Il titolo richiama il tema sul quale si è incentra la produzione dell'Hangar nel periodo compreso tra il 2010 il 2011 e che ha inaugurato una nuova stagione a seguito del restauro e del miglioramento degli spazi – sono stati infatti aggiunti un bistrot, una libreria, la rete wi-fi e il riscaldamento a pavimento.
Unico punto debole di questa struttura è la distanza dal centro di Milano, nonché la mancanza di un collegamento veloce e diretto – cosa che la rende non facilmente frequentabile.
Ma il breve viaggio vale lo stupore di poter usufruire di tali immensi spazi: 15.000 metri quadri per un soffitto alto fino a 20 metri, nei quali si ergono opere permanenti e temporanee di forte impatto visivo ed emotivo.
Nella navata più alta, I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer è l'opera permanente ideata dall'artista ebreo-tedesco nel 2004. Il grandioso sforzo costruttivo si dispiega in una costruzione site-specific formata da sette torri, composte ognuna dalla sovrapposizione di container a base quadrata e che appoggiano su basi di cemento. Il progetto si rifà ad un testo sacro (il Sefer Hechalot o Il libro dei Palazzi) che parla di sette Palazzi, attraversando i quali si sarebbe raggiunto il divino. Ogni torre, diversa per altezza e composizione, sembra fallisca il suo babelico tentativo di ascesa, cristallizzandosi in una precaria costruzione in rovina. Un momento di catarsi per chiunque si trovi vicino a quest'opera.
Essa è presente sin dalla prima apertura dell'Hangar che, da ex stabilimento industriale dedicato alla produzione di bobine per i motori dei treni, nel 2004 aprì le sue porte al mondo dell'arte contemporanea. Nel 2008 divenne poi una Fondazione no-profit.

Il progetto curatoriale di Chiara Bertola per “Terre Vulnerabili” prevede il mutamento dell'installazione iniziale attraverso l'intervento di altri artisti, che vanno a sommarsi o a modificare i lavori precedentemente esposti.
Dunque, una mostra imprevedibile e che si sviluppa con gli artisti stessi – la curatrice ha infatti previsto degli incontri con gli artisti che devono esporre nello spazio.
Il risultato è una mostra che, come ricorda il titolo “Terre vulnerabili – A growing exhibition” procede in quattro parti.
La prima, “Le soluzioni vere vengono dal basso”, inaugurata il 21 ottobre 2010, prendendo spunto da una frase di Yona Friedman, ricordava l'inefficacia delle soluzioni provenienti dall'alto, rendendo un forte senso di instabilità e trasformazione.
La seconda, “Interrogare ciò che ha smesso per sempre di stupirci”, frase di Georges Perec, richiamava una nuova interpretazione della realtà, slanciandosi verso dimensioni utopiche.
La terza parte, “Alcuni camminano nella pioggia, altri semplicemente si bagnano” si lega, citando Roger Miller, all'imprevisto dovuto all'entrare senza protezioni in un luogo che si è scelto volontariamente.
L'ultima e quarta esibizione, che inaugura il 5 maggio 2011, è “L'anello più debole della catena è anche il più forte perché può romperla” (frase del polacco Stanislaw J. Lec): con questo anello debole si sfalderà nuovamente la nostra esibizione, che presto (data di chiusura è il 29 maggio) tornerà a svuotarsi di tutte le sue temporali partecipazioni.

Gli artisti che hanno lavorato nella prima parte sono Ackroyd & Harvey, Mario Airò, Stefano Arienti, Alice Cattaneo, Elisabetta di Maggio, Rä di Martino, Yona Friedman, Alberto Garutti, Gelitin, Mona Hatoum, Christiane Löhr, Nicolò Lombardi, Ermanno Olmi, Hans Op de Beeck. Ad essi si aggiungono/sostituiscono/uniscono gli artisti della seconda parte Bruna Esposito, Invernomuto, Kimsooja, Margherita Morgantin, Adele Prosdocimi, Remo Salvadori, Nico Vascellari. Nella terza incontriamo Massimo Bartolini, Ludovica Carbotta, Marcellus L., Franz West e infine, nella quarta parte, lavoreranno Roman Ondák, Alberto Tadiello, Pascale Marthine Tayou e Nari Ward.

Nella terza delle quattro parti di “Terre vulnerabili” incontriamo diverse opere, sempre legate alla transitorietà e all'instabilità. Tra le tante qui di seguito ne suggerirò alcune.
Il video dell'italiano Rä di Martino If You See the Object, the Object Sees You, del 2010, gioca sulla messa a fuoco dell'immagine e sull'instabilità visuale che ne deriva. Stefano Arienti, con il suo Terre di cristalli e Elisabetta di Maggio, con le sue finissime incisioni su gesso, occupano ora la base precedentemente utilizzata da Christiane Löhr. Kimsooja mostra, con una serie di diapositive, la terra “malata” nei pressi di una centrale nucleare in Sud Corea (Architecture of Vulnerability, 2011).
Yona Friedman presenta, oltre al suo video Gude Book for Visitors from Outer Space del 2010, una delle sue “città spaziali”: Une ville spatiale pour artistes, costruzione site-specific in cartone, aumentata di un livello nel corso dell'esposizione, che accoglie ora le opere di Margherita Morgantin e Adele Prosdocimi. Quest'ultima è inoltre presente, affiancandosi alle sette torri di Kiefer, con un'installazione fatta di numerosi tappetini di feltro disposti in lunga fila e cuciti col filo di frasi tratte da appunti di viaggio dell'artista.
Nella stessa zona, Alberto Garutti ha installato nel punto più alto dell'Hangar una macchina che sputa, a intervalli regolari, un foglio bianco di carta che va ad aggiungersi agli altri già caduti, sul pavimento (Opera dedicata a chi guarderà in alto, 2010). Il gruppo Invernomuto propone la scultura di cera Wax, Relax, 2011, che rappresenta una copia della grotta di Lourdes presente in Italia, a Vernasca, e che dovrebbe sciogliersi nel corso della mostra.
Bars (Future as it Was Once) è l'opera di Massimo Bertolini che quasi passa inosservata all'interno della navata, dato il suo aspetto oggettuale: un trabalto che, ad uno sguardo più attento, rivela di non essere semplicemente un supporto architettonico o un ready-made, ma che mostra di essere esso stesso sollevato da quattro supporti che fanno parte della sua stessa struttura metallica – si nota di fatti, avvicinandosi alla “scultura” il surreale vuoto al di sotto delle sue ruote.
L'artista libanese Mona Hatoum riproduce con cavi d'acciaio e sfere di cristallo la leggerezza della rugiada su di una ragnatela sospesa che si tende sulle nostre teste. Hans Op de Beeck, con il suo incantatore Staging Silence, video del 2010, mette letteralmente “in scena”, in maniera continua e delicata, paesaggi difficilmente discernibili dal reale che restituiscono all'opera quell'antica corrispondenza tra vita e finzione.
Un giovane talento, Ludovica Carbotta, ha invece costruito, nel tentativo di arrivare sempre più in alto, una struttura in grado di sostenerla e che fosse formata con i segmenti che si trovavano al di sotto del suo corpo e che erano già serviti da appoggio per l'ascesa – di conseguenza, si troverà, infine, al punto più elevato senza poter più tornare indietro e ciò che noi vediamo esposto è la struttura risultata da quest'azione.
Mario Airò, con i suoi complicati e interconnessi meccanismi automatici, ricostruisce a laser, ogni tre minuti, i confini di Atlantide, che corrono sul pavimento per poi rifugiarsi da dove erano partiti. Christiane Löhr disegna con i crini di cavallo una struttura estremamente precisa e regolare che fragilmente si eleva verso l'alto a partire dalla base in gesso sulla quale l'artista, utilizzando degli aghi, ha fissato i crini.
In fondo alla parete ci sono poi le quattordici “Monna Lisa” dei Gelitin, gruppo viennese che lavora con la plastilina deformando e rendendo instabile l'aspetto originale di fotografie, dipinti e sculture.
Nell'ultima stanza troviamo un arazzo di erba lungo tutta la parete del duo inglese Ackroyd & Harvey, che hanno conferito al tappeto vegetale il volto di un'anziana signora tramite impressione per fotosintesi.
Finiamo il nostro tour con la riproduzione del suono prodotto da un pianoforte a coda che il brasiliano Marcellvs L. ha registrato durante il suo trasporto lungo i canali di Venezia – quasi la laguna avesse suonato quelle corde.

La quarta ed ultima parte di questa rassegna, che cambia con le fasi lunari, prenderà una nuova e inaspettata forma, visibile fino al 29 maggio. Un'imperdibile occasione per scoprire l'Hangar Bicocca vestita di opere che nascono dai suoi stessi spazi o perfettamente installate, sovrapposte o modificate dagli artisti scelti, liberi di agire sui propri come sugli spazi altrui.

Testo di Giulia Casalini