Settanta anni fa veniva pubblicato 1984, il profetico romanzo di George Orwell. Lo scrittore immaginava un tragico futuro dal quale lo separavano solo trentacinque anni. Ce ne sono voluti il doppio, settanta, perché la tragedia immaginata diventasse attuale realtà, con una leggera differenza tra la finzione del romanzo e il nostro fosco inizio di terzo millennio: che il protagonista Winston Smith ha consapevolezza della schiavitù alla quale è sottoposto, mentre noi, figli del Duemila, dominati dalla rete, di questo stato di captività non riusciamo ad avere che rarissimi barlumi di coscienza.

Strumento di dominio del “grande fratello”, che tutto vede e tutto sa, nella opprimente Londra di Orwell, è quella che viene chiamata neolingua. Chi gestisce il potere ha creato una nuova lingua e un nuovo vocabolario estremamente essenziali e scarni, riducendo drasticamente al minimo indispensabile il numero delle parole. Questa estrema povertà lessicale azzera le capacità logiche dell’uomo e la possibilità di articolare ragionamenti complessi, impedendo la concentrazione e la riflessione, distruggendo la memoria personale e collettiva.

Winston Smith, per quanto si forzi, non riesce a ricordare nulla del suo passato e ha solo la sensazione che nella sua coscienza si annidino piccoli residui di ricordi di un tempo che non esiste più. “Il passato – scrive Orwell - non era stato modificato, era stato annullato”.

L’unico riferimento al passato può trovarsi solo nella coscienza sottoposta, però, a un ottundimento prodotto dal ritmo delle informazioni imposte da grandi schermi posti in ogni casa; teleschermi interattivi che danno notizie e controllano tutti, imponendo anche il quotidiano momento di ginnastica. Il primo atto di intima ribellione, del quale il protagonista sa bene che sarà punito, è quello di mettersi a scrivere a mano su un quaderno che per caso ha trovato a casa. E lo fa cercando di nascondersi al controllo del teleschermo domestico. Il tentativo di Winston Smith di sottrarsi a questo giogo fallirà; si troverà allineato alle regole volute dal regime.

Oggi, settanta anni dopo, si è affermata una neolingua sinistramente somigliante a quella che domina nella società descritta in 1984. Il ritmo, quel ritmo che nel mondo del romanzo finisce per ottundere le coscienze degli uomini, oggi si va affermando incontrastato. È il ritmo inarrestabile della televisione; è il ritmo dell’information overflow che ci piove quotidianamente addosso dai media, dalla rete, dai social; è il ritmo imposto dal continuo segnalarci dei nostri cellulari che è in arrivo l’ennesimo whatsapp; è il ritmo dei games più diffusi che ipnotizzano. È un ritmo fluido e continuo magmatico e invasivo, che se non ottunde la coscienza, come accade al protagonista del romanzo, impedisce certamente la riflessione.

Viviamo una nuova fase di horror vacui, per il quale i pochi centimetri cubi del cervello, per usare un’espressione di Orwell, devono sempre essere occupati e martellati dal ritmo. La nostra attuale “neolingua” domina nei cellulari facendosi essenziale e scarna proprio come quella del romanzo 1984: è una lingua alfanumerica, figurata, ellittica, automatica, sincopata, fatta di simboli e di segni che dovrebbero esprimere sentimenti e sensazioni, con disegni e ideogrammi costruiti con i segni di interpunzione. I cellulari, con la loro neolingua, si intromettono distruttivamente nei rapporti umani: non si riesce più a comunicare se non attraverso chat e messaggi.

Le nostre dita, che hanno imparato, guidate dal pollice, a correre sulle tastiere di questi rettangolini di plastica, non sono più in gradi di maneggiare la scrittura corsiva. Le nostre orecchie non sono possono più captare voci e rumori per strada, perché sono incapsulate nelle cuffie. I nostri occhi son riescono a guardare oltre il proprio naso, prigionieri di questi onnipotenti strumenti del sapere attuale. Giorni fa in aliscafo verso un’isola del golfo di Napoli, rapito dalla bellezza di una natura che non stanca di affascinarmi, osservavo due ragazze straniere che invece di godersi l’incanto di quella traversata avevano gli occhi fissi sullo schermo dei loro piccoli tablet.

Il dramma sociale che George Orwell vedeva nel futuro è arrivato; con trentacinque anni di ritardo, ma è arrivato!