La radice è nera. Il fiore simile al latte.

Un enigma botanico apre uno degli episodi più noti che costellano la lunga peregrinazione di Odisseo, l’uomo che rappresenta ogni uomo, ogni individualità alla ricerca di significati. L’eroe sta per inoltrarsi in una terra sconosciuta, l’isola di Circe: la dea dei farmaci e dei veleni, la dominatrice della natura, colei che sa come degradare la condizione umana alla più sordida natura bestiale. Il pericolo è grande e minaccia il corpo e la psiche. I suoi compagni sono già succubi della grande ammaliatrice, prigionieri in una forma vergognosa, quella del maiale, l’animale che le divinità infere chiedono in sacrificio. A Odisseo spetta salvarli: un compito arduo, perché le forze in gioco sono immensamente squilibrate. A meno che non intervenga un dio a portare aiuto e consiglio. E un dio arriva: è Ermes, che prende per mano l’eroe con un gesto di umanissima solidarietà e gli dona un farmaco, un’erba benefica che con il suo potere gli eviti la mala sorte. Come un talismano, la pianta contrasterà la forza della pozione velenosa che la maga certamente avrà preparato per l’ospite atteso.

“Così detto, mi dava l’erba Ermes,
da terra strappandola, e la natura me ne mostrò;
la radice era nera, al latte simile il fiore;
moly la chiamano i numi. Strapparla è difficile
per le creature mortali, ma gli dèi tutto possono.”
(Odissea)

Tutto il mistero del moly si condensa in pochi, ma significativi, versi poetici. Schiere di storici, esegeti e botanici si sono interrogati su una possibile identificazione di questo prodigio vegetale, ma il quesito rimane ancora oggi privo di una soluzione definitiva. L’orchidea, la mandragora, la ruta, il ciclamino? Forse una pianta bulbacea, considerando che queste in passato erano considerate ricche di virtù magiche: consacrate all’oltretomba come tutto ciò che ha origine nel sottosuolo, capaci di combattere le stregonerie e gli influssi malefici. Eppure già i filosofi antichi avevano abbandonato la strada dell’accertamento botanico per addentrarsi in un altro ordine di indagine; si erano spinti ad analizzare l’episodio mitico per sottrarre alla trama della narrazione i significati profondi. Proveremo a farlo anche noi.

Innanzitutto, chi è Ermes, il provvidenziale donatore? È un dio messaggero, e dunque viaggiatore: conosce e comprende le inquietudini di un eroe errante come Odisseo. Ma non sono i viaggi geografici il fulcro della sua esperienza: predilige i percorsi occulti, conosce le strade che congiungono dimensioni di diversa natura. Possiede la chiave delle porte degli inferi e le attraversa come dio psicopompo, cioè accompagnatore di anime. Inoltre domina la dimensione del cambiamento e della trasformazione ed è bravo a usare le risorse dell’ingegno, anche quando si tratta di promuovere inganni e astuzie. Come Apollo è un portatore di logos, ma è in grado di superare i limiti della razionalità per sprofondare nei meandri dell’occulto. Infatti dal suo nome viene il termine ermeneutica, che esprime la capacità di trovare significati simbolici, ed è proprio un’opera di ermeneutica quella che il dio ci invita a compiere per comprendere la natura del moly.

Questa pianta spirituale avrebbe dunque il potere di combattere la vis venefica della pozione che Circe offrirà a Odisseo. Anche Circe, nel mito, veste panni allegorici. È una grande dea dalla natura ambivalente, e al logos di Ermes contrappone l’immaginario arcaico delle arti magiche femminili, temibili e legate alle forze lunari e ai misteri generativi. Nella contrapposizione tra Ermes e Circe si scontrano due polarità in lotta, forze archetipiche opposte che travalicano il riferimento ai principi farmaceutici delle rispettive piante allegoriche. Circe è una dea antica ed Ermes un giovane nume, che si cimenta, come in un esorcismo, nello sforzo di annientare forze arcane e di illuminarle con la luce del pensiero.

Eppure Odisseo, benché protetto dalla forza del prodigio botanico, non rifiuterà l’amore di Circe. Il passaggio iniziatico dell’eroe non deve disdegnare l’esperienza: deve cedere alle tentazioni per superarle, varcare la soglia degli inferi per trovare l’immortalità. Non subirà, come i suoi compagni, la regressione a una condizione animale: anzi, a lui spetterà riportarli alla loro integrità di individui, affacciandosi sulla soglia del baratro a cui conduce il potere della maga, senza però lasciarsi risucchiare. Potrà riuscirci solo se il suo sguardo rimarrà alto, fisso sull’abbagliante chiarore di Ermes, sulla fiaccola abbagliante della ragione. Il moly è con lui, a ricordargli, con le sue fattezze, i termini della prova da superare.

La radice è nera. Il fiore simile al latte. Che splendida metafora della natura umana! Una radice scura conficcata nella terra e un fiore bianco che si protende verso il cielo: il faticoso percorso iniziatico dall’istinto primitivo alle vette del pensiero e dello spirito. Impossibile non passare dalle terre di Circe in questo lungo, difficoltoso viaggio, non farsi circuire dalle sue malìe e dalla fatale attrazione della tenebra, se si vuole risorgere più forti e purificati. Il moly non è soltanto un farmaco spirituale: è una forza intrinseca. È logos ma anche paideia, educazione dell’anima: già lo avevano capito i filosofi neoplatonici. La strada che porta da Circe a Ermes è l’esplorazione stessa della vita: essa è disseminata di pericoli psichici e si percorre affrontando un’eterna lotta tra forze.

Ecco come, tra le pieghe di un episodio mitico, un’erba ci può aiutare a sciogliere un enigma. Certamente, oltre a raccontarci l’eterno conflitto dell’anima, suggerisce un percorso di guarigione. Ma anche Odisseo ha dimostrato intelligenza e sensibilità: ha compreso infatti la necessità di abbandonarsi alla grazia di un dio, e ha fatto la sua scelta. Perché ad ogni uomo, o donna, in bilico fra le seduzioni di Circe e la chiamata di Ermes, è lasciata libertà di scelta.

“Lontana da me, tu, caverna
tenebrosa di Circe: son nato progenie celeste,
ed è per me vergogna mangiare ghiande come un bruto!
Voglia concedermi il nume
il fiore del moly che scaccia i cattivi pensieri.”
(dall’Antologia Palatina)