare l’azienda?

Sì, un dollaro australiano. Ovviamente rifiutarono e vendettero a terzi. A quel punto avevo 20 giorni di tempo per decidere che cosa fare: mi avvalsi del diritto di prelazione previsto nel contratto. Firmarlo fu la cosa più difficile: tutti mi dicevano che era folle. Nel frattempo scoprimmo una perdita di svariati miliardi di lire, così decisi di liquidare l’azienda e presentai un progetto di concordato garantito e remissorio, che ha fatto storia, e con il quale costituii una società di gestione per ricominciare l’attività. Era il 1993, due anni dopo chiusi il concordato, in anticipo. L’operazione si rivelò vincente.

Audacia e creatività nel trovare soluzioni: un talento di famiglia, a partire del suo avo Bettino.

Il mio quadrisavolo era un genio, mentre alla mia audacia si sono unite coincidenze fortunate come la ripresa economica, le persone giuste di cui mi fidavo, il tempismo e poi un fatto fondamentale: dietro la Ricasoli c’è il cuore di un territorio. Certo, c’entrano anche la vocazione di famiglia per la ricerca e l’innovazione e, per quanto mi riguarda, l’essere mosso non dal fare qualcosa per me ma per l’azienda: quando ho ricomprato tutto avevo chiaro in testa che, se me ne vado io, l’azienda resta e deve essere solida.

Pensa a sua figlia Sofia?

Penso a tutti coloro che ci si dedicano e anche a lei. Si sta laureando in giurisprudenza e vive l’azienda da fuori, è consigliere di amministrazione, viaggia con me. Cerco di trasmetterle poche cose: saper mettere insieme una squadra, trovare obiettivi e non dimenticarsi che, anche se questa è un’impresa piccola, ha molti dipendenti che impongono grande responsabilità.

170 dipendenti, 2,5 milioni di bottiglie, 17 milioni di fatturato e l’impronta intramontabile di un classico: come ci siete arrivati?

Le grandi tradizioni vivono solo se diventano dinamiche, perché i cambiamenti dei tempi e gli stili si modificano in modo pazzesco. La funzione del vino è mutata completamente. La nostra formula è trasformarsi, mantenere un’identità altra, possibilmente non seguire le mode e imporre il nostro stile. Non facciamo un prodotto di massa, cerchiamo unicità di carattere. Il progetto raritas lo testimonia.

Le raritas di Sangiovese: sono come il guizzo di un classico.

Colledilà, Roncicone, Ceniprimo: tre vigne, tre cru, tre vini chiamati come i luoghi dove nascono. Non amo i nomi piacioni. Preferisco la bellezza che si fa trovare. I nostri vini li devi cercare e poi ti agguantano per la persistenza. Ho dovuto combattere molto anche in azienda, pure con i più giovani, per realizzare questo progetto. La novità fa paura e tra l’analisi qualitativa e quella quantitativa è più sicuro seguire la seconda, soprattutto se si ascoltano le banche. Io e Massimiliano Biagi, agronomo illuminato, per 15 anni abbiamo lavorato, primi in Italia, alla zonazione dei terreni del Chianti Classico, per esaltare le potenzialità del terroir con una viticoltura di precisione, moderna e sostenibile.

Sostenibile, ma non biologica.

Preferiamo andare oltre utilizzando tecniche agronomiche a basso impatto ambientale, che mettano insieme conoscenze antiche e nuove. Questo approccio ci ha portato alla selezione clonale, per conservare i più interessanti biotipi di Sangiovese presenti a Brolio.

A quali fotografi potrebbero somigliare le raritas?

Colledilà ha una bellezza morbida e precisa alla Richard Avedon; il Cineprimo lo assocerei all’armonia delle foto di Ansel Adams. Il Roncicone ha un tratto alla Helmut Newton, elegante e provocante.

Dalla finestra che affaccia sulla terrazza, il paesaggio colorato dal crepuscolo si fa inghiottire lentamente dalla notte, il pipistrello si è nascosto, i crostini toscani stanno per finire e anche l’intervista, così per qualche istante nel salone scende il silenzio: secolare. Lo infrango chiedendo perché nessuno vive più al castello: «Qui ci sono cresciuto, è un luogo pieno di ricordi personali, in ogni angolo si scovano tracce dei miei avi, ma noi viviamo in un casolare poco distante, perché le dimore storiche di questa portata, per essere vissute secondo le necessità odierne, avrebbero bisogno d’investimenti in manutenzione che nessuno può davvero permettersi. Lo apriamo per eventi speciali e mai per accoglienza turistica». Per quella c’è l’Agresto, casa colonica del ‘700, a sud ovest del castello: confortevole architettura rurale toscana, quattro camere con bagno, il panorama e una piscina. Nessun progetto di ampliare l’agriturismo con altri casolari della tenuta perché alcuni sono «la residenza dei nostri lavoratori, italiani e stranieri. Sono 27 in totale, gli ultimi sei arrivano dal Mali e dal Gambia: facevano i pendolari e pur essendo regolari non avevano una casa fissa, così gliel’abbiamo offerta noi», racconta Ricasoli con un certo orgoglio.

Ci avviamo all’uscita passando da un salone all’altro e, mentre occhieggio sui muri l’araldica e i ritratti degli antenati, chiedo quanto pesa la storia di un casato tra i più longevi del mondo e il più antico d’Italia: «Sento più ora la forza del passato di quando ho iniziato quest’avventura, ma non è un peso». Non si rammarica di avere rinunciato al mare, suo grande amore, e alla fotografia? «Ho sacrificato tutto ma senza rimpianti. Viaggio molto, lavoro sempre, mi piace, non ci penso».