Quale genitore pensa di agire facendo un danno al proprio figlio? Nessuno, certamente! Nel momento in cui ci muoviamo, agiamo, operiamo per chi ci è caro, l’intenzione è sempre la migliore che riusciamo a pensare. Ma riflettiamo un attimo sugli effetti delle azioni, cioè su ciò che succede dopo quello che facciamo. Possiamo forse affermare con certezza che l’effetto, ogni effetto, sia del tutto e sempre positivo? In altre parole, se agiamo per il bene, facciamo davvero il bene dell’altro?

Ebbene, direi proprio di no. Mentre avete letto queste brevi domande, non vi sono forse venute in mente delle azioni, fatte per il vostro bene, che però su di voi hanno lasciato segni ed effetti negativi? E non vi sono forse venute alla mente anche le azioni da voi compiute in perfetta buona fede, con i migliori intenti del mondo, ma che poi, a conti fatti, si sono rivelate totalmente negative? Ebbene, tutto questo, che appare come cosa ovvia e risaputa, a quali considerazioni può portare?

Vorrei qui fare alcune considerazioni, frutto delle riflessioni e del lavoro fatto con i pazienti in psicoterapia. Le azioni fatte a fin di bene, ma di fatto negative, possono essere anche alla base di problematiche serie e possono lasciare strascichi anche pesanti dopo molti anni. Ebbene, che cosa si può fare, dunque, a cose avvenute?

Primo: placare la rabbia.

Quando un paziente si rende conto che una cosa è andata male, è stata negativa per lui, anche molto negativa, è utile che il terapeuta lo aiuti a placare la rabbia. Perché se io so, se sono fortemente e totalmente convinto del fatto che questa cosa è avvenuta per un errore di previsione dell’altro, per un genitore che pensava in cuor suo di fare bene, o se sono fortemente convinto che l’altro ha fatto quello che ha potuto, quello che era in grado di fare, allora la rabbia per quanto è successo diminuisce, fino ad annullarsi. Il terapeuta deve – ne ha il dovere morale – aiutare il paziente a fare questo passaggio.

Secondo: prendere distanza.

Il terapeuta deve quindi essere in grado di portare il paziente a vedere che molto spesso le azioni che hanno provocato un danno non erano in realtà dirette verso di lui, ma erano – come quasi sempre avviene – una modalità che l’altra persona usa in maniera generalizzata, per sue specifiche difficoltà. In altre parole, il paziente deve arrivare a non viversi più come il “bersaglio” delle azioni altrui, bensì come chi ha vissuto le conseguenze dell’incapacità di un altro, generalmente una figura adulta di riferimento.

Terzo: apprezzare la propria capacità di azione.

Noi non siamo mai totalmente passivi di fronte a un evento negativo. Per quanto piccolo sia lo spazio a disposizione, abbiamo sempre un margine di intervento, una possibilità di azione e di gestione (anche soltanto a cose avvenute, anche soltanto in minima parte). Questo è un elemento di svolta, perché rende il soggetto attivo, per il futuro lo spinge a concentrarsi su quello che può fare egli stesso per ovviare e per gestire le difficoltà.

Quarto: stimolare l’ottimismo.

La conseguenza dell’acquisizione della propria capacità di azione è la presa di una posizione che guarda positivamente il futuro, perché vede sempre nel mondo uno spazio d’azione, in nostro possesso. Uno spazio che, se gestito bene, ci permette di volgere in positivo anche gli eventi negativi, o comunque di gestirli in modo funzionale e lineare.

Va da sé che se il terapeuta non è in grado di fare questi quattro passaggi per sé, per la propria vita, per la gestione delle proprie difficoltà, sarà ben difficile che riesca ad accompagnare un paziente, che in quel momento sta soffrendo di queste cose, a compiere una svolta attiva e positiva. Lo psicoterapeuta, per scardinare blocchi e abitudini di pensiero disfunzionali, deve poter fare leva sulla propria forza vitale, su uno slancio innato verso la resilienza, su una vitalità strutturalmente positiva e attivamente ottimista.