[...] «Vede, perché la propria orma resti, occorre costruire. Per farlo ci vuole il tempo che ci vuole, non un attimo. Quando sei alla base della piramide, non vedi neanche dietro l’angolo e pensi di sapere tutto, ti senti tutto. Quando arrivi in cima, capisci quanto non sai».
«Lei dalla sua vetta che cosa ha capito?».
«Che sono come il Po, che nasce sul Monviso: sorge fiumiciattolo – una pissada, come diceva l’amico Gianni Brera – poi via via incontra ruscelli e torrenti, s’ingrossa e arriva alla foce molto più grande. Gli affluenti sono le cose che ho assimilato: storia, geografia, musica, cucina. Alla fine sono diventato il Po, ma solo perché ho imparato poco. Altrimenti sarei il Rio delle Amazzoni.»
«Potrebbe ancora diventarlo».
«Al massimo potrei tentare di essere il Reno o il Danubio, ma solo per una questione di tempo».[...] (1)

Il 26 dicembre 2017 Gualtiero Marchesi ha deciso di raggiungere la sua amata moglie Antonietta e di lasciare questa Terra. Era malato, si sapeva, ma lui se ne andava in giro (quasi) come nulla fosse. La forza del carattere, come ha scritto James Hillmann, diventa manifesto soprattutto alla fine di una vita.

Il cordoglio alla sua scomparsa è stato generale, internazionale. Chi l’ha incrociato sul proprio percorso, anche solo una volta, ha avuto la voglia di “accompagnarlo” con un gesto, una parola, un ricordo. Perché le persone celebri diventano un po’ di famiglia. E nel caso del maestro Gualtiero è difficile ricordarlo prescindendo da se stessi. Mi spiego.

Per quanto mi è stato possibile constatare, Marchesi era un generoso negli approcci con il prossimo: donava con fierezza e divertimento pezzi della sua conoscenza – i suoi affluenti -, dando così pregnanza a ogni incontro. Gualtiero Marchesi era un cuoco, ma prima ancora era una persona curiosa, perciò incuriosiva facendo sì che da ogni contatto uno se ne tornasse a casa con un “affluente” nuovo. Se ci si pensa un momento, non accade con tutte le persone. Ed è forse questo che porta, chi vuole ricordarlo, a ripartire da sé, da quel piccolo o grande “affluente” lasciatogli dal maestro. Anche a sua insaputa.

A me, per esempio, ha chiarito le idee su come il talento, quando c’è, per emergere riesca a trovare vie anche improbabili.

La prima volta, di una manciata di altre, che l’ho incontrato era per un cameo da inserire in apertura del mio libro, dal quale è tratto lo scambio di battute all’inizio di quest’articolo. Avevo deciso di raccontare i grandi chef “lontani dai fornelli” al netto di ricette e dichiarazioni gastronomiche. Era il 2008, di lì a poco sarebbe iniziata l’onda lunghissima di Masterchef e dintorni con i nessi e connessi del divismo tra pentole e fuochi, questione – il divismo – sulla quale Marchesi non si soffermava se non per liquidarla con una delle sue battute: "Sa, sono nato in un paese, San Zenone Po, dove gli abitanti si dividono equamente tra cuochi e medici: i secondi curano i malanni provocati dai primi. Con queste premesse, secondo lei, un cuoco può fare la star?"

In quel primo appuntamento mi sentivo un po’ in soggezione. Di lui avevo sentito dire tante cose e una più insistente delle altre: Marchesi è un presuntuoso, egocentrico, permaloso. Insomma va saputo “prendere”. Anche se riflettendo un secondo, tutte le persone “vanno sapute prendere”, giusto?

"Maestro sono molto intimorita da lei quindi andrò all’attacco", dissi, innescando una cosa che a Marchesi piaceva assai: lo scambio serrato di battute. Quella volta non ha tirato fuori dalla tasca nessuno dei suoi bigliettini con citazioni d’autore. Era noto per questo vezzo che qualcuno gli contestava: è solo un citazionista! Vero, ma non a sproposito, per questo certe volte certi aforismi restavano memorabili. Così, giocando entrambi su piccole innocue provocazioni (Maestro perché nelle sue brigate non ci sono donne? La verità? Le femmine sono diventate pericolose. E io mi tengo alla larga.) in quell’incontro abbiamo trovato il bandolo per ricostruire un pezzetto di storia della cucina italiana senza dimenticare che “stiamo solo parlando di cuochi, cara signora, serve umiltà, anche se si è presuntuosi come me”.

Da subito i racconti si sono infarciti di sorrisi e ironia, soprattutto sua, ché gli serviva per dire quel che pensava veramente ma rendendo esteticamente più accettabili anche pensieri sconvenienti. Andava in leggerezza, senza però perdere occasione per “affondi” (quasi) filosofici. D’altra parte ripeteva spesso che “da grande” avrebbe fatto il pensatore, dato che “il cuoco non è che un bambino con poca voglia di crescere”.

Se lo ricorda il suo primo amore, gli chiesi. E per una frazione di secondo rimase spiazzato con mio sommo gaudio. Se ne accorse e da “sfidante leale” mi riconobbe il punto: “ma guarda che ricordi mi fa ripescare! l’Angelina di San Zenone!”, disse sorridendo con gli occhi. E poi: “comunque è bene che lo sappia, si ama una sola donna nella vita. Le altre servono per arrivare a “quell’unica”.

Eccolo lì Gualtiero che con un guizzo, un colpo di coda da pesce veloce del Baltico ristabilisce la rotta: la sua. E la direzione per lui non è mai stata il passato: Marchesi si dichiarava contemporaneo di se stesso, il che ha sempre significato stare nel presente, semmai anticipando il futuro. E te ne rendevi conto anche da una semplice, scanzonata chiacchiera.

In quella prima circostanza, io che mi accingevo a scrivere un’antologia di racconti “di formazione”, sono stata colpita subito da un’evidenza - la cultura di Marchesi, anomala per un cuoco, specie per i tempi in cui ha vissuto e lavorato – e poi da una specie di rivelazione incarnata nel suo percorso: il talento – appunto - quando c’è, trova qualunque strada per emergere. Lì mi son resa conto – e poi ne ho avuto conferma in altri seguenti incontri - che il vero, originario bernoccolo di Gualtiero Marchesi non era la cucina, ma la bellezza unita a una vis innovativa, dirompente: “Il bello è buono, in tutte le arti” e la “Forma è sostanza” sono due concetti che ha proposto mille volte, come un mantra.

In qualche occasione ha detto di essere diventato un cuoco un po’ per caso – cosa che spesso dicono coloro che hanno successo in una professione - nonostante l’albergo dei suoi sia stato certo un punto di partenza. Ecco, in quell’incontro per me fu cristallina una percezione: Marchesi è stato il tipo di persona destinata a portare un cambiamento importante qualunque cosa avesse fatto. Innovatore sempre, “contemporaneo di se stesso” anche scavallato gli ottant’anni. “Pure alla mia età nella testa le idee non smettono di rincorrersi” diceva. E infatti prima di andarsene ha tracciato le basi per realizzare un ultimo progetto, al quale teneva tantissimo: la creazione di una casa di riposo per cuochi in pensione. Un impegno che oggi segue la Fondazione Gualtiero Marchesi, presieduta dal genero Enrico Dandolo, che sta anche organizzando un grande evento per ricordare il maestro nel giorno del suo compleanno, il prossimo 19 marzo 2018.

E dunque: il titolo Marchesi si nasce scelto per il suo ultimo libro (ed. Rizzoli) non è un atto di presunzione. Gualtiero ha fatto la Storia della cucina contemporanea italiana, ma in un certo senso è stato solo un incidente. La sua essenza sta nell’aver dimostrato che se ascolti il tuo genio e affronti gli ostacoli, la vocazione trova la via, qualunque via. “Ci vuole passione, che è concitazione dell’anima, come dicevano i latini”, mi disse, così ci si potrà divertire, stupendoci nel vedere attraverso quale labirinto o autostrada il talento prenderà forma, pensai io. Marchesi, curioso fino alla fine, per tutta la vita s’è fatto stupire e lasciato prendere per mano “dal caso” che lo ha messo davanti ai fornelli. Il genio nato con lui, ha fatto di quell’occasione la sua opera d’arte. Onorando così la vita.

(1) parole di Gualtiero Marchesi tratte dalla chiacchierata-intervista cameo che apre il libro Spiriti bollenti. Ritratti terrestri di 21 chef stellari Guido Tommasi Editore.