L'agnocasto (Vitex agnus-castus – Fam. Verbenaceae) è un arbusto o un piccolo albero caducifoglio, alto fino a 5 metri, caratterizzato da un intenso e gradevole odore aromatico, emanato da ogni sua parte. Presenta dei fusti eretti, striati, con rami giovani pubescenti, di forma quadrangolare. Le foglie sono opposte, palmato-digitate, con 5-7 lacinie lanceolato-acute, intere, lunghe 5-10 centimetri, verde-glauche sulla pagina superiore e bianco-tomentose su quella inferiore.

I fiori, riuniti a formare delle infiorescenze terminali spiciformi o a pannocchia, lunghe fino a 30 centimetri, sono provvisti di corolle bilabiate di colore violaceo o roseo (raramente bianco), lunghe 5-7 millimetri, con stami lungamente sporgenti.

I frutti sono costituiti da piccole drupe, globose, larghe 3-5 millimetri, di colore nero-rossastro. Cresce spontaneamente in tutta la regione mediterranea e predilige i luoghi umidi costieri e gli alvei fluviali; purtroppo, la degradazione degli ambienti ha influito negativamente sulla sua diffusione.

L’aspetto vigoroso e la bellezza delle infiorescenze giustificano la sua coltivazione come pianta ornamentale.

Storia, miti e leggende

L'etimologia del nome scientifico di questa pianta è legata, per quanto riguarda il genere, al latino vitex, nel significato di vite, mentre per la specie dal greco ágnos, inteso come hagnós, casto, sterile (privo di prole); infatti, sin dall'antichità l'agnocasto è stato considerato un simbolo di rettitudine e castità.

Perfino nella farmacopea egiziana era impiegato come rimedio per calmare gli “eccessi sessuali”; infatti, i suoi frutti erano chiamati hhabbelfagad, cioè “semi della perdita”.

Secondo Dioscoride, le sacerdotesse di Demetra, dea delle piante e preservatrice della fertilità del terreno e della fecondità femminile, per preservare la loro castità e assicurarsi un sonno privo di sogni impuri, erano solite ornarsi i capelli con i fiori di questa pianta e dormire su sacchi riempiti delle sue foglie.

Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, scrive che frammenti di questa pianta venivano sparsi sui letti o deposti nei cuscini delle donne ateniesi, per garantire la loro fedeltà quando i mariti andavano in guerra. In antichità si attribuiva una particolare importanza a tali pratiche; infatti, i giacigli realizzati con materiali vegetali non erano una scelta dettata dall'oggettiva mancanza di alternative più comode e pregiate, ma dalla consapevolezza di poter sfruttare le proprietà curative delle piante attraverso un prolungato contatto notturno.

Tra i materiali più utilizzati per le imbottiture, oltre al classico crine vegetale (fibre estratte da diverse palme o altri vegetali), alle foglie di mais e a un numero imprecisato di piante medicinali, erano impiegate anche le fronde delle felci, considerate un ottimo rimedio per contrastare i dolori reumatici e gli “effluvi negativi” rilasciati dal terreno (campi magnetici terrestri). Queste rudimentali applicazioni di geobiologia possono trovare una spiegazione nel fatto che le felci possiedono una marcata capacità di assorbire radionucleotidi dal terreno e secondo alcuni studiosi, un rilascio graduale di bassissimi livelli di radioattività potrebbe esercitare un effetto curativo riducendo dolori, gonfiori, stati infiammatori e sintomi artritici. In ambito tossicologico, la teoria secondo la quale l'esposizione a bassi livelli di radioattività o di altre sostanze stimola le difese naturali dell'organismo si chiama “ormesi”.

Le nostre nonne erano solite confezionare dei guanciali imbottiti con petali di rosa o fiori di lavanda, per stimolare un sonno profondo e ristoratore. È un fatto positivo che negli ultimi anni siano tornati di moda cuscini di varie forme e grandezze, realizzati con la pula di grano saraceno, noccioli di ciliegia, semi di farro o di lino, da scaldare (o raffreddare) e applicare localmente in caso di dolori cervicali, traumi e contusioni.

I giacigli per la notte preparati con le sommità fiorite di agnocasto sfruttano i principi dell'aromaterapia: gli effluvi odorosi dei fiori svolgono un'azione calmante e rilassante. Non a caso, l’olio essenziale che si ottiene dalle foglie, per distillazione in corrente di vapore, regolarizza gli stati di ansia e di agitazione, e a dosaggi elevati, determina un’azione depressiva sul sistema nervoso centrale.

L’azione anafrodisiaca dell’agnocasto è stata menzionata, nel corso del tempo, da diversi autori tra cui il già citato Dioscoride, il quale affermava che: “Secca lo sperma, offende la testa e favorisce il sonno” e Pietro Andrea Mattioli, medico e botanico del Cinquecento, che nel suo erbario figurato scrive: “Costringe gli impeti di Venere tanto mangiato fritto quanto crudo… si crede che non solamente mangiandosene o bevendosene faccia gli uomini casti ma ancor giacendovisi“. Anche Arnaldo di Villanova (medico e alchimista, vissuto nel XIII secolo) affermava che bastava portare con sé un coltello provvisto di un manico in legno di agnocasto per allontanare ogni pensiero voluttuoso.

Questa visione simbolica, fondata su un processo di magia simpatetica, sembra molto lontana dalla visione positivistica della scienza moderna, ma in passato la vicinanza e il contatto con il mondo vegetale rappresentavano uno strumento di guarigione molto in voga. Ad esempio, la “dendroterapia” (dal greco dendros, albero) contemplava l’utilizzo di legni trasformati in amuleti, talismani e oggetti con finalità terapeutiche.

Non a caso, il legno per la costruzione dei letti spesso era ricavato dal faggio, albero di “segnatura saturnina,” che aiutava a proteggere le ossa, mentre le colonne dei templi erano realizzate con i tronchi del cipresso, albero considerato sacro e adatto ai luoghi di culto.

Secondo la spagyria l’uso ricorrente dell'agnocasto come calmante e anafrodisiaco è dettato da una segnatura planetaria legata all’influenza raffreddante di Saturno, ma allo stesso tempo le sue proprietà benefiche, connesse soprattutto alla sfera femminile, risentono anche della segnatura di Venere, intesa, in questo caso, non come essenza dell'amore sensuale, ma come dea castigata, nel pieno della sua “influenza muliebre”, che dona alla pianta un’energia fredda e umida.

La teoria della “segnatura” (o signatura), che ha caratterizzato un lungo periodo della storia dell’erboristeria, era fondata sulla ricerca dei "segni": tramite l'analisi delle forme e dei colori vegetali che per similitudine potevano essere comparati alle varie parti del corpo umano, si potevano trarre indicazioni sui possibili impieghi terapeutici.

Sono molti gli esempi che depongono a favore di questa visione che, lungi dall'essere considerata solo frutto d’ignoranza e superstizione medievale, rivela la capacità di osservare il mondo naturale in maniera analogica e intuitiva. La foglia della Salvia officinalis, ad esempio, richiama la forma e la superficie di una lingua, pertanto è adatta alla cura dell'apparato orofarigeo (tale proprietà ha trovato conferma scientifica); il succo della Chelidonia maius ha un colore simile a quello della bile e, in effetti, è un'efficace coleretico; mentre il gheriglio della noce, che ricorda i due emisferi del cervello, essendo una fonte privilegiata di acidi grassi omega-3, rappresenta un alimento adatto a nutrire i neuroni e a preservarne la funzionalità.

Indicazioni interessanti sulla forza vitale di una pianta emergono anche dalla conformazione delle infiorescenze e dalla posizione dei fiori, che possono disporsi in senso orario o antiorario in base all'espressione di un'energia centripeta o centrifuga.

Alla luce di queste interpretazioni simboliche il colore dei fiori dell'agnocasto (simile a quello della malva) esercita un potere calmante, antinfiammatorio e lenitivo. Mentre i suoi semi, nonostante siano aromatici, non hanno una valenza riscaldante e speziata; inoltre, seccati e polverizzati sono un ottimo concime per consolidare le radici di piante sensibili all'influenza “venusina” come le rose, per la contiguità con Venere già citata.

Anche durante il Medioevo, l'agnocasto si rivelava utile a coloro che facevano voto di castità e per questo motivo era largamente coltivato nei giardini dei monasteri: i religiosi ne mangiavano direttamente le foglie e i frutti. Con le stesse finalità i rami, particolarmente flessibili, venivano intrecciati a forma di cintura da indossare sotto il saio.

Nell'antica tradizione erboristica, d’ispirazione monastica, questa pianta era chiamata serapione pepe, un appellativo riconducibile, secondo alcuni autori, a Serapione il Giovane, un medico arabo vissuto in Marocco e nella Spagna del XII secolo, autore del De simplici medicina (conosciuto anche come Liber Serapionis) oppure a Serapione di Alessandria vissuto nel II secolo a.C., fondatore della scuola empirica (scuola medica dell'antica Grecia).

Per lungo tempo i semi, essiccati e polverizzati, sono stati usati come succedaneo del pepe vero, per aromatizzare le pietanze: da qui l’appellativo di “pepe dei monaci”. Oltre alle proprietà già menzionate e particolarmente utili a chi decideva di rinunciare alle attrazioni mondane, per dedicarsi a una vita contemplativa, bisogna considerare il fatto che il pepe vero (Piper nigrum L.) era una spezia estremamente costosa; basti pensare che in alcuni momenti storici 300 grammi di questo composto vegetale valevano, in termini di potere di acquisto, la somma necessaria per aggiudicarsi un intero maiale.

Essenze, acque distillate e “sciroppi di castità”, ricavati da questa pianta, sono stati utilizzati, a vario titolo fino a tutto l'800.

L'agnocasto era chiamato anche “legno santo” e veniva raccolto durante la notte San Giovanni, insieme ad altre piante ed erbe aromatiche, per la cura del corpo e dello spirito; le sue infiorescenze erano utilizzate nella preparazione delle corone floreali indossate duranti i riti dedicati al solstizio d'estate. Nelle campagne, con il suo legno, era diffusa l’usanza di fabbricare manici di coltelli e strumenti da impiegare per castrare gli animali.

Negli antichi ricettari è indicato come rimedio in caso di avvelenamento, morsi di serpenti e punture di ragni; trovava impiego (insieme all'assenzio e ai chiodi di garofano) anche nella lotta agli insetti dannosi, per conservare mobili, libri, tessuti e pellami. I rami di agnocasto presentano una flessibilità e una leggerezza (simili a quelle del pioppo, salice e tiglio) adatte alla lavorazione di panieri, cesti e rivestimenti di giare (usanza già citava da Vitruvio).

Usi alimentari e officinali

L'intera pianta (soprattutto i frutti) è ricca di principi attivi, tra cui flavonoidi (in particolare casticina e vitexina), iridoidi, principi amari, olio essenziale (ricco di pinene e cineolo), diterpeni (alcuni dei quali simili per struttura agli ormoni sessuali), saponine e alcaloidi (tra cui viticina).

Secondo Galeno sono numerosi i germogli che si prestano a essere utilizzati in cucina, tra cui quelli dell'agnocasto, i quali, raccolti in tarda primavera, possono essere consumati, dopo una breve bollitura, conditi con olio extravergine d'oliva, limone e sale. Trovano impiego anche come contorno per accompagnare piatti di carne, pesce, verdure e legumi oppure nella preparazione di salse, risotti, frittate, zuppe e torte salate. A causa del loro sapore amarognolo e spiccatamente aromatico, devono essere impiegati in piccole quantità, ponderate in base ai gusti personali.

I frutti maturi, dall'aroma vagamente simile al pepe, sono ottimi per valorizzare minestre, brodi, bolliti di carne e verdure, dolci, torte e creme.

In fitoterapia l'agnocasto è utilizzato generalmente sotto forma di polvere, decotto, tintura ed estratto. Fin dai tempi più remoti è stato apprezzato per le sue proprietà sedative, emmenagoghe, antispasmodiche, antibiotiche e anafrodisiache.

Ippocrate consigliava questa pianta in caso di lesioni e infiammazioni, mentre Dioscoride è stato uno dei primi medici a utilizzarla per i suoi effetti positivi sul sistema riproduttivo femminile; infatti, lo raccomandava durante l'allattamento e nei parti difficili, per espellere la placenta e tamponare eventuali emorragie. L'agnocasto promuove effetti favorevoli al bilanciamento degli ormoni femminili, utile per stimolare l'ovulazione (aumenta la produzione dell'ormone luteinizzante e i livelli di progesterone) e compensare i sintomi premestruali (cefalea, tensione mammaria, gonfiore addominale, cefalea, stanchezza, irritabilità, ansia, ecc.) e della menopausa (vampate di calore, sudorazione notturna, ritenzione idrica, insonnia, disturbi dell'umore, ecc.).

Nell’ambito della gemmoterapia trova impiego in caso di alterazione della normale funzione fisiologica del ciclo femminile e negli squilibri endocrini legati alla menopausa che si manifestano con sonno inquieto, sbalzi di umore e depressione. In virtù della sua azione ormonale l'impiego di questa pianta è sconsigliato in caso di gravidanza, allattamento e in concomitanza a terapie ormonali sostitutive, fecondazione artificiale (può ostacolare l'annidamento dell'embrione) e farmaci come la pillola contraccettiva.

A questo proposito è bene evitare qualsiasi forma di automedicazione e prima di assumere prodotti erboristici a base di questa pianta è necessario consultare il proprio medico curante oppure un farmacista o un erborista di fiducia.

L'uso alimentare di germogli, foglie e frutti non causa alcun effetto indesiderato, salvo potenziali reazioni allergiche, dovute a una marcata sensibilità personale, ma questa indicazione vale per qualsiasi assunzione di sostanze naturali o di sintesi.

Tratto da Cultura e salute dalle piante selvatiche. Le gemme e i germogli, di Maurizio Di Massimo e Sandro Di Massimo, Aboca Edizioni.