Quando sono partito per l'Amazzonia ecuadoriana non avevo alcuna idea di che cosa stessi cercando ma sentivo la necessità di ripartire da lì per mutare il mio sguardo. Sono un darwiniano convinto ma la ricerca che ho condotto come autore sull'intelligenza nel mondo vegetale mi ha portato a credere in qualcosa di più estremo: cioè che anche la specie umana derivi in qualche modo dall'evoluzione delle piante e che ne sia completamente dipendente. Non sono in grado di spiegare questo pensiero né tantomeno di provarlo. Del resto anche il mestiere dell'arte non è nato per dare delle risposte ma per porre delle domande. Tuttavia c'è stata una cosa che molti mesi prima di partire mi ha appassionato all'idea di questa esperienza: riconoscere il mio sguardo nel replicare lo stesso percorso sperimentato almeno un secolo prima da un biologo antropologo (Carlos Crespi).

Non è stata quindi la necessità di cercare la diversità di altri popoli, (il falso mito del selvaggio) o scoprire l'ultimo luogo sconosciuto sulla Terra ma di mettere in gioco e cambiare la mia capacità di percepire "un'altra normalità" (forse perduta in un mondo perduto da noi occidentali). Immaginare, pensare e conoscere ciò che sta fuori dal nostro corpo passa principalmente dallo sguardo (come coscienza visiva) e dalle nostre mani (come coscienza tattile). Anche conoscere se stessi è un processo che coinvolge necessariamente il nostro corpo ma mette in gioco lo sguardo dell'altro. Non possiamo sapere veramente chi siamo se non riusciamo a rifletterci e riconoscerci nello sguardo di chi incontriamo.

Quando George Didi-Huberman parla di anacronismo delle immagini e di negazione della storia nella sua accezione comune lineare, probabilmente si riferisce anche al "l'anachronisme du lieu" dove il tempo trova il proprio corpo-origine e consistenza. È in tutto ciò che l'Amazzonia costituisce il nostro primo corpo-origine o tempo-ancestrale dove le icone, le situazioni e l'evoluzione umana tendono a rispecchiarsi all'infinito in una frammentazione caleidoscopica sfuggendo ai principi logici di causa ed effetto e alle finzioni e proiezioni della filosofie occidentali a favore di una dimensione che non sia il prodotto dell'immagine o dell'immaginazione.

Tra il 1923 e il 1927 Carlos Crespi sperimenta (uno dei primi europei) questa dimensione e ne resta sconvolto ed estasiato a livello emotivo. Spinto dalla propria passione di biologo e naturalista entra in contatto con questo luogo e i suoi elementi tra cui il popolo Shuar fino ad allora inavvicinabile e sconosciuto. Questa esperienza si rivelerà per molti suoi contemporanei un approccio inaudito e inadeguato allo sguardo distaccato e superiore del colonizzatore. La logica cartesiana tuttavia non basterà a inquadrare e ridurre a teoria una tale complessità.

È appunto in questa accezione che il nostro sguardo compromesso entra ancora oggi in crisi. Cosi come ha spiegato Giulia Grechi in La Rappresentazione Incorporata il concetto di indigeno o selvaggio passa attraverso i filtri deformati e i canoni stereotipati della visione occidentale attraverso secoli di colonizzazioni, dominazioni e schiavitù e giunge a noi ancora oggi nelle sue diverse mutazioni. Ma il significato della parola indigeno o selvaggio non è che una lunga serie di sguardi che fino ad oggi sono stati incapaci di cogliere la "normalità" nella biodiversità. Questi popoli sono stati visti per secoli con disprezzo nello sguardo del dominatore che li ha fatti sentire inferiori e che ha annullato il senso del loro sapere laddove invece controllavano e difendevano la propria identità e cultura.

“Si parla spesso dei popoli indigeni dell’Amazzonia definendoli come degli emarginati, perché non si sono integrati nel paese in cui, senza averlo richiesto, sono stati inclusi. Prima di essere conquistata e annessa, ogni società aborigena si sentiva al centro del mondo e, da lì, aveva sviluppato una visione del pianeta coerente e logica, in armonia con l’ambiente animale e vegetale, che gli ha dato per centinaia di anni un senso di sicurezza” (cit. Juan Bottasso).

Witjai che in lingua Shuar significa “io esisto” è un libro lanciato da Crowdbooks sulla bio-diversità della natura in Amazzonia. Tre elementi del progetto sono fortemente connessi in una terra senza riferimenti: l’intelligenza collettiva della foresta, il legame shuar-pianta e la memoria storica di un biologo esploratore del 1927. Per rappresentare il popolo Shuar oggi sono partito dal loro incontro e dalla loro millenaria conoscenza delle piante. Ho voluto simbolicamente ripercorrere gli stessi sentieri del biologo naturalista Crespi. Ho vissuto con gli Shuar e ho deciso con loro di realizzare questo progetto perché in questo modo mi sento di parlare dell’anacronismo dello spazio e dei tempo e della conoscenza come emozione condivisa. Con questo libro vorrei rivendicare l’importanza della bio-diversità anche nella specie umana. In questo progetto il popolo Shuar si riconosce e si sente rappresentato nella propria identità senza letture anomale o deformanti. Gli Shuar non vivono fuori dal mondo ma vogliono difendere il loro.

I loro clan si sono voluti rappresentare “armati delle proprie piante” impugnate come strumenti di lotta in difesa della loro cultura/identità/esistenza. Con la scomparsa degli Shuar perderemmo irrimediabilmente un pezzo importante della nostra storia e della difesa della foresta. La vita degli Shuar si è fortemente connessa alle piante. Le piante per il popolo Shuar cambiano di significato a seconda dell’uso che ne viene fatto. Ogni pianta diventa un rimedio: contro il morso di serpente, la febbre, il cancro. Crespi nelle sue lettere del ‘23 scriveva già del pericolo di distruzione della foresta ed era preoccupato dell’estinzione delle minoranze Shuar ridotte a poche centinaia.

Certe cose non sono cambiate: come “petroleros”, miniere e sfruttamento. Altre come la deforestazione per allevamento hanno peggiorato la situazione. La foresta Amazzonica viene sempre più devastata e costringe gli Shuar a fuggire dal loro territorio che non è più sufficiente per garantire la loro sopravvivenza. Uno Shuar che abbandona la propria foresta non ha alternative: o trova un’altra foresta o estingue per sempre la propria identità. La maggior parte degli Shuar non abbandona questo ambiente perché la loro evoluzione psicogenetica e la loro identità dipende dalla relazione con le piante. Chi abbandona il clan e la foresta spesso finisce male, sbandato, sfruttato dalle multinazionali o in galera per piccoli furti. Il modello economico occidentale ha causato in queste zone sensibili un dissesto totale dell’ambiente lasciando una scia di miseria, corruzione, violenza e perdita d’identità culturale.

Non ci resta che una possibilità, quella di correggere il nostro sguardo e soprattutto di imparare a cercare una relazione nuova e profonda con le culture "indigene" nel mondo come quella di questo popolo. Solo così potremmo sperare in un cambiamento e di riappropriarci di una visione che sembra essersi persa in un futuro senza emozioni.