Nàrke. Narcosi. Narciso.

Il fiore generato per compiacere Ade, l’oscuro signore del Tartaro. Il fiore che incorona la fronte delle Moire filatrici dei fati e delle Erinni, le dee vendicatrici. Il fiore, infine, che ha stregato la fanciulla Kore con il richiamo irresistibile delle sue corolle odorose. Impossibile resistergli, ma coglierlo equivale ad abbattere orizzonti invisibili: il solco che ospita le sue radici si allarga nel baratro di una voragine, e da quella voragine Ade può allungare la sua mano rapace e trascinare Kore nel profondo abisso. Ecco cos’è un narciso: è incantesimo, torpore, incoscienza. Eppure un tempo Narciso fu un mortale, giovane e bellissimo. Come spesso accadeva ai tempi degli dèi, tutto ciò che in natura ha un valore per il genere umano è riconducibile alle sue passioni.

La ninfa Liriope aveva partorito un bambino di bellezza straordinaria: desiderando conoscerne il destino si era rivolta a un indovino chiedendo se alla sua creatura sarebbe stato concesso di raggiungere gli anni una serena vecchiaia. La risposta dell’oracolo era stata tanto incisiva quanto oscura: “Soltanto se non conoscerà se stesso”. Arrivato all’età dell’adolescenza, Narciso possedeva fattezze così armoniose da far innamorare di sé ragazzi e ragazze. La sua avvenenza era però accompagnata da una superbia tanto odiosa da respingere qualunque tentativo di avvicinamento. Innumerevoli erano le vittime cadute nel laccio amoroso; anche la ninfa Eco, che era stata condannata da una dea a ripetere gli ultimi suoni delle parole udite, si era persa in questo ardore disperato fino a consumarsi nel corpo e a dissolversi nel vento, lasciando di sé solo gli incompiuti riverberi della propria voce. Narciso, incurante dell’infelicità di cui era causa, trascorreva le sue giornate cacciando nei boschi, fino a quando uno dei bersagli del suo disprezzo non rivolse agli dèi una preghiera: che anche lui potesse provare il tormento di amare senza possedere l’oggetto d’amore! Nemesi, la dea vendicatrice, aveva porto l’orecchio.

Un giorno il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e cercando un po’ di sollievo dalla sete e dagli effetti della calura, si fermò a riposare presso una fonte, al riparo di una boscaglia. L’acqua sembrava invitarlo a sporgersi sullo specchio intatto, ma mentre il giovane si china, lo coglie una sete di diversa natura: l’immagine che vede riflessa lo incanta, e lui si innamora di una chimera, non avvedendosi che quello che crede corpo è solo apparenza riflessa. Si ferma a lungo ad ammirare il suo effimero doppio, indugiando a gustare ogni particolare di quella creatura che sembra così vicina ma si offusca e svanisce quando il tocco turba la superficie dell’acqua. Inutile tentare di gettargli le braccia al collo, di baciare quelle labbra con le labbra, anche se l’altro sembra rispondere ogni volta ai suoi gesti e ai sospiri con eguale slancio!

Non comprende, Narciso, di essere amante e amato allo stesso tempo, ma nulla riesce a distoglierlo da quell’incanto. Se ne sta disteso, fissando insaziabile il suo fantasma, tanto vicino eppure irraggiungibile: infine la follia prende il sopravvento, e in uno slancio estremo tenta l’abbraccio fatale così desiderato. Lo specchio d’acqua diventa per lui fontana di morte. Al suo ultimo “Addio!” risponde un medesimo ”Addio!” rimandato da Eco, presenza invisibile che mai si era allontanata dal suo infelice amore. Quando le ninfe approntarono il feretro per il loro pupillo, si accorsero che il corpo del giovane era svanito: al suo posto era comparso un fiore mai visto prima, giallo nel mezzo e circondato da petali candidi. Gli diedero il nome dello sventurato Narciso. Si racconta che il giovane continuò a contemplare la sua immagine riflessa anche nel Tartaro profondo, specchiandosi nelle acque torbide e inquiete dello Stige.

Nella sua funzione simbolica e archetipica, il narciso interpreta pienamente il doppio-vegetale del giovane Narciso; l’intero episodio è immerso in un’atmosfera torpida e narcotica, languidamente digradante verso la risoluzione finale, dove il disfacimento della psiche si realizza nell’attrazione seduttiva della morte. Ancora una volta questo fiore si rivela strumento di congiunzione tra vita e aldilà, superficie e sottosuolo, coscienza e dissoluzione. E se nel mito di Kore aveva svolto il compito di fiore magico, guidando la vergine innocente in quella dimensione ctonia in cui avrebbe incontrato la parte oscura di sé, la vicenda di Narciso testimonia la difficoltà di raggiungere la propria vera identità, desiderata eppure rincorsa attraverso un labirinto di fantasmi illusori.

Nomen omen è quello del narciso: un nome che è presagio delle virtù magiche che possiede e strumento di conoscenza delle sue facoltà. Nàrke è l’effetto narcotico del suo profumo intossicante, è il torpore della coscienza che si abbandona al nulla. Non sbagliava l’oracolo: il giovane avrebbe vissuto un’esistenza lunga e serena solo rinunciando alla comprensione più profonda di sé. Ma la passione e il desiderio della scoperta hanno superato gli allettamenti di una vita condotta senza turbare la superficie delle acque, e il prezzo da pagare è proprio una morte per aquam, perché è attraverso l’acqua che si è compiuta l’iniziazione.

La morte di Narciso potrà sublimarsi attraverso l’apparizione della sua epifania vegetale. Il fiore abita le rive quiete degli specchi acquatici, e forse la sua presenza esprime un tacito invito a sporgersi ed esplorare i misteri. Ma attenzione a non toccarlo o coglierlo! Sarebbe come pronunciare un “apriti sesamo”: la terra potrebbe spalancarsi e lasciare intravedere i suoi segreti.