Secondo la tradizione Francesco Mazzola, detto il Parmigianino, è l'inventore della tecnica dell'acquaforte, ma la pratica di incidere i metalli con una sostanza corrosiva, chiamata mordente, era già conosciuta in Italia e in Europea negli anni in cui veniva esercita dal pittore parmense. Pare, infatti, che l'acquaforte sia stata “inventata” in Germania all’inizio del Cinquecento, da alcuni alchimisti che manipolavano solventi, fra cui lo stesso Albrecht Dürer, e che approdi in Italia attraverso l'incisore bolognese Marcantonio Raimondi il quale avrebbe rivelato il procedimento al Parmigianino, conosciuto a Roma.

Al contrario del bulino, con cui si opera direttamente sul metallo, nell'acquaforte si disegna con la punta d'acciaio su uno strato di vernice a cera o bituminosa con cui si è preventivamente ricoperta la lastra. Quest'ultima, viene poi immersa in un acido che corrode (tecnicamente “morde”) le parti scoperte e a corrosione avvenuta, si elimina la vernice e si procede con la stampa al torchio. Il Parmigianino inizia a praticare questa tecnica a partire dal 1530, data indicata dal Vasari come l'inizio dell'interesse dell'artista verso l'alchimia: è possibile che la manipolazione di acidi e di sostanze chimiche impiegate per le sue incisioni, abbia portato l’attenzione del Parmigianino verso l’alchimia, ma potrebbe anche essere che la pratica dell’acquaforte sia un effetto delle sue conoscenze alchemiche.

Anche se per l'artista fu probabilmente solo “volontà di fissare le immagini sul rame in modo diverso da come facevano gli altri”, punti d'interesse comune fra alchimia e acquaforte esistono se pensiamo che in un laboratorio alchemico, come nello studio di un artista, si compiono azioni quali macinare minerali e vegetali, mescolare e misurare, diluire e amalgamare e che spesso nell'esperienza pittorica, si assiste alla volontà di sperimentare pigmenti inalterabili nel tempo e praticare tecniche capaci di conservare a lungo l'opera per conquistare, in questo modo, l'immortalità. Inoltre il tentativo di riprodurre in laboratorio, con ritmo accelerato, l’opera della natura, ovvero la trasformazione della materia da grezza a perfetta e pura, la trasmutazione dei metalli vili, in oro, può avere un corrispettivo nella manipolazione della lastra di metallo, segnata e alterata da punte e acidi, violata quindi nella sua purezza materiale nel tentativo di raggiungere la perfezione del segno.

Alchimista o sperimentatore, sospeso fra arte e scienza come si direbbe oggi, il Parmigianino è interessato al procedimento oltre che al risultato finale come dimostrano i risaputi “difetti di morsura” dei suoi lavori, ma sviluppa la tecnica secondo uno stile personale portandola a esiti originali: mentre con il bulino si operava, come in oreficeria, su un disegno già predisposto e passato dal pittore all’incisore, con l'acquaforte si disegna direttamente sulla lastra come con la matita sul foglio: la vernice che ricopre il metallo non oppone resistenza alla punta d'acciaio e permette di ottenere un disegno fluido, “libero e arioso”. Tale disinvoltura d'azione piace sia al Parmigianino, che lo traduce in uno stile spontaneo e aggraziato, che agli artisti che la praticano dopo di lui che sondano nuove possibilità espressive nella resa del segno libero, in grado di catturare luci e ombre.

Merito del Parmigianino, quindi, fu quello di dare una svolta estetica a questa tecnica che non richiedeva i lunghi tempi di preparazione e studio del bulino ma una maggiore immediatezza nel gesto, aprendola per primo alle future potenzialità. Sarà il Seicento barocco che le sfrutterà appieno, attraverso il lavoro di Federico Barocci, dei Carracci, di Guido Reni, di Stefano della Bella, del Grechetto e di Salvator Rosa, solo per rimanere in Italia.