Nato in provincia di Varese, formatosi a Milano, all’Accademia di Brera, Dario Fo ha fatto della metropoli ambrosiana lo scenario della sua lunghissima attività di attore-cabarettista, commediografo, mattatore, polemista e intellettuale impegnato, ma con la Romagna ha intessuto un rapporto affettuoso e privilegiato.

Per capirlo, bisogna risalire alla sua infanzia, quando, ad appena 5 anni, fu mandato in colonia, a Cesenatico, com’era consuetudine delle famiglie meno ricche (il padre era ferroviere), che non potevano permettersi una vacanza “privata”. Il bambino Dario rimase incantato dal mare, che vedeva per la prima volta, dai suoi colori, dai suoi mutamenti improvvisi, quasi un mondo fantastico fatto di “cavalloni” irruenti, di pesci che saltavano dal pelo dell’acqua, di vortici dove elemento acquoreo e nubiloso si confondevano. Così, “da grande”, l’autore di Mistero Buffo ha voluto rivivere quelle indimenticabili emozioni, fissando proprio a Sala di Cesenatico la sua residenza di vacanza-lavoro, dove ha composto la maggior parte delle sue commedie e ha creato un laboratorio magico in cui si animavano e prendevano forma i suoi sogni tra pupazzi e tele oniriche.

E se a Cesena ha fatto il suo primo spettacolo d’autore, a Cesenatico, che ha intitolato alla moglie Franca Rame il Teatro Comunale, ha allestito la sua ultima mostra, lui vivente, Darwin - l’evoluzione dell’uomo. L’Universo impossibile narrato da Dario Fo”, (visitabile fino al 6 novembre). È una rielaborazione fantastica della teoria evoluzionistica, indirizzata ai bambini, ma che ha anche l’intento polemico di “far andare fuori dai gangheri chi non crede nella scienza e si rifugia nell’oscurantismo”.

Ma un’altra città romagnola ha lasciato un’impronta profonda nell’immaginario e nella cultura del premio Nobel: Ravenna, che, fra l’altro, l’ha nominato cittadino onorario nel 1999. Alla città “Caput aquarum”, Fo aveva dedicato, nel ‘97, un libro La vera storia di Ravenna, dove, con stile dissacrante, si fondono paradosso e ricerca storica, leggenda e polemica, in un affresco inedito – arricchito da sue tavole illustrate - della città pluricapitale: “Ravenna può esibire avvenimenti e situazioni uniche e irripetibili, tali da far schiattare di meraviglia ogni abitante di questo mondo”. Non si trattava, però, di un’opera agiografica, ma di una descrizione, che, come sfatava luoghi comuni storici, ugualmente metteva il dito nella piaga dei problemi della città contemporanea: “Tubi, tralicci, ciminiere di raffinerie e in mezzo campanili a base circolare, palazzi antichi, chiese uniche al mondo annegati nei casoni orrendi che sembrano trasportati nottetempo dalla più squallida periferia di Milano. E poi navi che viaggiavano solcando prati immensi, cirri e rotoli di fumo bianco e nebbie all’improvviso ...”.

Con quest’opera, Dario Fo ha voluto dare, anzi tutto, una strigliata ai ravennati, che apprezzano poco e male la storia e i capolavori inestimabili della loro città, e sono “poco orgogliosi dei monumenti e dei tesori d’arte davanti ai quali si trovano a transitare ogni giorno: li diresti passanti occasionali che hanno problemi più seri per la testa, altro che esaltarsi per le meraviglie che tengono sotto casa”. L’accusa è pesante, e si potrebbe ribattere che l’indifferenza di fronte ai propri tesori artistici o naturalistici è, purtroppo, una consuetudine inveterata nel “Belpaese”, con le conseguenze che tutti vediamo, ma noi vogliamo interpretarla soprattutto come un atto d’amore e di stima dell’attore-autore varesino verso la città e la sua storia “straordinaria, unica nel mondo, fatta di trionfi militari, imprevedibili tradimenti in famiglia, meravigliose opere d’ingegneria idraulica, storie di lussuria e crudeltà con un via vai di imperatori, papi e vescovi che hanno dato vita a tragedie e farse di una spettacolarità fra le più avvincenti…”.

La “scommessa” di Fo è stata, dunque, quella di avvicinarci alla conoscenza e riconoscenza di Ravenna, a cominciare dai più giovani, dagli scolari delle scuole elementari in su; quindi, questa storia, che va dalle origini ai Longobardi, pur basandosi su fonti attendibili - anche se riviste con l’occhio dell’artista - è volutamente semplice e accattivante, ricca di aneddoti, sillogi e illustrazioni chiarificatrici. Quindi, poche, ma fondamentali date, pochi sermoni scolastici e, invece, ben in evidenza eventi, teorie e personaggi poco conosciuti o censurati.

Prendiamo, ad esempio, Galla Placidia. L’agiografia tradizionale ce la mostra, generalmente, come pia donna, vittima dei raggiri di corte e immolata come preda di guerra, ma dalla descrizione di Fo emergono altri inusitati aspetti. “Di certo la vita di Galla Placidia sarebbe la storia ideale per costruire un dramma romanzesco, una soap-opera di 100 puntate minimo”. La figlia di Teodosio e sorellastra dell’imperatore Onorio ebbe fama di donna abilissima nella gestione della sua autorità politica e del suo fascino femminile, ma, dalle vicissitudini della sua vita raccontate in questo libro con partecipata ironia, viene da chiedersi se fu il potere che le propiziò il “letto”, o se fu il “letto” che le propiziò il potere…

La vediamo infatti passare da concubina del re goto Alarico, come ostaggio di lusso e di lussuria, al prestante cognato di questo, Ataulfo (forse il suo primo e unico grande amore), a cui dà anche un figlio ben presto scomparso “causa malattia infantile”, ma probabilmente soppresso per motivi dinastici. Disperata, chiede, con un riscatto di 600.000 misure di farro, di ritornare a Ravenna, dove il fratellastro Onorio le impone di sposare il suo generale Costanzo da cui ha due figli, Onoria e Valentiniano; rimane ancora una volta vedova, ma sempre “piacente”, tanto da suscitare, anzi, da resuscitare le voglie di Onorio, un tipo strano, innamorato di galline più che di donne e con fama di impotenza. “L’intimità di Onorio con sua sorella [meglio, sorellastra] … era diventata tanto grande che quel loro smisurato affetto e i continui baci sulla bocca li avevano gettati in turpe sospetto agli occhi della gente”. E a Ravenna si mormorava: “Però, chi l’avrebbe mai detto. Lei, una donna tutta chiesa e vescovado… che spedisce encicliche, anatemi e scomuniche meglio del Papa poi la scopri che fornica lussuriosamente col fratellastro! Che vergogna! È proprio Sodoma a Ravenna!”.

Chissà, ipotizza il nostro, forse per espiare i suoi peccatucci di sesso, forse per apparire integerrima di fronte alle autorità religiose e al popolo maldicente, fatto sta che si fece paladina di una implacabile “pulizia religiosa” sollecitando vescovi e autorità civili a perseguire ed estirpare ogni forma di eresia, e in particolare quella pelagiana, che rifiutava il peccato originale e riteneva inutile il battesimo. Da parte sua, si accontentò di far strangolare Serena, moglie del generale Stilicone e di giustiziare il mago Libanio, ma ormai il suo rapporto semincestuoso era diventato un tormentone infamante che avrebbe potuto compromettere il suo futuro di imperatrice-madre e allora, temendo la vendetta di Onorio, eccola rifugiarsi a Bisanzio con i due figli.

Ritornerà in città come vincitrice dopo la morte del fratellastro e a sua gloria imperitura e al di là di ogni giudizio agrodolce, Dario Fo ammette che ci ha lasciato, tra gli altri monumenti civili e religiosi, quel suo miracoloso mausoleo, dove, dalla semplicità architettonica esterna, si passa all’interno e “ci si trova immersi nella penombra… poi lentamente i nostri occhi s’abituano e cominciano a leggere i segni, le forme, il croma dell’oro e del blu. È una sensazione davvero magica… si perde la cognizione del tempo e dello spazio… ”.

Ma l’eterodossa galleria continua, svelando i retroscena di Onoria, la bellissima figlia di Galla Placidia, che, ripercorrendo le orme materne, in un mix di sesso e intrigo, dal convento, a cui era stata destinata, giunge a sedurre e uccidere, con un amplesso estremo, addirittura Attila. E non meno bersagliata dalla critica sarcastica di Fo è la coppia imperiale Giustiniano e Teodora con la relativa corte, immortalate in S. Vitale: “Chi potrebbe mai sospettare che quella nobile sfilata possa rappresentare una corte di traditori, orditori di inganni e violenze inaudite, assassini e torturatori di senatori, papi, vescovi, donne e bambini? Non immagini né urla né pianti né sangue né roghi, guardando quelle figure. Tutto è soffuso in un clima di pace e beatitudine; meraviglia dell’arte!”

Certo, per non rimanere basiti di fronte all’atterrare di tanti miti, è necessario collocare il Fo storico nell’ambito del Fo artista e uomo di spettacolo, ma “oportet ut scandala eveniant”, o meglio, come scrisse Gianbattista Vico, la storia non si sviluppa montando per una scala dai gradini comodi e costanti… la salita è ritmata da disastrosi crolli e frane. Cosparsa di mucchi di cadaveri… Non sono solo i trionfi dei giusti che ci fanno crescere, ma anche, forse, soprattutto, le loro disastrose cadute”.