Il filosofo francese Paul Virilio, recentemente scomparso, ha incentrato gran parte della sua ricerca, e delle sue riflessioni, sul tema della velocità e del potere, arrivando a definire una nuova scienza, la dromologia, "la scienza (o la logica) della velocità".

Se si osserva sotto questo profilo la storia umana più recente, ci si rende agevolmente conto di come la velocità dei cambiamenti determinati dalla evoluzione tecnologica abbia raggiunto una soglia assai critica. Il costante sviluppo di nuove tecnologie, sempre più ‘invasive’ rispetto alla sfera umana e sociale, produce infatti una crescente difficoltà di ‘padroneggiarle’, sia sotto il profilo psicologico che culturale. Basti pensare a quanto è durata l’era della meccanica, e quindi riflettere sull’arco di tempo multigenerazionale che abbiamo avuto per ‘metabolizzarne’ gli effetti sulla nostra vita, e poi paragonarla all’era dell’elettronica (che si può considerare ‘nata’ nel 1906, con la realizzazione del triodo a vuoto di Lee De Forest), a sua volta ‘superata’ dall’era digitale.

Ciascuna di queste innovazioni tecnologiche ha avuto un impatto notevolissimo, sulla vita degli esseri umani, determinando in essi la necessità di adattare la propria sfera psicologica al nuovo contesto ‘ambientale’. Ma la velocità con cui questi ‘scatti paradigmatici’ si susseguono è profondamente diversa, e quindi diversa risulta la capacità di adattamento degli umani. In poche parole, stiamo cambiando il mondo a una velocità tale che noi stessi stentiamo a ‘gestire’ psicologicamente.

Una delle conseguenze più macroscopiche dell’era digitale, è quel fenomeno che chiamiamo globalizzazione. Come dice la parola stessa, l’essenza di questo fenomeno è l’espansione planetaria della nostra sfera esistenziale, in un modo e in una misura inconcepibili solo poco tempo prima. Di fatto - pur all’interno di una ancor considerevole mole di contraddizioni - globalizzazione è la dimensione esistenziale dell’ubiquità.

In qualsiasi istante, la nostra esperienza di vita - il nostro volto, la nostra voce, i nostri pensieri - può essere resa ‘presente’ non solo a migliaia di chilometri, ma anche in migliaia di luoghi diversi, contemporaneamente. E, viceversa, la vita di miliardi di persone può, potenzialmente, entrare in qualche forma anche nella nostra, simultaneamente. E tutto questo può accadere anche nella totale assenza di qualsivoglia consapevolezza, e persino di qualsiasi (esplicita) volontà.

Ho scritto in passato a proposito della relazione tra arte e ubiquità. Ma ovviamente questa relazione investe l’intera sfera dell’esistenza umana. Sia pure in forme diverse.

Le due forme più considerevoli, e al tempo stesso più diverse l’una dall’altra, di questa ubiquità, sono l’esplosione della mobilità umana e la circolazione dei ‘personal data’. Ovviamente, la storia umana è sempre stata segnata da migrazioni, anche di massa. Se pure in tali epoche storiche le popolazioni erano di gran lunga più ridotte, non è stato un fenomeno infrequente quello di interi popoli che si spostavano - pacificamente, o più spesso armi alla mano - verso territori anche assai lontani.

Quel che sappiamo oggi dalla genetica - ma che possiamo desumere anche da una osservazione empirica - è che le migrazioni, con la conseguente ‘miscela’ di popoli che ne conseguiva, sono state una delle cause del progresso culturale umano. Non solo perché sono state veicolo per portare le innovazioni lontano dai luoghi in cui sono state inizialmente sperimentate, ma proprio perché la ricchezza genetica, la varietà culturale, sono tra gli elementi che più contribuiscono alla dinamicità sociale. Basti pensare - appunto, empiricamente - all’Italia e agli Stati Uniti. Pur ovviamente nelle profonde differenze. Ed è singolare che oggi, in Italia, la maggiore ostilità contro le migrazioni venga proprio da chi, sino a ieri, rivendicava orgogliosamente - peraltro anche alquanto impropriamente... - una lontana discendenza ‘celtica’, ovvero esattamente da una popolazione non autoctona.

Ma se oggi il fenomeno delle migrazioni è riesploso, non è direttamente riconducibile al fenomeno della globalizzazione - anche se, indirettamente, lo è invece molto... Quella che invece ne è diretta conseguenza è la forma di ‘migrazione temporanea’ che chiamiamo turismo. Oggi forse l’unica industria globale (appunto) che registri un costante incremento, in termini di persone viaggianti e di fatturato. Anche questa ‘vocazione ubiquitaria’ ha ovviamente innumerevoli - e contraddittori - aspetti, come la gentrificazione di alcune città. Che si manifesta non solo nella espulsione massiccia degli abitanti dai centri storici, per far posto a strutture ricettive (a innescare l’accelerazione di questo processo è stata Airbnb, tipico esempio del ‘capitalismo di piattaforma’ dell’era digitale), ma anche nella trasformazione delle città in gusci vuoti, in mere rappresentazioni scenografiche di se stesse. Il caso Venezia ne è forse il paradigma più eclatante, ma non l’unico; anche Valencia è sulla stessa strada... Questo fenomeno è spesso talmente veloce da configurarsi come violento, generando reazioni difensive, come la nascita della ‘rete’ SET, oggi arrivata anche in Italia.

Ben oltre la mobilità fisica, si colloca l’ubiquità virtuale. C’è un livello semi-consapevole in cui questa si manifesta, ed è quello dei social network, su cui riversiamo una quantità infinita di informazioni relative alla nostra vita quotidiana - dove siamo, cosa facciamo, cosa pensiamo, cosa ci piace... Ma c’è anche un livello inconsapevole, ed è quello dei nostri dati digitali, che sono costantemente aggiornati da innumerevoli strumenti d’uso quotidiano - una ricerca su Google, un acquisto con la carta di credito, la geolocalizzazione dello smartphone, un prelievo bancomat... Una gigantesca banca dati in continua evoluzione, e potenzialmente in grado di ‘profilarci’ dettagliatamente - in pratica una schedatura di massa, e al tempo stesso un panopticon digitale planetario - che rendono la vita di ciascuno (la sua ‘essenza informativa’) in continuo transito lungo le dorsali telematiche che innervano il globo, condivise tra server allocati agli antipodi dal nostro luogo di residenza.

Una tendenza, questa del controllo digitale pervasivo, che sembra affermarsi sempre più, e in misura sempre più ampia e profonda. Basti pensare a come, in questi giorni, viene delineandosi il sistema di erogazione del cosiddetto ‘reddito di cittadinanza’: tutto passerà attraverso sistemi digitali in grado di verificare cosa verrà acquistato (e di impedire alcuni acquisti) e dove, per un importo che dovrà essere forzatamente speso per intero nell’arco del mese, e con la possibilità che acquisti ‘sospetti’ determinino ispezioni della Guardia di Finanza...

Laddove non siamo fisicamente, lo siamo virtualmente. 15 anni fa, la società americana LInden Lab lanciò Second Life, un mondo virtuale in cui ciascuno - impersonato da un avatar digitale - poteva ‘vivere’ - appunto - una seconda vita parallela, virtuale. La realtà ‘reale’ ci dice oggi che c’è una nostra vita che lascia una traccia indelebile di sé, e che si svolge in un universo parallelo fatto esclusivamente di dati, regolato da automatismi algoritmici, e di cui abbiamo solo una vaga consapevolezza. Mentre nell’universo analogico le tracce della nostra presenza sono assai evanescenti, in quell’altro sono estremamente persistenti. Laddove ogni nostra attività è segnata dal limite invalicabile del tempo, nell’altrove il limite scompare. Per quanto acceleri il mondo intorno a noi, la velocità umana rimane uguale, ma i bit fanno il giro del mondo in un istante. Mentre la vita analogica si svolge in spazi sostanzialmente delimitati, quell’altra si espande indefinitamente.

Abbiamo una vita ubiqua, che come un'ombra ci appartiene ma che si svolge al di fuori di noi. E con questa ubiquità dell’essere, dovremo prima o poi fare seriamente i conti.