Nel corso dell’Operazione “Olimpia”, la più importante operazione giudiziaria condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, nell’ormai lontano 1993, nei confronti della ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria, emerse, probabilmente per la prima volta, la necessità di comprendere il rapporto mafia-politica, fuori dalle tradizionali letture, fondate sul presupposto che fra le due entità venissero intrattenuti più o meno stabili relazioni, per il reciproco interesse di scambio di utilità, quello che oggi si definisce “voto di scambio”, consenso elettorale contro possibilità di ottenere vantaggi di tipo amministrativo a livello locale.

Si tentò, invece, di abbandonare il tradizionale schema del rapporto mafia-politica, che, come è noto, costituisce l’indefettibile, tratto distintivo delle mafie rispetto a fenomeni criminali “comuni”, ma di ricostruire l’esistenza di una autonoma e originaria “politica della mafia”, nel caso specifico della ’ndrangheta reggina, vale a dire delle ideologie e dei progetti politici che la ’ndrangheta in quanto tale ha coltivato, promosso e realizzato, almeno dal 1970 in poi. Come corollario si pone l’ulteriore interrogativo che concerne i limiti entro i quali si può parlare di autonomia politica della mafia, vale a dire sino a che punto la ’ndrangheta, ma l’interrogativo vale per qualsiasi organizzazione mafiosa compresa Cosa Nostra, sia capace di esprimere una strategia politica propria.

Le indagini giudiziarie e nuovi contributi di organi istituzionali, come la Commissione parlamentare antimafia, saggi e ricerche giornalistiche, consentono ormai di disporre di un materiale conoscitivo di eccezionale rilievo, attraverso il quale è possibile ricostruire, con sufficiente fondamento, le linee fondamentali di una vera e propria politica della ’ndrangheta.

Entrando nel vivo della trattazione è possibile sfatare alcuni luoghi comuni che appartengono alla letteratura sull’argomento, secondo la quale il versante politico più frequentato dalle organizzazioni criminali di tipo mafioso sia stato, sempre e necessariamente, quello governativo. Al contrario, se questo resta valido a livello delle relazioni di scambio, ad altri risultati si perviene allorquando si vogliano esplorare le zone oscure delle ideologie e dei progetti, ove si colgono tendenze eversive, separatiste, antigovernative, che potranno forse sorprendere coloro che pensano ai fenomeni criminali come subordinati a quelli politici, mentre spesso è accaduto e forse accadrà che siano invece le organizzazioni criminali a proporsi come soggetto politico, per concorrere a soluzioni politiche aberranti e antidemocratiche, come agenzia di servizi criminali al servizio di poteri occulti che hanno operato in quella direzione.

Si trattava di una ricostruzione legata alle esigenze processuali di quella indagine, che non ambiva a divenire criterio interpretativo di carattere generale, ma quello che più importa è che, essendo fondata su elementi probatori inconfutabili, consentì di pervenire alla sentenza di condanna di circa un centinaio di imputati, sentenza divenuta definitiva, dopo la verifica dei tre gradi di giudizio.

Il quadro che si presenta dinanzi all’osservatore a partire dagli anni ’70, è di un radicale mutamento degli orientamenti e dei progetti della ’ndrangheta reggina, in singolare sintonia con gli sconvolgimenti che in quegli anni percorrevano lo scenario politico del Paese, all’interno del quale si affacciavano prepotentemente movimenti eversivi di varia tendenza, che avrebbero caratterizzato tristemente l'intero decennio, immergendo il Paese in cupi anni di piombo e di sangue, di terrorismo e di stragi.

Lo spartiacque è, dunque, costituito dagli anni 1969-70, data alla quale si può far risalire la nascita della ’ndrangheta moderna, quella che, per vicende giudiziarie ancora non del tutto chiuse, per protagonisti ancora attivi sulla scena criminale, per orientamenti e programmi, è la stessa di quella di cui ci si occupa ancora a distanza di quasi mezzo secolo.

Lo scenario che si presentava davanti ai magistrati inquirenti (tra i quali lo scrivente) era quello di una vera e propria sinergia tra la ‘ndrangheta e la destra eversiva durante la “rivolta per Reggio capoluogo”, scoppiata il 14 luglio del 1970, di cui non è possibile ripercorrere in questa sede i numerosi eventi che ne diedero evidenza; se ne possono ricordare alcuni tra i principali, come il summit di Montalto del 26 ottobre del 1969, quando la tradizionale riunione annuale della ‘ndrangheta ebbe per oggetto la proposta di assecondare il progetto golpista di Junio Valerio Borghese, che il giorno prima, e non certo casualmente, aveva tenuto un comizio nella città di Reggio; la strage del treno di Gioia Tauro il 22 luglio 1970, la morte dei cinque anarchici reggini il 26 settembre di quell’anno, avvenuta a seguito di un anomalo incidente stradale sull’autostrada che li conduceva a Roma; la presenza di Avanguardia nazionale di Stefano Delle Chaie, quella del Fronte Nazionale di Pino Rauti; i rapporti tenuti a Roma con la banda della Magliana; le connessioni con personaggi come Pier Luigi Concutelli, autore dell’omicidio del magistrato Vittorio Occorsio; sino alle strane presenze di uomini della ‘ndrangheta sulla scena della strage di via Fani e del sequestro di Aldo Moro.

Recenti acquisizioni probatorie hanno consentito alla DDA di Reggio, in una linea investigativa di continuità con l’Operazione Olimpia, di acclarare il ruolo della ‘ndrangheta reggina anche nella stagione stragista degli anni 1992-93, (da ritenersi come l’ultima stagione della strategia della tensione), con l’omicidio di due carabinieri il 18 gennaio del 1994 da parte di esponenti della ‘ndrangheta reggina su richiesta di Cosa Nostra; il perdurante rapporto con i Servizi segreti.

Quanto alle altre mafie si possono, sia pure in sintesi, citare i rapporti con i servizi segreti di Pippo Calò, del clan camorristico Misso, del parlamentare del MSI Abbatangelo, nella strage del rapido 904 del 23 dicembre del 1984; dei Nuclei armati rivoluzionari (NAR) di Valerio (Giusva) Fioravanti nell’omicidio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, del magistrato Mario Amato e nella strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980.

Se queste sono, si ribadisce: in estrema sintesi, acquisizioni investigative e giudiziarie, le radici profonde del rapporto Mafie-Destra estrema vanno ricercate più indietro, nel convulso periodo che caratterizzò il periodo 1943-1947, dopo lo sbarco americano in Sicilia. Mentre l’Italia del Nord era ancora sotto il duplice giogo dell’occupazione nazista e della ferocia della Repubblica Sociale Italiana, al Sud, apparentemente liberato, si svolgeva una silente ma diffusa operazione di guerriglia e sabotaggio nei confronti delle truppe alleate, ma soprattutto contro sindacalisti, sedi dei partiti di sinistra e delle Camere del Lavoro.

Parallelamente montava la resistenza politica da parte del baronaggio latifondista, del clero, della mafia e l’attività sovversiva di matrice fascista, che agiva attraverso un arcipelago di formazioni clandestine formate da repubblichini rifugiatisi oltre la linea gotica, uomini della X MAS di Junio Valerio Borghese, movimenti filomonarchici, massonici, filonazisti (tra tutti si citano le Sam (Squadre armate Mussolini), i Far (Fasci d’azione rivoluzionaria), l’Eca (Esercito clandestino anticomunista), e, soprattutto, la “Rete Invasione e Sabotaggio” formata alla fine del 1943 su ordine di Himmler e affidata al capo delle SS, Herbert Kappler.

L’aristocrazia terriera, ma soprattutto papa Pacelli erano letteralmente terrorizzati dalla possibilità di una occupazione bolscevica del nostro Paese e il Pontefice privilegiava la lotta contro il pericolo comunista, molto di più che di quello del nazismo e della Shoah. In parallelo, era forte il movimento separatista, dotato di un suo esercito l’EVIS, e la banda Palermo, guidata da Salvatore Giuliano, terrorista fascista, che impazzava tra Calabria e Sicilia, con massacri e attentati contro le Camere del Lavoro e sedi del PCI. Da qui il nome di “Santissima Trinità” dato a questa ibrida alleanza di Mafia-Vaticano e Servizi segreti.

Gli esiti di questa ondata di violenza furono due: il primo puntava a depotenziare il Movimento separatista siciliano e Cosa Nostra e si concretizzò con il regio decreto del 15 maggio 1946 che conferiva alla Sicilia lo statuto di autonomia (poi recepito nella Costituzione italiana del 1948), che qualcuno definisce l’esito della prima trattativa Stato-mafia; il secondo, frutto del patto agrario-mafioso, era diretto a stroncare sul nascere le lotte contadine per la distribuzione delle terre con l’uso della violenza e fu la strage di Portella della Ginestra del 1° maggio del 1947, primo episodio di strategia della tensione del secondo dopoguerra. Dopo le elezioni politiche del 18 aprile del 1948, e l’entrata in vigore della Costituzione dal 1° gennaio di quello stesso anno, vi fu un periodo di almeno apparente pace sociale, dedicata all’esigenza della ricostruzione dalle immani rovine della guerra, ma quelle forze, legate al passato fascista, alla reazione antidemocratica, non uscirono mai di scena in maniera definitiva, ma si immersero nell’ombra, pronte a riprendere la loro attività. Vennero riattivate tra la fine e l’inizio dei tre ultimi decenni del Novecento. Alla fine degli anni ‘60 sino alla metà degli anni ’70, con la strage di Piazza Fontana, il tentato golpe Borghese, la strage di piazza della Loggia e del treno Italicus; all’inizio degli anni ’80 con la strage della stazione di Bologna e la strage del treno 904; infine all’inizio degli anni ’90, con le stragi del ’92-93 in Sicilia prima, quindi sul continente.

La strategia eversiva, alla quale le organizzazioni presero parte dal 1943, per i cinquant’anni successivi, come dimostrato dalle fonti giudiziarie e investigative, dalle relazioni delle Commissioni parlamentari, dalle ricerche su documenti di archivio desecretati, ebbe fine dopo il 1994 e dimostra come le mafie ebbero il ruolo di vera e propria istituzione politica, di natura criminale, di sostegno alle operazioni stragiste e golpiste, attuate tutte le volte che il corso della politica italiana rischiava di virare a sinistra, a garanzia della collocazione atlantica del Paese e delle necessità della guerra fredda a bassa intensità (per il nostro Paese assai meno fredda e meno bassa che altrove).

L’alleanza mafia-estremismo di destra rimase, quindi, una costante nella storia del nostro Paese, come peraltro aveva enunciato l’agente della CIA Victor Marchetti, quando ammonì che “la mafia, per il suo carattere anticomunista è uno degli elementi che la CIA usa per controllare l’Italia”. Avrebbe dovuto completare la frase, per precisare che l’altro elemento era rappresentato dalla destra eversiva post-fascista. La legittimazione delle mafie come soggetti istituzionali e politici era ormai ufficiale. Aveva il compito di “controllare” il governo italiano su delega e per conto della più grande potenza mondiale.

Si potrebbe a questo punto obiettare che quanto sin qui detto riguarderebbe il passato, non certo l’attuale fase storica, nella quale da oltre 25 anni, le mafie hanno deposto le armi contro lo Stato, le loro guerre interne sono cessate, mentre la repressione giudiziaria le ha indebolite sia sul piano economico, attraverso le confische dei patrimoni illecitamente acquisiti, che militare. La realtà è un’altra, ben diversa dalle rappresentazioni oleografiche della retorica antimafia, delle serie televisive e delle declamazioni dei governi. Le mafie sono state, infatti, del tutto assimilate, cooptate, nel tessuto economico, finanziario e imprenditoriale del Paese, lucrano profitti enormi dalla gestione del traffico internazionale degli stupefacenti, sono sempre più integrate con settori della massoneria, mantengono i collegamenti con i servizi segreti, hanno i loro referenti politici, all’interno del nuovo contesto governativo e non solo, godono della disattenzione dell’opinione pubblica, della crisi profonda dei movimenti antimafia, della priorità riservata dalla politica a fenomeni assai meno pericolosi per la democrazia, come i migranti, islamici e terroristi, (spesso accomunati in unica categoria), la microcriminalità di strada (spaccio di droga al dettaglio soprattutto), nei confronti dei quali si sperimentano ripetuti decreti-sicurezza, inutili e spesso controproducenti rispetto agli obiettivi che dovrebbero assicurare.

Avanzano nuovi piccoli e grandi problemi per la sicurezza e la democrazia, che sulle pagine di questa rivista si è tentato più volte di evidenziare, come la xenofobia e il razzismo, l’intolleranza e la violenza diffusa, non ultime quelle delle curve degli stadi di calcio, all’interno delle quali si ritrova un mix di criminalità e destra eversiva (basti richiamare i festeggiamenti per le promozioni in serie A del Verona Hellas e del Brescia). Comprendere quale sia l’attuale ruolo politico delle mafie aiuterebbe a capire quali sono i “reali” poteri forti che governano l’economia, la finanza, la politica, le alleanze, l’atteggiamento verso l’Europa, le spinte autoritarie e sovraniste del momento.

Il problema assume caratteri ancora più preoccupanti se si consideri che alleanze del genere si ritrovano in molti paesi europei, in parallelo alla crescita dei movimenti di destra estrema e di violenza antisemita, xenofoba e razzista. Ne sono esempio tipico le formazioni politiche che in varie parti d’Europa, si rispecchiano palesemente al nazismo, alle bande dei motociclisti, che imperversano nei paesi scandinavi, ma anche in Canada e Australia, all’interno delle quali richiami ideologici neo-nazisti si accompagnano al traffico di droga e ad altre attività criminali.

La risposta dovrebbe essere di livello europeo, a livello politico in primo luogo, di collaborazione investigativa e giudiziaria, di recupero dei valori culturali dell’Europa, oggi calpestati e vilipesi dalla retorica nazionalista.