Il MET celebra quest’anno l’estetica Camp, dall'8 maggio al 9 settembre. Espressa in un saggio del 1964 da Susan Sontag, l'universo Camp è stato analizzato da Andrew Bolton per il Costume Institute di New York con il patrocinio del Gruppo Gucci.

Esagerare nel descriversi al mondo, nel gesto, nell’essere rappresentazione e scena di un teatro della vita che si sovrappone al vero, questo è Camp, oltre il genere, oltre ogni plausibile codificazione.

Non è un luogo praticato per naturale propensione, ma dalla natura umana deriva, dal bisogno di distinzione nello skyline dei sentimenti aggregativi e soggetto alla disintegrazione dei volumi più contenuti del proprio corpo per favorire le proiezioni edonistiche della mente.

L'essere umano ha incontrato la sua immagine di noi e l'ha trasformata a uso di un ideale per viverla ed esprimerla nella sua identità psicologica andando oltre l'antropologica connessione con la funzione del corpo.

Attraverso la compagnia omnicomprensiva del narcisismo è riuscito a scavalcare la nudità della funzione fisica, la sua essenza e ad ancorare al fattibile del processo di sintesi tra contenuto e contenitore la funzione dell’anima comprata irrefrenabilmente dalla forma e dalla sua immanenza.

Nella condizione Camp l’immagine dell’uomo, nella sua semantica tradizionale, si esprime nei sotterranei e nei dietro le quinte del suo animalesco universo per accentuarsi nelle architetture di Narciso.

La mostra del MET approccia i 300 anni di storia del costume dove la germinazione dei volumi e gli aspetti tonali e concreti della traccia paesaggistica dell’uomo si sono avvicendati per raccontare i contrasti alla regola e la sudditanza alla natura del Camp.

Non si parla di colore per l'esercizio della scoperta cromatica conoscitiva dell'armonia, ma per il fatto che sia colore e accorciamento delle distanze tra le figure di chi osserva e di chi manifesta. Non si parla di forma per il volume che si pone nello spazio rispetto alle linee della proporzione del creato, ma si parla di un'occupazione dello spazio a prescindere. Non si parla di materia per la forza dell'energia che la natura giustapposta provoca al corpo, ma per la forza che la natura corrotta dal suo riflesso in uno specchio induce a materializzare fuori da noi.

Tra i principali interpreti del Camp vi è il “solo”: colui che nella naturale solitudine di un'esperienza estetica estrema si scollega a tutte le funzioni utili per astrarsi dalla condizione sociale della normalità e assurgere allo status di icona.

Nel Camp la professione dell'esteta non si manifesta nel trattato semantico dell'uomo nell'etica della natura, ma per la supplenza alla parola che dona al decorativismo la forza del racconto per immagini e che non ha nulla a che vedere con il concetto di “decoro”.

L'identificazione con la scena creata dal corpo dell'abito è quanto di più progettato si possa esprimere dell'essere umano caldo che pompa sangue, pensieri e sentimenti.

La pratica dell'astrazione dalle cose ludiche non è una condizione richiesta allo spirito, è sempre una scelta. Lo spirito può collegarsi all'innaturale che vi si manifesta per il piacere e per il senso di sopraffazione che si genera in chi ne fruisce.

Essere è dunque una condizione della natura che viene persa dalla difficoltà cognitiva che si ha di sé e delega le funzioni del ruolo e del tono che appartengono all'uomo, per naturale condizione, attraverso il camuffamento del fisico perché sia la semantica di un discorso che in altra misura non si riesce a sostenere.

Tale aspetto del Camp è quanto di più vicino al vero di ciò che attraversa il nostro momento storico. La sclerotizzazione delle idee su un concetto di mera vendita quantitativa ha esautorato la bellezza da ogni suo incarico in favore dell'accumulo.

Quanto accaduto la notte del 6 maggio, all'inaugurazione della mostra Camp Notes On Fashion, al Metropolitan Museum, è sintomatico di una vacuità dello spirito e perdita dell'armonia tra l'essere e l'osservare in funzione di apprendere attraverso la scoperta delle “qualità estetiche”.

Gli invitati al MET BAL 2019 hanno disintegrato il rapporto di distanza tra ciò che si osserva di una mostra e ciò che è l'osservatore. Recarsi alla serata in costumi dallo spudorato gusto Camp ha spostato l'attenzione su ciò che stava fuori le logiche curatoriali del Costume Institute di New York.

Non vedo perchè si debba andare a una mostra sul costume vestiti come il tema della mostra.

(Anna Wintour)

Il Camp ha esondato e dal 6 maggio governerà l'olimpo morfologico, sonoro e timbrico di chi ad esso si è riferito e da chi da esso vuole fuggire e ciò che si comprenderà sarà l'unica attesa di verità: essere.

Susan Sontag: Note sul Camp (estratto) Molte cose al mondo non hanno un nome, e molte, anche se il nome ce l’hanno, non sono mai state descritte. Una di queste è la sensibilità - inconfondibilmente moderna, una variante della sofisticazione, anche se difficilmente con essa si identifica - che va sotto il nome di Camp.

Una sensibilità (in quanto distinta da un’idea) è fra le cose di cui è più difficile parlare, e tuttavia ci sono ragioni particolari per le quali del Camp non si è sinora parlato. Non è un genere di sensibilità naturale, ammesso che esista una sensibilità naturale. L’essenza del Camp è anzi il suo amore dell’innaturale, dell’artificio e dell’eccesso. Per di più il Camp è esoterico, è una specie di cifrario privato, una sorta di segno di riconoscimento fra ristrette cerchie urbane.

A parte due pigre pagine nel romanzo Il mondo di sera (1954) di Christopher Isherwood, non è quasi mai arrivato alla stampa. Parlare del Camp equivale perciò a tradirlo. Ora, un tradimento può essere difeso per l’edificazione che apporta, o per la dignità del conflitto in cui sfocia.

Personalmente, adduco a scusanti il fine dell’autoedificazione, e lo stimolo di un aspro conflitto nella mia sensibilità. Sono infatti enormemente attratta dal Camp, e ne sono quasi altrettanto offesa.

È per questo che voglio e posso parlarne. Perché chi si riconosce pienamente in una data sensibilità non può analizzarla; qualunque siano le sue intenzioni, può solo esibirla. Dare un nome a una sensibilità, tracciarne i contorni e raccontarne la storia richiede invece una profonda empatia, corretta da un senso di repulsione.

Benché si parli qui di pura sensibilità - e di una sensibilità che, tra le altre cose, muta il serio in frivolo - si parla purtuttavia di faccende importanti. I più considerano la sensibilità o il gusto come un universo di preferenze puramente soggettive, di attrazioni misteriose, soprattutto sensuali, non assoggettate alla sovranità della ragione. Ammettono che le considerazioni di gusto influiscono sulle loro reazioni di fronte alla gente o alle opere d’arte. Ma il loro è un atteggiamento ingenuo. Anche peggio. Guardare con condiscendenza alla facoltà del gusto significa fare lo stesso con se stessi.

È infatti il gusto che governa ogni libera reazione umana, ossia ogni reazione la quale contravvenga all’automatismo. E non c’è nulla di più decisivo. C’è un gusto per le persone, un gusto visivo, un gusto per i sentimenti; c’è anche un gusto per le azioni, e per la moralità. Anche l’intelligenza è una forma di gusto: è il gusto per le idee. (Uno dei fatti da tenere in considerazione è, però, che il gusto tende a svilupparsi in modo molto ineguale. È raro che una stessa persona abbia gusto visivo, per le persone e pure per le idee.)

Il gusto non si può circoscrivere con un sistema, e nemmeno lo si può dimostrare. Ma ha una sorta di logica, ossia la coerenza di sensibilità che lo sottende, e lo produce. Una sensibilità è quasi, ma non del tutto, ineffabile. Una sensibilità che si lasci imprigionare nello stampo di un sistema o modellare dagli indelicati utensili della prova, non è più una sensibilità. Si è cristallizzata in un’idea…

Per intrappolare con le parole una sensibilità, specialmente se è viva e vigorosa, occorre dunque essere guardinghi e svelti. La forma di una serie d’appunti mi è parsa più adatta del saggio (che richiede un’argomentazione lineare e consecutiva) ad annotare qualche aspetto di questa sensibilità così peculiare ed elusiva. È imbarazzante parlare del Camp con toni solenni o epidittici. Si corre a propria volta il rischio di produrre un esempio scadente di Camp.