Personaggio poliedrico e irripetibile, Giovanni Testori, scrittore, drammaturgo, poeta, critico d’arte, pittore, attore, regista, questo straordinario artista milanese sembra aver dedicato tutta la vita alla ricerca di sé e alla rappresentazione del suo mondo interno tramite l’espressione artistica. È attraverso l’arte che pare trovare pace e dare contenimento a un’inquietudine dell’essere che lo permeava, a dare una forma ai suoi pensieri “selvatici”.

Avvicinandosi allo spegnersi della sua caleidoscopica vita, scriverà i Tre lai, monologhi ispirati a tre donne forti, incisive nell’immaginario comune, tre figure femminili che forse stanno a rappresentare la potenza primigenia della Grande Madre: Cleopatra, Erodiade e la Madonna. Sono tre lamenti funebri, forse un inno viscerale, disperato e tenero, un canto della separazione, ma di una separazione-strappo, lacerante, quella recisione irreparabile tra una madre e suo figlio, resa in particolare dallo strazio della Mater Strangosciàs, scritta negli ultimi giorni della sua vita. Un testamento d’amore?

Questo legame di passione che sanguina nei lai e che si gioca tra la vita e la morte, deve essere qualcosa di talmente forte che è impensabile, indicibile con un linguaggio piano, comprensibile, definito, è un sentito più che un pensato, tanto che il linguaggio che Testori crea, una specie di grammelot, segue come una sintassi interiore, è un linguaggio onomatopeico, un “pastiche” fatto di sonorità più che di parola significante e le parole-suono possono essere un urlo, un canto, un graffio, una carezza, una lacrima, un rantolo, un gesto. Rappresenta forse la comunicazione intima, unica, di quella relazione primaria madre-neonato, comprensibile solo per quella coppia, dove il parlarsi è fatto di storpiamenti, di mugugni, di sussurri, di intrecci verbali che assomigliano più a rumori musicali che non ad una lingua definita. Testori infatti impasta un “mistone” di latino, spagnolo, francese e dialetto brianzolo, la sua lingua madre. È da ascoltare col cuore, con i sensi, richiede di lasciarsi andare e farsi attraversare da una comunicazione sensoriale, emotiva, pre-verbale che rapisce e commuove, perché fa riverberare dentro suoni ancestrali.

La bellezza della sua opera teatrale, il “cante hondo” dedicato alla sua amata Milano, ma in particolare i lai Cleopatràs e Mater Stangosciàs, incontrano la sensibilità appassionata di Arianna Scommegna, che li interpreta in maniera sorprendente, l’attrice incarna la sua opera, mettendo a disposizione corpo e mente con geniale generosità, senza risparmiarsi. Sulla scena Testori e la Scommegna diventano un tutt’uno in una danza vorticosa, pur non perdendo la loro individualità. “Quando recito Cleopatràs sono assolutamente cosciente di tutto quello che accade, sono lucidissima, ma in questa totale consapevolezza vivo un abbandono, un trasporto fisico ed emotivo che è dato proprio dalla forza delle parole di Testori”.

L’interpretazione dell’attrice di Cleopatràs rende la regina egiziana della Valassina un personaggio umano, donna forte, di potere, ma anche fragile e sola, i movimenti frenetici del corpo e delle mani, i timbri cangianti della sua voce colorano non solo di emozioni la vita personale e sociale di Cleopatràs, ma sembrano attribuirle anche un’identità di genere mutabile, intercambiabile, scivolando da uno stato all'altro con sorprendente naturalezza, rendendola misteriosamente affascinante. “Testori - dice la Scommegna - ha regalato testi che permettono agli attori di intraprendere nella recitazione un viaggio spirituale e fisico vicino a un'esperienza mistica. Le sue parole contengono carne, sangue e spirito, ti implorano di essere un animale e allo stesso tempo una canna al vento. Pochi drammaturghi riescono a fare questo”.

Anche la Mater Strangosciàs è impersonata dalla Scommegna in maniera straordinaria e commovente tanto quanto è commovente e straordinario il testo di Testori, si ha l’impressione che l’attrice abbia interpretato quello che succedeva nella mente e nel corpo dell'autore quando stava componendo il suo lavoro, come se fosse dentro di lui, come se fosse lui, identificata con lui, ma allo stesso tempo mantenendo la sua soggettività, mettendoci se stessa, creando un connubio di forma e contenuto che dà un senso tridimensionale all’opera testoriana incarnandola, dona infatti un corpo vivo alle parole, rendendole mobili, palpitanti, di carne e sangue. La Madonna di Testori, la sua Mater Strangosciàs, è una donna del popolo, umile, semplice, fiduciosa. Vive in Brianza. Piange la perdita del figlio, sconsolata, si rivolge a lui domandandogli perché gli uomini devono patire e attraversare così tanta sofferenza. E non riesce a darsi ragione del perché lui ha accettato quel suo destino, gli chiede di aiutarla a comprendere, di farle capire il senso di quel “Sì” che lo ha portato al sacrificio della sua vita.

“Dopo un anno circa dal debutto di Cleopatràs ho sentito la necessità di proseguire il lavoro sui Lai testoriani, non mi bastava la chiusa rabbiosa urlata dalla regina della Valassina. Sentivo il bisogno di una carezza, di un abbraccio, di dire la parola perdono senza paura; di salutare con un bacio la vita, proprio come fa la Mater col pubblico nelle ultime battute del testo” commenta la Scommegna. E il Testori che abita Arianna “non è un uomo che si può incasellare in una sola definizione. La sua intelligenza colta e la sua passionalità intrisa di fede e cultura popolare lo rendono un grande narratore del 900”. E insieme creano arte.