Alla fine dello scorso maggio, una sentenza a Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione ha improvvisamente riaperto il dibattito nazionale sulla legalizzazione della cannabis. Il pronunciamento della Corte interveniva a seguito del contrasto giurisprudenziale tra le sezioni della Corte che tra il 2018 e il 2019 si erano occupate dell’interpretazione della legge 2 dicembre 2016, n. 242.

La legge, muovendosi sulla traccia della legislazione comunitaria, aveva riaperto la possibilità della coltivazione della canapa, da tempo abbandonata, della quale l’Italia, nei primi anni del Novecento, era stata la seconda produttrice al mondo dopo la Russia.

La produzione era molto diffusa soprattutto in Piemonte tanto da dare il nome (Canavese) a una vasta regione del Piemonte, con al centro Ivrea. La legge 242 proponeva, infatti, il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversità, nonché come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione.

La coltivazione era limitata alle varietà di canapa ammesse come piante agricole secondo l’art. 17 della direttiva comunitaria 2002/53/CE, non rientranti tra quelle previste nell’ambito di applicazione della legislazione italiana in materia di sostanze stupefacenti. L’art. 4, comma 5, della legge escludeva la responsabilità dell’agricoltore, qualora il contenuto complessivo di THC (tetraidrocannabidolo) fosse superiore allo 0,2% e inferiore al 0,6%. Quest’ultima disposizione indusse, anche a causa della incompleta e non chiara formulazione della norma, a ritenere possibile la commercializzazione della cannabis light a fini terapeutici e “ricreativi”, tanto da determinare l’apertura in tutta Italia di esercizi commerciali (circa millecinquecento), oltre che l’aumento delle superfici coltivate a canapa.

La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 30475 del 30 maggio 2019, dopo la ricostruzione della disciplina comunitaria e nazionale in materia, ha risolto il contrasto giurisprudenziale, dando della norma un’interpretazione restrittiva, affermando in sostanza che le attività consentite dalla legge 242 erano solo quelle, tassativamente indicate all’art. 1, comma 3, della legge 242, che non comprendevano il commercio di inflorescenze, olio, resine derivate, che nessuna modifica era stata apportata alla legislazione penale in materia, che pertanto il commercio e il consumo della cannabis restavano vietate a prescindere dalla percentuale di THC in essa contenuta.

È impossibile in questa sede esporre analiticamente i vari e complessi passaggi della motivazione, ma è interessante segnalare come all’interno della sentenza è presente una considerazione finale, (“salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività"), che segna al contempo una contraddizione e un’apertura, recupera i parametri quantitativi contenuti nella legge sinora ignorati in sentenza, ripresi sotto il parametro “dell’efficacia drogante” in concreto accertata, caso per caso. In particolare, senza di essa, infatti, verrebbe meno “la concreta offensività delle singole condotte rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi”. Quest’ultimo passaggio non fa che complicare ulteriormente l’interpretazione della norma, rendendo incerta e ondivaga ogni valutazione circa la sussistenza o meno del reato previsto dall’art. 73 del Testo Unico 309/1990, in materia di sostanze stupefacenti. Si è completamente trascurato da un lato la volatilità e il facile degrado dell’effetto tossicologico della cannabis in relazione alla durata e alle condizioni di conservazione, dall’altro la soggettività dell’efficacia drogante in relazione alle dosi consumate, altro essendo l’effetto provocato da una singola assunzione giornaliera, praticamente irrilevante, altro quello determinato dal ripetuto e compulsivo consumo giornaliero.

Al momento, si può concludere che la soluzione giurisprudenziale esposta, non solo reclama un intervento normativo che offra una interpretazione autentica della legge 242, ma determina nell’immediato danni economici e, soprattutto, la perdita dell’opportunità di sottrarre alle mafie una buona parte del mercato illecito dei derivati della canapa, e di intaccarne il monopolio assoluto in materia, con le conseguenze che di seguito si cercherà di esporre. Autorizzare il consumo di cannabis con livelli di THC tra lo 0,3 e lo 0,5 comporterebbe una notevole riduzione del danno, atteso che la canapa illegale è un prodotto rinforzato, con indici di THC che vanno dal 10 al 40%!

Resta infatti immutato il problema, ineludibile, più volte ripreso sulle colonne di questa rivista, del pericolo determinato dal mantenimento delle politiche proibizioniste e a questo proposito non si possono non richiamare le prese di posizione assunte, ormai da anni, dagli organismi delle Nazioni Unite, che si sono espressi sul tema. Si tratta di posizioni sconosciute al grande pubblico, probabilmente perché la loro diffusione avrebbe “turbato” il pensiero unico proibizionista, tanto caro ai governi e alle opinioni pubbliche di mezzo mondo.

Tema altamente divisivo, dunque, rischioso da affrontare con razionalità e freddezza, rappresentando il “proibizionismo” un vero e proprio dogma morale, che considera il consumo di droga immorale “a prescindere” e immorali, anzi pervertiti, coloro che ne fanno uso, come tali meritevoli di stigma sociale irreversibile, e persino di sanzioni penali o amministrative.

Come tutti i dogmi che si rispettino, il proibizionismo non può essere messo in discussione, non può formare oggetto di dibattito, di valutazione e comparazione di costi e benefici, di critica, di proposte di modifica, di revisione. Vi è una difficoltà e una resistenza ad avviare la modifica delle Convenzioni ONU in materia, anche se da più parti esse sono definite anacronistiche e superate dallo sviluppo vertiginoso del traffico, dal ruolo sempre più dominante delle grandi organizzazioni criminali internazionali, dall’aumento, altrettanto vertiginoso dei consumi.

Si parla ormai apertamente di fallimento del proibizionismo e le prove stanno nelle cifre. Dai dati pubblicati dal Libro Bianco sulle droghe per il 2018, si apprende che 14.139 dei 48.144 ingressi in carcere nel 2017 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Si tratta del 29,37% degli ingressi in carcere. Di essi, 13.836 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2017 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio). Altri 4.981 in concorso con l'art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 976 esclusivamente per l'art. 74. Mentre questi ultimi rimangono sostanzialmente stabili, aumentano dell'8,5% i detenuti per solo art. 73. Si tratta complessivamente del 34,36% del totale. 14.706 dei 57.608 detenuti al 31/12/2017 erano tossicodipendenti (25,53% del totale).

Negli USA, paese nel quale l’ideologia proibizionista è nata già nella seconda metà dell’Ottocento, alternando alla repressione del fumo, quella dell’alcool e, infine, quella delle sostanze stupefacenti, il costo annuale della “lotta alla droga” è di 44 miliardi di dollari e i detenuti per reati di droga sono circa il 55% del totale, che tocca i due milioni. In Europa il costo viene stimato tra i 24 e 40 miliardi di euro; in Italia in due miliardi. Un poderoso sforzo economico a fronte del quale i risultati dovrebbero essere altrettanto elevati. Non è stato così.

Quanto ai sequestri, i più ottimisti tra i magistrati e gli organi di polizia ammettono che la droga sequestrata nel corso delle tantissime operazioni “antidroga” non supera il 10% di quella trafficata, altre stime si attestano su quantità che vanno dal 5 al 10%. Dei metodi di pagamento si sa poco e, non risultano sequestri di somme utilizzate per il pagamento di partite di droga. I trafficanti non ne parlano mai tra di loro, restano ignoti i canali internazionali attraverso i quali avvengono i trasferimenti di danaro. I dati ufficiali ci dicono ancora che, complessivamente, la produzione di coca e oppio è continuamente aumentata per inseguire una domanda anch’essa in forte crescita, mentre i prezzi sono letteralmente crollati, tutti risultati di diretta conseguenza delle politiche proibizioniste.

Il definitivo riconoscimento ufficiale del fallimento è quello che è venuto, già da alcuni anni, dal Rapporto 2011 della Commissione Globale sulla Politica per le droghe. La CND - Commission on Narcotic Drugs - è un organismo di definizione delle politiche nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite e guida l’azione internazionale contro la droga. Essa è inoltre l’organismo di governo dell’Ufficio delle Nazioni Unite sulla Droga e il Crimine (UNODC) con sede a Vienna. L’inizio del rapporto è raggelante:

La guerra globale alla droga è fallita, con conseguenze devastanti per gli individui e le società di tutto il mondo. Cinquanta anni dopo la Convenzione Unica delle Nazioni Unite sugli Stupefacenti, e a 40 anni da quando il presidente Nixon lanciò la guerra alle droghe del governo americano, sono urgenti e necessarie riforme fondamentali nelle politiche di controllo delle droghe nazionali e mondiali. Le immense risorse dirette alla criminalizzazione e alle misure repressive su produttori, trafficanti e consumatori di droghe illegali hanno chiaramente fallito nella riduzione dell’offerta e del consumo. Le apparenti vittorie dell’eliminazione di una fonte o di una organizzazione vengono negate, quasi istantaneamente, con l’emergere di altre fonti e trafficanti. Gli sforzi repressivi diretti sui consumatori impediscono misure di sanità pubblica volte alla riduzione di HIV/AIDS, overdosi mortali e altre conseguenze dannose dell’uso della droga. Invece di investire in strategie più convenienti e basate sull’evidenza per la riduzione della domanda e dei danni, le spese pubbliche vanno nelle inutili strategie della riduzione dell’offerta e della incarcerazione.

Il rapporto meriterebbe molto di più di questa breve citazione della sola premessa, che si conclude con un imperativo “Rompere il tabù sul dibattito e sulla riforma. È tempo di agire”. L’invito non è stato raccolto, tanto che nel 2013, la 56ma sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulle Droghe (ENCOD - The European Coalition for Just and Effective Drug Policies) tenuta a Vienna dall’11 al 15 marzo 2013, tornava sull’argomento e si chiudeva con una dichiarazione della quale si riportano alcuni dei passaggi più significativi:

Uno studio della regolamentazione delle droghe è la più importante necessità per qualsiasi organizzazione interessata o coinvolta nella politica delle droghe. Ci sono numerose ragioni per questo.
1. Il dibattito sul bisogno di uno studio per politiche alternative delle droghe si sta intensificando e acquistando velocità su scala globale. Al livello dei decision-maker, tuttavia il tema molto semplicemente non si trova in agenda.
2. Le esperienze di decriminalizzazione (di fatto) nei Paesi Bassi e con la decriminalizzazione delle altre droghe in Portogallo e in altri paesi dimostrano che la regolamentazione legale delle droghe proibite non aumenta il problema delle droghe.
3. La continuazione della proibizione delle droghe, senza considerare politiche alternative, deve esser considerata come una negligenza criminale e una inadempienza al dovere.
4. Le generazioni future vorranno sapere come è stato possibile che la disastrosa proibizione delle droghe sia continuata per così tanto tempo, senza un pensiero serio sulle alternative.

L’ENCOD denuncia il silenzio dei governanti (decision-maker) e il rifiuto che essi oppongono (negligenza criminale), con cieca ostinazione, ad affrontare il problema (la disastrosa proibizione delle droghe), che continua a non entrare nell’agenda dei governi. Ancora meno nell’attuale contesto politico nel quale il pericolo dal quale difendersi sembra essere solo quello dei flussi migratori, assai minore di quello della criminalità organizzata di tipo mafioso. Non un cenno nei due decreti sicurezza varati in Italia negli ultimi mesi, nessuna attenzione al rapporto EUROPOL 2017, secondo il quale nei 28 Paesi membri dell'Unione europea sono attualmente sotto indagine circa 5 mila organizzazioni criminali e anche se non tutte hanno lo spessore delle mafie italiane, (queste ultime oggetto di 145 indagini a livello comunitario coordinate da Eurojust dal 2012 al 2016), sette su dieci operano in più di uno Stato e tutte insieme si spartiscono un mercato illecito, dalla droga alla contraffazione, stimato da Transcrime in quasi 110 miliardi di euro, pari a circa l'1% del PIL dell'Unione.

Quello che conta è che tutte le organizzazioni operanti nei 28 paesi dell’UE (nessuno dei quali risulta esente dalla presenza di fenomeni criminali) hanno come attività principale quella del traffico di sostanze stupefacenti. E i governi stanno a guardare…