In uno scenario apocalittico, dove il pianeta terra rischia di essere distrutto da alieni biomeccanici, tra macchine volanti e raggi laser, ecco levarsi una misteriosa melopea: è il finale della donizettiana Lucia di Lammermoor, che non sfigura certo se ambientata nel 2413 de Il quinto elemento, il fantasy di Luc Besson, anche perché, come scrisse Montale, “La Lucia è come un quadro famoso che si difende bene anche riprodotto in mediocri oleografie”. Da qui è partita l’appassionante rappresentazione dell’opera - in cartellone alla Scala, nell’allestimento della Metropolitan Opera di New York, con la regia di Mary Zimmerman - nell’ambito del dodicesimo appuntamento del ciclo Prima delle prime, promosso dagli Amici della Scala e inserito nel palinsesto Expo in città. Nello stupendo ridotto del teatro milanese, Federico Fornoni, musicologo della Fondazione Donizetti di Bergamo, ha esplorato una tematica di grande interesse: “Lucia di Lammermoor, melodramma esemplare?”.

Ritornando all’orrifica ambientazione del sopracitato film di Besson, Fornoni ci ha fatto notare come elementi “noir”, “dark” e financo “horror” non sembrano mancare all’opera, composta in soli due mesi nel 1835 su un libretto di Salvatore Cammarano sostanzialmente fedele al romanzo di Walter Scott, The Bride of Lammermoor, a cui la composizione si ricollega e che in precedenza aveva ispirato Michele Carafa con Le nozze di Lammermoor, e Alberto Mazzuccato con La fidanzata di Lammermoor. Basti pensare alla feroce morte dei due protagonisti, all’omicidio del novello sposo, alla prolungata scena della pazzia di Lucia: quasi un trattato di psicopatologia dalle coloriture angoscianti. D’altra parte, Mario Praz, commentando il romanzo originale aveva scritto che era “tra i più pieni di sinistra atmosfera e di soprannaturale di quanti se ne scrissero nel periodo di voga pei cosiddetti racconti gotici”. Ma questo dramma offrì al compositore bergamasco anche il destro per uscire da alcuni schemi consolidati. Già nella cavatina Regnava nel silenzio, Donizetti altera il tradizionale sviluppo strofico, inserendo recitativi e colorature e alternando tonalità maggiore e minore, quasi a sottolineare l’impossibilità della protagonista di articolare un discorso coerente. La scena della pazzia di Lucia è poi un esempio di grande genialità compositiva, dove la rappresentazione dello stato patologico della protagonista è sottolineata da una musicalità particolare, con la sonorità eterea e vitrea dell’armonica a bicchieri o “glass-armonica”, che dopo essere stata per comodità sostituita dal flauto per lunghi decenni, oggi è stata reintrodotta.

Questa sorta di atmosfera, che sembra quasi indicare un distacco dalla terra e dalla realtà è poi ancora una volta accentuata dal debordante recitativo e dalle colorature che sottolineano lo stato di alienazione della protagonista. Sempre nella direzione di una violenta drammaticità è l’ultima “cabaleta” dell’opera, in cui è inserito il suicidio di Edgardo anche qui con quell’andamento franto che esprime gli ultimi sussulti di vita. La stessa soluzione di aver concluso l’opera, con un’aria non interpretata dalla protagonista vera e propria, ma dal tenore, fu una scelta in controtendenza e creò non pochi malumori tra le varie “prime donne”.

Dopo questa serie di scoperte e puntualizzazioni, Federico Fornoni ha concluso ritornando alla domanda iniziale: “Lucia di Lammermoor, melodramma esemplare?”.Certo, i temi e le atmosfere del romanticismo più fervido ci sono, come la fine solitaria di entrambi i protagonisti e la dimostrazione disperata che solo la morte può ricongiungere due anime innamorate. Nell’opera, che pur ebbe un grande successo, Donizetti, però, seppe conciliare l’“esemplarità” con nuove soluzioni che fanno della “Lucia” una delle composizioni più originali del repertorio operistico italiano. Come ha scritto Giordano Montecchi, Donizetti è “artista dalla fisionomia molteplice, che nei tanti suoi lavori non cessa di collaudare una vasta gamma di convenzioni formali e drammaturgiche, un vero arsenale di soluzioni per scolpire caratteri, esaltare conflitti, fotografare situazioni...”. Praticamente, “un laboratorio dove, in altre parole, si collaudano i requisiti del melodramma come genere di largo consumo”, e dove “vengono saggiate la ricchezza delle varianti strutturali, i limiti delle convenzioni, le possibilità di una reciproca corrispondenza fra disegno armonico e drammatico”.