Classe 1924, in famiglia anche quattro sorelle e tre fratelli, sanvittorese da sempre. Pino Roveda da San Vittore Olona, appunto, perché un nome e un luogo bastano da sempre per identificare grandi pittori e artisti (Guido d’Arezzo…) e non a caso le vicende personali si intrecciano con quelle della sua comunità. Momenti belli e tragedie collettive tutti vissuti in prima persona.

Il legame alla sua famiglia e al suo paese d’origine sono fortissimi, mai come zavorra bensì humus nel quale è nata, è cresciuta e ha potuto trovare libera espressione la sua passione per la pittura. E che non gli hanno impedito di vivere con equilibrio una vita persino avventurosa. Ogni pretesto diventa una ghiotta occasione per farcela raccontare. Precoce il nascere dello spunto pittorico e lucidissima la sua percezione.

Avevo cinque anni quando la mia famiglia si era trasferita nel cortile dove vivevano le famiglie Vignati e Tizzani di fianco alla Chiesa Parrocchiale, dove oggi c’è la sede dell’Unione Sportiva e della Cinque Mulini. Lì, dove abbiamo vissuto per un periodo di quattro anni, mi era capitato di osservare il pittore Beppe Zago che era venuto in visita ai parenti e una volta si era messo a dipingere in cortile. Era lo zio materno dell’architetto Vittorio Salmoiraghi che in paese è molto conosciuto. Era stato il primo pittore che vedevo all’opera! Mi aveva affascinato il suo modo di dipingere, diverso da come mi sarei immaginato. Dipingeva dei puntini …e più tardi ho scoperto che faceva parte dei divisionisti un movimento di avanguardia ed era famoso. A sette anni mi costruivo da solo i cavalletti perché già dipingevo. In quegli anni quel cortile era molto vivo, da lì seguii in diretta i lavori di costruzione e vidi applicare il rivestimento in mattonelle della chiesa e del campanile che erano stati costruiti in cemento armato, assoluta novità per l’epoca. Poi arrivarono le campane e, per accoglierle, noi del cortile realizzammo il carro più grande. Passavo molto tempo davanti alla vetrina della bottega del Cesarino nella corte dei Morelli in Corso Sempione perché vendeva i colori. In particolare delle matite Giotto oltre ai colori mi piaceva anche il profumo del legno. Andando all’Oratorio e poi a dottrina nella Chiesetta di San Giovanni che dopo la demolizione della vecchia Parrocchiale, avvenuto nel 1921, funse da Chiesa, una volta vidi il Prof. Ernesto Ornati che stava utilizzando una base di cemento e paglia per preparare il fondo su cui stendere l’intonaco. Gli serviva per affrescare la Natività poi posizionata nell’edicola votiva in Corso Sempione. Ero rimasto stupito, non pensavo si potesse eseguire un’affresco in studio. Più tardi accompagnando il parroco don Magni a Milano nello studio del professore vidi anche la tela con lo studio originale partendo dal quale era stato poi eseguito l’affresco. Un altro momento significativo mi capitò quando, passando in bicicletta dove oggi c’è la discoteca Maggie’s Park, vidi il pittore Piero Giunni che aveva posizionato il suo cavalletto en plein air e stava dipingendo un campo di grano con la nostra chiesa sullo sfondo. Giunni era un pittore famoso, le sue opere sono spesso esposte anche oggi alla Galleria d'arte Ponte Rosso a Brera. Qui in paese aveva uno studio ai Mulini ed inoltre ha affrescato le stagioni nel Palazzo Lazzati dove una volta lo vidi con la coppa vinta in un concorso di pittura nelle Langhe. Questi tre pittori mi ricordano episodi incancellabili. Impossibile comunque non citare i Ludi Giovanili e il Prof. Emilio Rodegher scultore di Rho del primo '900, che insegnava applicazioni tecniche nella mia scuola. Fu lui a spingermi a partecipare al primo concorso di pittura a Milano. Quella volta il vincitore fu il pittore Roberto Crippa che aveva qualche anno più di me ed era già iscritto a Brera. Crippa era un tipo molto volitivo e si stava già affermando come pittore. Era un aviatore e ricordo che morì in un incidente con il suo aereo.

Un crocevia di artisti molto ben frequentato questo piccolo paese. Ecco i primi quadri.

Mi ricordo del bozzetto del mio primo quadro fatto all’età di diciassette anni. Una vista della Chiesetta di Santo Stefano con neve, carta a gessetti colorati poi regalata a don Magni e il primo quadro che ho venduto, raffigurante la Cena di Emmaus, partecipando a una mostra di arte sacra presso il convento dei frati di Piazza Sant’Angelo a Milano. Poiché minorenne non volevano accettarlo. La domenica successiva mi recai per vedere la mostra assieme ai miei genitori. Appena entrati ci avvicinammo al quadro. Un’incaricata credendoci intenzionati ad acquistarlo si premurò di avvisarci che era già stato venduto…

Poi purtroppo l’imprevista parentesi della guerra e del campo di concentramento.

Dovetti interrompere gli studi all’Accademia di Brera perché chiamato alle armi. Mi sarebbe piaciuto entrare in aviazione. Ero stato invece arruolato nel V Genio Telegrafisti ed ero di stanza a Pistoia. L’otto settembre del ’43 cercammo di rientrare e riuscimmo a salire su un treno quando a Reggio Emilia ci fermarono e ci dissero che ci avrebbero dirottati verso Verona. Quando continuammo a procedere verso nord capimmo che la destinazione era un’altra. Eravamo in quarantacinque chiusi in un vagone bestiame, viaggiammo per otto giorni senza mangiare e quando arrivai mi ricordo di essere svenuto. Finii in un campo di concentramento in Germania a Osterode am Harz nella Bassa Sassonia con qualche diversivo a Colonia a smontare automobili negli stabilimenti Ford. Noi italiani non ricevevamo pacchi attraverso la Croce Rossa Internazionale come invece accadeva a polacchi e francesi dei campi confinanti con il nostro. Proprio attraverso la rete di recinzione del campo polacco riuscii a procurarmi dei colori con cui dipinsi un’icona della Madonna di Czestochowa. Chissà dove è finita… Quando l’undici aprile del ’45 arrivarono gli americani siccome ci stavamo recando in un dormitorio violando il coprifuoco rischiammo di essere scambiati per tedeschi da una pattuglia. Ci fermarono e ci portarono al comando. Uno di loro parlava italiano. Mi ricordo che con materiali di fortuna riuscii a fare un ritratto al colonnello e questo mi fece guadagnare la possibilità di accesso al refettorio dove si poteva fare colazione con marmellata e prosciutto. Il mio rientro in Italia programmato per l’estate slittò e rimasi in Germania con gli americani fino a settembre del ’45. Una volta rientrato in Italia ebbi modo di concludere gli studi e mi diplomai a Brera.

Di diverso respiro l’esperienza vissuta a Caracas nell’allora agiato e tranquillo Venezuela di fine anni cinquanta, un Eldorado che diversamente da noi non usciva da una guerra, una sorta di California caraibica dove Pino Roveda si scopre artista eclettico.

Lavoravo presso una famosa agenzia pubblicitaria americana, Ars Publicidad. Nonostante in Italia esistesse già un settore avviato mi sentivo un pubblicitario ante litteram. Nel 1961 la Philips aveva indetto un concorso per la realizzazione di un calendario celebrativo in occasione del 150° anniversario dell’indipendenza venezuelana ottenuta con la rivoluzione di Simon Bolivar il libertador. Partecipai con un progetto e vinsi. Il mio calendario fu stampato in migliaia di copie e ricevetti in premio qualche migliaio di dollari, un bel gruzzolo per l’epoca. Anche il mio rientro in Italia capitò in un momento di crisi internazionale…

Un’esperienza meritevole di maggiore valorizzazione. Ogni volta che si mettono a tema argomenti diversi dalla pittura sembra quasi che Pino avverta il rischio di sminuire quello che considera il cuore della sua attività artistica, l’olio su tela, al quale ha dedicato la parte più consistente della sua produzione e nel quale ha espresso tutto il suo talento. Una citazione su tutte quella del critico d’arte Gianni Vianello che, firmando il catalogo della mostra personale di Pino Roveda tenutasi a Busto Arsizio nell’84 presso la Galleria d'arte "Il Calligramma", parla di un avvenuto passaggio nella sua pittura da una fase iniziale di tipo figurativo a una fase successiva più strutturata che egli ha definito come impressionismo astratto.

Effettivamente quella mostra registra il compimento di un percorso, l’esito di un’operazione sofferta perché ero attaccato alla figura. La pittura si compendia di forma e colore. Qualsiasi forma e qualsiasi colore. Un percorso di ricerca, quasi infantile, di stupore affascinato come quando vedi i personaggi di questo mondo…

Non sono mancati altri riconoscimenti come per esempio il premio del Comune di Milano.

Il tema di quel concorso era la droga. Avevo realizzato una figura astratta…

La ritrattistica e i soggetti religiosi erano sempre state tematiche praticate da Pino Roveda con grande maestria, persino con una certa facilità. Così nel 1980 l’allora parroco del paese don Giovanni Giuliani gli commissionò la decorazione di alcune pareti dell’erigendo Santuario della Beata Vergine Maria. Un bel cambio di paradigma per chi aveva sempre pensato alla pittura come olio su tela…

Per me si apriva un capitolo nuovo sotto molti punti di vista. La possibilità di lasciare qualcosa alla comunità e sviluppare un discorso che altrimenti sarebbe stato confinato nel privato. Il problema che si era presentato da subito era l’orientamento a mezzogiorno delle pareti da decorare, una situazione sfavorevole che si era venuta a creare a seguito della rotazione del progetto originario.

Poi venne il turno della Chiesa in provincia di Pavia e poi, ancora in paese, la ristrutturazione della Chiesa del Cuore Immacolato di Maria in San Giovanni. Rimpianti?

Considero un difetto quello di aver insistito a non deviarmi dai miei gusti. Se avessi trovato un maestro negli anni giovanili avrei evitato esperimenti negativi ed accelerato la mia maturazione. La mia era una famiglia numerosa e ho sempre sentito molto quelli che considero obblighi famigliari. Il mio stile di vita è stato rigoroso, poco bohèmien e questo mi ha un po’ isolato da un certo tipo di frequentazioni artistiche.

Esco da casa Roveda a tarda ora. Mi volto e vedo la luce della sua mansarda-atelier ancora accesa.