Parlare di Michele Sambin significa entrare in un universo concettuale ed emotivo, dove ogni piccola cosa viene realizzata con amore, con l'intento di dare vita a dimensioni ulteriori per indurre a intuire, ragionare, pensare, spostare le angolature, definire spazi inconsueti che diventano, come per illuminazione, basi sulle quali edificare nuovi teoremi. L'ecletticità di questo artista, modernissimo per concettualità e al contempo rinascimentale per approccio all'arte quale nobilissimo artigianato, quello, per intenderci, che affonda le radici nella bottega d'arte, che colpisce e ci trasforma.

Forse conviene cominciare con le definizioni: video-artista, inventore del video-loop negli anni '70, pittore, regista, performer, musicista (suona violoncello e sax), sperimentatore di suoni, architetto di immagini che destrutturano il tempo, designer di mobili, addirittura sarto. Giusto perché si sappia, Michele Sambin, da sempre, disegna e realizza i proprio abiti. Un'eredità materna, come la vecchia Singer con la quale cuce i suoi originalissimi gilet e pullover. Sambin mi accoglie nel suo studio nel centro storico di Padova dove vive per una parte dell'anno, il resto è a contatto con il vento, la campagna selvaggia e i colori del Salento dove nel suo “Ovile” crea e sperimenta altre vie. Queste due realtà geografiche, sono i suoi due “poli”, “un Polo Nord”, quello Veneto grigio e nebbioso, e un “Polo Sud” quello solare e caldo della Puglia. Da dove cominciare per tratteggiare il ritratto di un artista “leonardesco” per interessi, per spazi di creazione, e, casualità, anche per il mancinismo? Forse dall'aspetto apparentemente più frivolo, quello degli abiti cuciti su misura.

Maestro, come nasce questa passione?

Fin da bambino aiutavo mia madre che realizzava i nostri vestitini con la macchina da cucire. È vero, amo cucire i miei abiti come questo maglione che indosso. Creare i propri vestiti è la cosa più piacevole da mettersi addosso, ci si sente coperti con una cosa che si è fatta con le proprie mani. Ho cominciato a farlo negli anni '70 in modo sistematico: mi cucivo le camice, i calzoni, i cappotti, i maglioni e i gilet, che adoro. Lo facevo anche durante le performance teatrali, realizzavo anche gli abiti di scena per le mie esibizioni. Utilizzo ancora la macchina da cucire Singer a pedale di mia madre, affiancata da una più moderna che mi consente di compiere ogni tipo di operazione di sartoria. Per me è un modo di rilassarmi, un modo per non pensare. È spesso un'attività notturna.

In effetti, lo studio creativo, si sviluppa su due piani: uno pittorico al piano terra e uno sotterraneo ricavato da Sambin nel 2001, dove il Maestro può eseguire la sua musica e, naturalmente, cucire i suoi vestiti. Dopo l'esperienza teatrale del Tam Teatromusica e le tante tournée in giro per l'Italia, Sambin torna alla pittura.

Questa è la fase attuale. Ritrovo oggi la dimensione dell'origine, quella del lavoro solitario, non più di gruppo come era stato per tanti anni in ambito teatrale. Questo è avvenuto mettendo insieme i miei due luoghi di origine e di elezione. Il Veneto, quindi Padova e Venezia, rapporto che nel tempo si è un po' consumato e la scoperta del “Polo Sud”, nel Salento, che mi ha aperto le porte a nuovi stimoli e a nuove esperienze creative. Capita ancora di rivivere la performance teatrale all'"Ovile", la casa di campagna a Cannole vicino a Otranto, dove vivo parte dell'anno.

Cosa è cambiato in questo nuovo approccio alla creatività?

Questo nuovo spazio in Salento mi ha aperto nuovi orizzonti dal punto di vista dell'arte, c'è una dimensione di grande libertà. In poche parole il piacere del fare per il fare. Questo non accadeva nell'ambito teatrale, che si presentava spesso pieno di argini e di limiti anche “burocratici”. Oggi sperimento il piacere di fare le cose solo per vederle realizzate, un processo che tocca anche la riscoperta delle tante opere realizzate nel passato, nel lungo percorso che ho attraverso ma alle quali non avevo prestato sufficiente attenzione.

È la riscoperta, dopo tanto video loop, sperimentazione elettronica e performance live, della “pittura musicale”?

Esattamente. Premetto che sono un musicista sui generis, pressoché autodidatta. Suonare il violoncello e il sassofono sono funzionali alla mia espressione artistica. Sono invece un ascoltatore raffinato, i miei riferimenti sono John Cage, il papà di tutti noi, Karlheinz Stockhausen, Luigi Nono, Luciano Berio, Bruno Maderna e tutti i grandi della musica contemporanea. La multimedialità e l'elettronica sono sempre stati un pane quotidiano del quale mi sono cibato, ecco perché giungo a determinate invenzioni, come il video loop. È necessario comprendere questo per affrontare, poi, il discorso sulla pittura musicale, che potrebbe essere intesa come la naturale interpretazione di un gesto artistico da sempre presente nella mia ricerca. Parliamo del tempo.

Parliamone, la variabile temporale è da sempre meta, ossessione e concetto onnipresente nella sua produzione. Il sincrono che viene scomposto, un elemento che richiama le leggi della fisica, la relatività, lo spazio-tempo nel suo procedere curvilineo.

La costante è il tempo e l'immagine non statica nella pittura, lo si vede nelle mie opere di pittura musicale. Alla pittura musicale mi ero dedicato dagli anni '80, ma l'avevo un po' lasciata in un angolo perché troppo preso dall'attività teatrale. Il mio lavoro sul tempo risale alle prime video installazioni. Da Il tempo consuma del 1979, dove mi invento la possibilità di poter utilizzare la tecnica audio del loop anche per l'immagine elettronica, ad Anche le mani invecchiano, a Io mi chiamo Michele o ancora in Looking for listening, il tempo rappresenta la costante da analizzare, rappresentare, studiare, scomporre, la “cifra del tempo reale”, veicolata dall'azione performativa e in dialogo col tempo registrato. La mia ricerca si è basata sul rappresentare il ribaltamento del tempo riprendendo il dato cronologico e scomponendolo confutando l'idea del tempo lineare per osservarne i frammenti. Lo faccio avvalendomi di una strumentazione tecnologica che, per l'epoca, era all'avanguardia ma soprattutto invento negli anni '70 il video loop. La cosa straordinaria è che tutto avveniva nel corso di una performance di fronte al pubblico che, molto, spesso veniva coinvolto. Il mio lavoro sulla musica elettronica è servito a dare una definizione precisa al suono e all'immagine correlata.

Una sorta di rivoluzione per gli anni '70 e una consacrazione all'interno dell'arte cosiddetta sperimentale prima dell'avvento della Transavanguardia.

Che non ho abbracciato assolutamente, preferendo proseguire nella mia ricerca ad ampio raggio nel teatro. Anche se non tornerò al teatro, sebbene mi sia stato chiesto. Non ne amo più l'atmosfera. Tuttavia, l'esperienza con il video era una vera propria aspirazione da parte mia. Attraverso il lavoro col video volevo rappresentare cose che non esistono nella realtà. Per me la forza del video è sempre stata di sconvolgere il reale.

E dopo tutto questo, video installazioni, teatro e performance, il ritorno alla “pittura musicale” è il momento della pace e dell'introspezione?

Proprio così. La pittura musicale è la cosa più bella, dopo tutto questo turbine di attività che ha attraversato gli ultimi decenni della mia produzione artistica in cui non mi sono mai fermato.

E se Michele Sambin dovesse definirsi?

Sono sicuramente un artista-artigiano che esplora le forme del tempo attraverso le immagini e il suono.

Per maggiori informazioni:
Un lungo capitolo sull'opera di Michele Sambin è stato inserito in Rewind Italia. Early Video Art in Italy, un saggio sulla video arte in Italia, realizzato da Laura Leuzzi e Stephen Partridge per le edizioni John Libbey & Company.