L’arte di Alessandra Baldoni è una dichiarazione d’amore poetica-raffinata-pulsante... di quelle che vorresti facessero a te almeno una volta nella vita perché hanno il sapore dell’essere stati riconosciuti nella propria unicità, nella propria essenza, nel proprio naturale movimento vitale... ed è una dichiarazione d’amore anche quest’intervista: Rispondo sempre con il cuore ed il ventre... (A. B.)

Chi è Alessandra Baldoni?

Una donna cresciuta tra i campi, la terra rovesciata per la semina, l’odore del lago e le pagine dei libri. Una donna che cerca lo splendore nella ferita, la salvezza dalla rovina. Ama custodire le cose, avere cura di ciò che è esposto ai venti, di quello che solitamente va perso o lasciato indietro e naufraga nell’abbandono.

Come sei approdata all’arte, e in che modo l’arte ti si è presentata?

Non so se si sia trattato di approdo o se in un certo senso io sia nata in mare. Non ricordo un periodo della mia vita in cui io non abbia scritto o fotografato, non mi viene in mente niente altro che sia stato così precisamente disegnato dentro me, come una scrittura a rilievo sulle mie stesse ossa, come una costellazione ricamata sul cuore. Ho sempre voluto fare arte, mi piace pensare che sia una questione di destino. E dal destino non c’è scampo - nel bene e nel male, nel medicamento come nel sale. L’arte mi si è presentata come un’emergenza, come stella polare, come punto cardinale. Anche nella difficoltà o nel dolore è il filo a piombo che mi tiene in verticale.

Cosa, del mondo che ti circonda, attrae la tua attenzione e cosa riesce ad avere un effetto tale da influenzare la tua ricerca artistica, e cosa influenza te?

Mi colpiscono soprattutto le storie, i racconti delle persone. Di certo ognuno ha qualcosa di strano incredibile ed eccezionale da raccontare. Le vite illustri e non illustri. Si tratta di immergermi in questo flusso, in questo fiume di accadimenti e di parole, setacciare e raccogliere, trovare l’oro. L’arte poi modella quell’oro grezzo con il fuoco, rende esemplare qualcosa di intimo e personale. Storie che altrimenti si perderebbero, scivolerebbero via nel nero di pece e di dimenticanza che si ingoia ogni cosa. Io muovo guerra all’indistinto, lotto contro l’opacità che rende uguali i volti, mi fermo a raccogliere ciò che per distrazione o leggerezza lasciamo cadere. Mi colpisce la stortura, l’evento che cambia la rotta, l’imprevisto che capovolge il pensiero. Le cose piccole o grandi che segnano un’esistenza, le tacche segnate sull’anima.

In che senso il fatto di essere donna ha determinato la tua vita? Quali possibilità ti sono state offerte, e quali rifiutate? Che destino possono aspettarsi le nostre sorelle più giovani e in che direzione bisogna orientarle?

Per me è stato determinante essere donna, innanzitutto per il mio modo di sentire, di amare, di vibrare. Il mio è uno sguardo femminile e non potrebbe essere altrimenti. È lo sguardo di chi tesse, di chi attende, di chi cuce e ripara: è l’attenzione e la cura, lo stare in pensiero, la favola narrata per dormire, il nastro che lega le lettere d’amore. Essere donna è la difficoltà che mi ha spinto oltre il limite imposto dalla società che privilegia il maschile a tutti i livelli. Nelle scuole non si studiano poetesse scrittrici artiste. Conosciamo solo come il mondo lo hanno pensato e scritto gli uomini. È metà della visione, ne manca una parte fondamentale. Bilancia in disequilibrio, musica composta con metà delle note. La voce del femminile è ancora sommessa, sovrastata, spesso non ascoltata. Credo che se riuscisse ad alzarsi e ad affiancarsi a quella maschile ne nascerebbe un canto splendido, una musica finalmente intera. Nulla in particolare mi è stato offerto in quanto donna e ciò che mi è stato rifiutato in un certo senso è stato più bello conquistarlo: più alte sono le mura, più grande è il fragore nella caduta. Ho molta fiducia nelle nostre sorelle più giovani, credo che possano portare a fioritura tutto quello che è stato seminato… qualche germoglio già si intravede - sopravvive al gelo dell’inverno. L’importante è che restino fedeli alla loro verità e non smettano mai di farci sentire la loro voce, che non cadano nella lusinga del tutto e subito che è una temibile gabbia e chiude gli spiriti indomiti-da brughiera-dentro un cliché accomodante. Non esistono scorciatoie, il fuoco va attraversato.

Se ti chiedo di rivolgere la tua attenzione dal cosa ricordi (il contenuto di una determinata esperienza) al come la ricordi (come rappresenti interiormente le esperienze già fatte):

• ricordi soprattutto le sensazioni?
• oppure è più forte il ricordo dei colori?
• ricordi soprattutto le voci o i suoni o il silenzio?
• oppure il volto delle persone?
• il profumo o l'odore di qualcosa in particolare?
• altro?

Ricordo con il corpo, è sempre un sentimento la mia memoria, un alfabeto braille sulla pelle da leggere con i polpastrelli. Sfiorandolo si fa brivido, si fa luce. È il ricordo come emozione che strappa un volto dalla notte, che definisce i contorni prima sciolti in un buio lontano. Come quando in camera oscura vedi apparire un’immagine sulla carta che oscilla “sott’acqua”. La prima cosa è sempre il volto perché il volto è amore. Poi il resto, voci colori e odori. Ma all’inizio del ricordo ci sono gli occhi, terra avvistata all’orizzonte.

Attraverso quale dei cinque sensi entri in relazione con il mondo, e quale utilizzi più frequentemente, più volentieri e con più familiarità quando lavori?

La vista senza alcun dubbio, sia perché lavoro con la macchina fotografica che per il fatto che attraverso essa posso osservare e leggere. Tutto quello che mi dà nutrimento passa per gli occhi. È la vista che mi porta dal bosco alla pagina. Ma anche gli atri sensi sono fondamentali, servono come riferimento a costruire la mappa per percorrere il mondo. Diciamo che gli occhi “vanno avanti” ma poi ogni senso si prende una parte nell’impresa di conoscere e raccontare il mondo con l’arte. E anche se lo sguardo resta al comando e spesso dà ordini al resto mi è capitato che una voce, una musica o il contatto fisico mi accendessero, fossero la scintilla di un lavoro. Sono inoltre una donna molto carnale, con una forte presenza fisica… amo toccare assaggiare annusare. Sono curiosa e golosa al tempo stesso.

Che approccio hai con la materia per arrivare agli aspetti contenutistici e concettuali delle tue opere?

Non maneggio la materia in senso stretto (a parte rare eccezioni), il mio lavoro parte già, in un certo senso, da un’astrazione. Uso la macchina fotografica e vorrei che somigliasse il più possibile a un diario, un taccuino in cui nasce e si custodisce la scrittura. La mia materia sono le parole, le storie mie o di altri, la letteratura. Sono la struttura di ogni cosa che faccio, sono il corto circuito, il carburante, la carica di senso. Sono l’acqua, sì ecco l’acqua, senza la quale nulla potrebbe nascere. Dalle parole escono le immagini, dalle parole si sollevano. Le parole sono la coperta, la placenta delle mie foto.

Il tuo lavoro nasce dall’impulso che segue a un’idea o a una necessità? C’è un filo conduttore che ti porta a tessere la trama delle tue opere?

Credo ci siano entrambe le tensioni. L’emergenza da un lato… il dolore, la ferita, la disobbedienza, la necessità. Ma dall’altro lato a volte c’è un’idea che parte da lontano, come una piccola luce tra le nebbie, qualcosa che si avvicina piano. È magari meno urgente e sanguigno ma altrettanto necessario e fatale. Credo ci sia come un’appartenenza sotterranea che lega i miei lavori, come una vena mineraria… potrei chiamarla amore questa traccia, questa radice genealogica.

Nella resa finale di un progetto artistico quanto peso hanno la pianificazione e la ricerca e quanto è imputabile, invece, all’imprevedibilità?

Cerco di prepararmi e preparare ogni cosa, prima con lo studio e la disciplina di ciò che voglio raccontare e che deve portarmi alla sintesi estrema dell’immagine, poi con la costruzione minuziosa del set in tutte le sue parti. Di solito ho incisa in mente la foto che sto per scattare. Ma l’esperienza mi ha insegnato che spesso l’imprevisto, lo sbaglio, la rottura sono un valore. Non ho la pretesa del controllo totale, lavorare sul limite o il contrattempo è una grande lezione. Una volta in un set di una foto una ragazza doveva tenere in mano i fili di alcuni palloncini neri. Era agosto, una giornata bellissima e placida. A un certo punto si alza un vento ed è talmente inaspettato che le sfuggono i palloncini di mano: restiamo senza una cosa essenziale. Li ho visti volare via come il cavaliere del secchio nel racconto di Kafka. Sono stata costretta a cambiare, a riscrivere quella storia lì in quel momento - a improvvisare come fossi su un palcoscenico - e ne è nata una delle mie foto più conosciute. Questo può capitare sul set e durante la gestazione di un lavoro… c’è sempre la possibilità di un colpo di vento che squaderni ogni cosa.

C come consapevolezza, M come memoria, P come persona... che significato hanno queste parole nella tua ricerca artistica?

Sono parole essenziali, come elementi di una formula magica. Le storie sono fatte di persone e memoria, sono ciò che di prezioso va preservato dall’oblìo, ciò che ci rende speciali e indispensabili. La consapevolezza è la colla, la calce che tiene insieme le cose. La consapevolezza è la scelta, l’atto che salva con amore.

Quali delle tue opere ci proporresti come punti di snodo fondamentali nel tuo percorso?

Per me ogni opera è una conquista. È uno strappo, uno scatto in avanti. Ma ci sono lavori che hanno segnato vere e proprie svolte, che per qualche motivo, che sovente sfugge all’artista stesso, sono più potenti, hanno una capacità di imporsi e creare un immaginario. Mi rendo conto che alcune opere hanno una capacità di attrazione, sono un magnete. C’è per esempio una foto di un lavoro di una decina di anni fa, Le mie parole sono balocchi da C’era un volto, che è come un incantesimo che cattura gli occhi. Dal mio punto di vista è il lavoro in cui ho capito quanto il mistero e la sospensione siano per me qualcosa di essenziale. Poi c’è la serie Le cose che vedi dove ho raccontato di favole, sogni, amore e memoria riuscendo a creare immagini che somigliano a segreti. E fondamentali sono stati lavori in cui ho interagito con gli altri come il work in progress Ti rubo gli occhi o il recente I need protection. Il primo lavoro è composto di diari che le persone scrivono per un mese per poi riconsegnarli: sulla prima pagina di ognuno c’è una foto scelta da me e quello è il loro punto di partenza per raccontare una storia: ne nascono come atlanti esistenziali, come mappe dell’anima. Per il secondo lavoro ho invece chiesto a ventuno persone di scrivermi di una loro paura impronunciabile o di un desiderio profondo e nascosto: ho costruito degli scrigni di vetro e ferro che proteggono le loro parole alleggerendole di quel peso e ho accompagnato ogni frase con una foto che in un certo senso evoca, accarezza e pronuncia sussurrandolo, questo loro segreto. Io custodisco, mi prendo cura di queste paure e desideri, li conservo in questo archivio sentimentale.

Cosa c’è di importante per te che vuoi che le tue opere dicano a te stessa e a chi le osserva? Quali sensazioni prova il tuo corpo quando hai la consapevolezza di aver raggiunto questa meta?

Vorrei che le mie opere portassero un’emozione potente, che spingessero verso l’interno-dentro. Mi piacerebbe che raccontassero qualcosa che segna e che sposta. Vorrei che spingessero a non rintanarsi, a mostrare il cuore, a correre il rischio del sentimento. Vorrei fossero una possibilità di rendere medaglie le ferite, ricami i segni dolorosi. Quando questo mi riesce provo una commozione profonda.

Come sai che sei un’artista?

Perché non potrei essere altrimenti. Perché non c’è un’altra via.

Quali sono le motivazioni, le spinte, i condizionamenti, i limiti e le conseguenze di essere un artista oggi?

I condizionamenti e i limiti sono tantissimi, siamo trattati spesso come alieni se non come reietti, come se ciò che facciamo non avesse valore alcuno ma al più fosse un gioco, un vezzo. Il talento non è più un valore così come non lo sono la cultura e la conoscenza. I musei chiudono, le scuole sono ridotte in condizioni disastrose. Per un artista si tratta di una lotta costante, di una guerra a una certa barbarie. C’è tanto bisogno dell’arte, della letteratura, di ogni meraviglia che cresce l’anima, la ingentilisce e forgia nella bellezza. C’è bisogno di immaginari e possibilità, le visioni si sono ristrette fino a diventare opache e superficiali. Piatte. Vedo il mondo scolorire e perdere consistenza e non mi piace per niente. Conosco artisti insegnanti, traduttori scrittori musicisti che per me sono eroi: fanno con coerenza e capacità il loro lavoro tra mille difficoltà e ostacoli ma lo fanno credendo che serva, che non sia un orpello o uno svago, che gli uomini privati di tutto questo sarebbero ridotti a ben poca e triste cosa.

A che cosa può aprirsi il mondo attraverso l’arte?

Alla consapevolezza, alla cura, all’attenzione. L’arte, la bellezza in senso intero, possono essere un antidoto e una bussola, uno scandaglio per trovare risposte diverse e per riportarci alla nostra essenza e specialità.

Quanto può essere utile oggi a un artista esporre in un determinato contesto? E quanto può essere utile il loro passaggio al contesto che li accoglie?

Sicuramente è importante, un contesto appropriato con una grande visibilità permette all’artista una crescita e un incontro con gli altri a un livello più esteso. Il contesto che ospita un lavoro serio strutturato autentico può solo trarne vantaggio a patto che però si creino le condizioni e l’educazione per la fruibilità dello stesso. C’è bisogno di riavvicinare le persone ai luoghi che accolgono l’arte, le grandi mostre a effetto o le nostre mordi e fuggi portano certo pochi risultati da un punto di vista sociale. Una mostra funziona se tocca le persone, se le spinge a un’indagine, se innesca qualche effetto - consapevole o meno - che le mette in discussione.

Che progetti hai in cantiere?

Workshop di fotografia narrativa, scambio con le persone prima di tutto. Poi ho un nuovo progetto in testa, sarà in bianco e nero e probabilmente avrà la forma di un’installazione, ma ancora è solo un sentimento. Ho tre personali da qui a giugno e vari progetti sparsi per l’Italia… insomma cose non mancano ma vorrei anche dedicarmi alla scrittura perché è il mio modo di trattenere il respiro nelle apnee e mi aiuta a dare un nome esatto a ciò che preme contro il cuore.

Dai la risposta alla domanda che volevi io ti facessi e che non ti ho fatto...

Quanto contano gli altri nella tua vita e nella tua arte? Non sarei quello che sono senza gli splendidi incontri, le passioni, gli innamoramenti. Senza mio padre, la mia compagna, i miei amici più cari. Senza tutte le persone pazze che posano per me o che mi raccontano qualcosa di loro. Senza questi piccoli miracoli pagani, senza questi prodigi celesti. Ho intorno a me persone incredibili con cui divido vittorie e sconfitte, ostinate quanto me nel credere che l’arte sia indispensabile. Senza la condivisione tutto questo non avrebbe senso. Gli altri mi danno forza, mi aiutano a sorreggere lo scudo. Senza questo amore sarebbe solo cenere spenta, invece tutto è infuocato e incandescente.

Alessandra Baldoni è nata nel 1976 a Perugia dove vive e lavora.
www.alessandrabaldoni.it