In tema di letteratura antica i capricci del caso sono, lo sappiamo, responsabili di certi “buchi” culturali che limitano irrimediabilmente la nostra visione contemporanea. Ciò vale, naturalmente, quanto più andiamo indietro nel tempo, e tanto più per la storia di un buon numero di libri della classicità, sottomessi alla furia degli eventi storici, agli incendi delle biblioteche, a volontarie o involontarie mietiture. Così ci ritroviamo a piangere le sorti di autori che sappiamo essere stati fondamentali in campi specifici del sapere, di opere che sono state saccheggiate da compilatori successivi ma che non possiamo più consultare in originale. Ma ecco che proprio quei “saccheggi” diventano per i filologi l’opportunità di intraprendere un raffinato lavoro di ricostruzione della fonte originale: impresa che mette in campo abilità e peripezie investigative degne di un detective.

Tale destino è toccato anche ad uno dei grandi viaggiatori e geografi dell’antichità greca: Artemidoro di Efeso, cui il destino ha riservato un’insolita visibilità presso i moderni. Una visibilità fondata non già sui dati e sulle certezze del contributo dato alla sua disciplina, quanto piuttosto sulle incertezze, sui punti oscuri, sui misteri. E se la querelle sulla ricostruzione della sua opera è rimasta soprattutto circoscritta ai frequentatori delle riviste specializzate, un intrigante recentissimo mistero che ha coinvolto la sua figura ne ha amplificato la fama fuori dalla ristretta cerchia dei cultori dell’antichità. Ma procediamo per ordine.

Artemidoro, che era originario di Efeso, in Asia Minore, e visse nel II secolo a. C., aveva scritto un’opera di argomento geografico probabilmente intitolata Geographoùmena (Scritti di Geografia), in 11 libri. Questo trattato, per noi perduto, è tuttavia ampiamente citato da numerosi autori greci e latini successivi. Tra questi Strabone, anch’egli autore di una Geografia, che cita Artemidoro come una delle proprie fonti più autorevoli: per la verità, sappiamo che in più punti della sua opera ha a tutti gli effetti “trasferito” informazioni dagli scritti di questo ai propri. Potremmo efficacemente dire, con le parole dello storico e filologo Luciano Canfora, che l’opera di Artemidoro è finita “metabolizzata” in quella di Strabone. (1) E per continuare con le citazioni, ci potremmo appellare all’autorevolezza del grande storico dell’antichità Wilamowitz nel constatare che, se l’opera di Artemidoro si fosse salvata, terremmo oggi in ben minore considerazione Strabone. Wilamowitz condiva di sarcasmo le sue considerazioni sul contributo di Strabone, che giudicava un buon compilatore ma nemmeno tanto furbo nel mascherare i saccheggi fatti. Perfino Plinio il Vecchio non aveva ritenuto necessario riferirsi a lui citando le proprie fonti geografiche, rimandando direttamente all’autorevolezza di Artemidoro. Alle soglie del V secolo il meno noto geografo Marciano di Eraclea del lavoro di Artemidoro aveva addirittura ritenuto utile ricavare un’epitome.

Poiché assai esigui sono i riferimenti alla biografia di Artemidoro, la fatica dei filologi si è negli anni (o per meglio dire nei secoli) concentrata su un paziente lavoro di scorporo e analisi delle citazioni tratte dalle fonti indirette riferite all’opera di questo geografo, al fine di ricomporne come in un puzzle una plausibile identità. E già sarebbe di per sé appassionante seguire il filo logico delle fasi di questo lavoro affascinante: il pane quotidiano, per la verità, del filologo e dello storico, ma un’avventura complicata e imprevedibile per l’uomo comune.

La Geografia di Artemidoro si proponeva come un viaggio attraverso il mondo allora conosciuto, che potremmo riassumere nelle tre grandi aree dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia. Più verosimilmente, però, l’impresa si concentrava sull’esplorazione delle coste del Mediterraneo, il Mare Interno, quella parte meno ignota del mondo e tuttavia ricchissima di diversità, per poi avventurarsi oltre quella porta “dimensionale” che erano le Colonne d’Ercole, presso Gades (Cadice). Tappa fondamentale: quello che Artemidoro stesso chiama Promontorio Sacro, probabilmente l’attuale Capo San Vincenzo, all’estremità sud occidentale del Portogallo, testa di ponte verso lo sconfinato e aperto spazio Atlantico e la perigliosa esplorazione delle coste iberiche e africane.

Il geografo antico, che non era uno scienziato di professione, bensì un curioso indagatore della realtà, dotato di mezzi, materiali e intellettuali, tali da essere devoluti alla causa della conoscenza, intendeva la sua scienza in termini ben più ampi di una mera raccolta tecnica di dati, misurazioni, distanze. Il viaggio era a quei tempi un’esperienza a tutto tondo, che esprimeva la profonda intensità di ciò che ha per certo solo il punto di partenza. Il resto era incognita e reale scoperta. L’esposizione di dettagli e l’interesse etnografico per usi, costumi, culti religiosi, leggende, curiosità sulle genti che abitavano l’ecumene, era parte fondamentale del resoconto geografico, così come l’indagine naturalistica. La notazione delle distanze tra località entrava poi nel merito degli aspetti esperienziali del viaggio stesso, documentati come in una sorta di diario di bordo, ad uso di futuri viaggiatori o dei compilatori di mappe. Artemidoro per primo misurò tali distanze utilizzando lo stadio come misura di riferimento, invece delle più generiche giornate di viaggio a cui si erano riferiti i suoi precursori.

Gli esperti che hanno sottoposto ad attenta analisi i frammenti dell’opera di questo geografo hanno scorto nel suo resoconto la presenza di una formazione letteraria che certamente aveva radici in una ricca biblioteca tematica. D’altronde, nella mentalità greca, ogni scritto letterario di tipo tecnico specialistico non poteva mai prescindere dal confronto con i predecessori. Si è ipotizzato che il viaggio potesse risalire agli anni della giovinezza dell’autore; forse si svolse in più tempi, e solo in seguito, in età matura, venne compilata la relazione scritta, resa degna di valenza letteraria attraverso le suggestioni composite provenienti dall’incontro con gli scritti di altri illustri viaggiatori che si erano cimentati sulle stesse tratte.

Inoltre, è assai probabile che Artemidoro abbia verificato autopticamente soltanto una parte della geografia da lui descritta. E’ ciò che si constata osservando che, più il racconto si allontana dai perimetri rassicuranti della Ionia, sua terra patria, e poi da quelli della Grecia e in generale del Mediterraneo (vero centro tematico della sua opera), più la narrazione assume la vaghezza del romanzo d’avventure, invece che del resoconto scientifico, lasciando ampio spazio alla dimensione del meraviglioso, condito dei molti tòpoi della narrazione fantastica. Così avviene per la descrizione della Trogloditica (zona costiera antistante la penisola arabica), popolata da animali fantasiosi e bizzarri, così per le pagine dedicate all’isola di Taprobane (lo Sri Lanka), o per l’Etiopia, dove Artemidoro si sofferma sull’esposizione di mirabilia, notizie straordinarie, quali l’improbabile longevità degli autoctoni, che conserverebbero un fisico vigoroso per tutta la loro lunghissima esistenza. La notizia risulta essere la manipolazione di un’affermazione già circolata sotto il nome di altri autori, che il gioco creativo dei rimandi e delle citazioni avrebbe in seguito assegnato all’autorità del nostro geografo. Ma questa è solo una delle occasioni interpretative su cui gli storici e i filologi si sono soffermati, che ci permette di stabilire che il viaggio di Artemidoro fu un itinerario composito: in parte reale, in parte letterario. Un patchwork forse dettato da una ricerca estetica di completezza che non poteva avere riscontro nell’esperienza reale dell’autore, ma che lasciava ampli margini di plausibilità all’orizzonte geografico che si estendeva oltre le Colonne d’Ercole, oltre l’Egitto, l’Etiopia o l’isola quasi mitica di Taprobane.

Bisogna ricordare che il complicato intreccio delle citazioni tra autori, delle confutazioni, la polemica e la contrapposizione, i ribaltamenti di prospettive costituivano, nel pensiero dei greci e dei latini, il sugo della compilazione letteraria, a cui si aggiungeva l’orgogliosa rivendicazione nell’aver aggiunto qualcosa di unico e personale per differenziare la propria esperienza dalle precedenti. La visione diretta di un luogo poteva allora diventare la scusa per smentire le affermazioni di un’altra fonte, per mettere in cattiva luce la veridicità delle notizie fornite dalla concorrenza, per dare sfoggio di maggiore puntiglio di osservazione.
Ma se Artemidoro si intratteneva in polemiche con Eforo, Ecateo, Eratostene, o altri geografi, è importante sottolineare come lui stesso fu oggetto di altrettante disquisizioni; spesso critiche pungenti, o malevole; ma è soprattutto grazie ad esse se siamo in grado di aggiungere qualche pezzo in più al nostro puzzle.

Tutto questo riguarda però il dibattito tra gli antichi: quello tra i geografi e gli storici più o meno contemporanei all’autore: i colleghi, insomma. Querelle poi rimbalzata ai loro eredi di oggi, che l’hanno ripresa e analizzata, e ancora dibattono cercando di mettere ordine tra i brandelli di ciò che la storia ha concesso in eredità. E tuttavia Artemidoro sarebbe rimasto nell’ombra rispetto a ciò che riesce ad attirare la curiosità del grande pubblico, se non si fosse trovato recentemente al centro di un irresistibile intrigo archeologico. Un mistero degno della fantasia di un giallista: se non fosse che è tutto vero. Al centro sta il cosiddetto Papiro di Artemidoro, un affascinante reperto che ha dato nuova visibilità al nostro esploratore e alla sua opera. Ma questa è un’altra storia, per la quale ci daremo un nuovo appuntamento al 5 di luglio.

(1) Luciano Canfora, Il viaggio di Artemidoro: vita e avventure di un grande esploratore dell’antichità, Rizzoli 2010.