Dal documento di valutazione dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (European Environment Agency, EEA) Climate change, impacts and vulnerability in Europe 2012 - An indicator-based report si evince come l’Italia, e in generale l’area del Mediterraneo, sia la regione d’Europa dove nel corso dei prossimi decenni si manifesteranno i principali effetti dei cambiamenti climatici che stanno affliggendo il globo.

A questo scopo e per combattere il riscaldamento globale, alla Conferenza delle parti di Kyoto (la COP3) del 1997, entrata in vigore solo nel 2005, è stato creato un Protocollo che impegna i Paesi sottoscrittori a ridurre le emissioni di CO2, principale causa dell’effetto serra. L’incontro di Lima della scorsa settimana, preludio alla firma di un ulteriore protocollo (destinato a sostituire quello di Kyoto) per i 195 Paesi che si riuniranno a Parigi nel 2015, è stato definito debole dato che le azioni per la limitazione delle emissioni dovevano essere più incisive: il progetto è di limitare il riscaldamento globale a 2 gradi.

Appare evidente che nonostante le misure sottoscritte, ancorché mantenute, non si riuscirà a evitare un violento impatto sul clima che comprenderà anche fenomeni meteorologici avversi e improvvisi. A questo si aggiungono i dissesti idrogeologici che affliggono la nostra penisola, provocando frane e inondazioni, oltre a fenomeni assolutamente disastrosi come terremoti ed eruzioni vulcaniche. Da anni ormai si cerca di far fronte a queste problematiche tramite studi, ricerche e centri di gestione delle emergenze: in particolare a cura della Protezione Civile, con il Sistema di allertamento nazionale, l’INGV e l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). Si pensi al terremoto dell’Aquila del 2009, al più recente sisma che ha colpito l’Emilia Romagna del 2012 e all’alluvione di Genova di quest’anno: grazie all’azione tempestiva dei soccorsi si è cercato di limitare i danni a persone e cose, ove possibile, e in ogni caso si è proceduto alla ricognizione immediata delle zone colpite per facilitare le operazioni di messa in sicurezza e ricostruzione.

Se il problema è grave in relazione all’incolumità delle persone, appare cionondimeno importante per quanto concerne tutti quei beni che costituiscono le risorse non rinnovabili del nostro Paese, e che ne rappresentano l’eredità storica materiale. Mi riferisco agli edifici di interesse storico-artistico, aree archeologiche e oggetti d’arte antichi e moderni conservati nei musei. Nell’ultima riunione UNESCO svolta a Doha nel giugno di quest’anno, l’Italia risulta essere la nazione che detiene il maggior numero di siti (50) inclusi nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità. Questo dato insieme, alle testimonianze storico-artistiche e archeologiche minori, testimonia come il nostro Paese abbia una delle più alte concentrazione di beni culturali materiali al mondo.

Numerosi sono i progetti di ricerca, come ad esempio il progetto Copernicus, che tramite l’utilizzo di immagini provenienti da satelliti, permetterà (in parte è già operativo) di tenere sotto controllo l’ambiente e i beni culturali presenti sul nostro territorio e di intervenire, quindi, in maniera più rapida nella gestione delle emergenze. Interessante è anche il progetto SINAPSIS che, attraverso il monitoraggio in tempo reale del patrimonio culturale materiale tramite sensori in loco e dirigibili, ha affrontato in prima istanza le problematiche connesse a frane e inondazioni. E ancora il progetto SMooHS (Smart Monitoring of Historic Structures), che ha realizzato un monitoraggio intelligente dei principali parametri ambientali connessi al degrado delle strutture, situate in diverse fasce climatiche.

Mentre si cerca di mitigare l’effetto degli avvenimenti rovinosi improvvisi sinora trattati, gestendone l’emergenza in genere a posteriori e cercando di allertare in tempo le aree in cui è probabile che si verifichi l’evento stesso, una problematica forse più importante è rappresentata dal cambiamento climatico e dall’inquinamento atmosferico. Questi infatti, pur essendo localizzati in particolari aree, sono estesi a macchia di leopardo in tutto il territorio nazionale. Inoltre sono, in un certo qual modo, silenti perché non destano il clamore di un evento come un terremoto o un’inondazione, ma causano altresì gravi danni. Infatti, a causa dell’innalzamento dei cambiamenti climatici avvenuti nei decenni passati e previsti ancora per quelli a venire, si stanno aggravando in maniera sensibile i danni alle strutture architettoniche esposte agli agenti atmosferici (in particolare l’acqua, in tutte le sue forme, ma anche il vento) e persino agli oggetti conservati all’interno dei musei.

Quest’ultima problematica si riscontra, in modo particolare, negli edifici museali che non hanno la possibilità di regolare il microclima interno con sistemi di climatizzazione (HVAC). L’aumento delle temperature, unitamente all’azione dell’acqua, favorisce i meccanismi di attivazione di alcuni tipi di degrado, non solamente di tipo biologico. Com’è noto, infatti, i musei ospitano collezioni di diverso tipo: dall’archeologico al cartaceo, passando per i dipinti e altro ancora. Tali artefatti sono interessati da meccanismi di degrado non ancora ben conosciuti. Anche qui non mancano studi e ricerche come il progetto MEMORI, che ha permesso la realizzazione di un dosimetro per la misurazione di alcuni agenti inquinanti all’interno e all’esterno dei musei. O ancora il più recente progetto esplorativo ESTIMA, che vorrebbe analizzare le correlazioni esistenti fra i diversi agenti che concorrono al degrado di un’opera d’arte.

L’intento, tramite sistemi di intelligenza artificiale, è quello di suggerire possibili soluzioni per la conservazione preventiva del Bene, da attuare anche grazie a sistemi di home automation. Infatti nonostante siano numerose le problematiche da affrontare nella gestione del rischio, in relazione ai cambiamenti climatici e all’inquinamento ambientale, il documento per la consultazione pubblica del Ministero per l’Ambiente del 2013, Elementi per una Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici, specifica che: “In termini di priorità si sottolinea l’importanza degli interventi di manutenzione del patrimonio culturale rispetto agli interventi di restauro…”. Per agevolare questa direttiva, oltre ad un necessario monitoraggio continuo, è necessario ragionare in termini di conservazione preventiva individuando le cause del degrado dei materiali, prima ancora che si manifestino effetti irreversibili.

Lo studio delle damage functions (meccanismi di degrado) è quindi ai primi posti nella strategia italiana ed europea, che mira a prevenire la malattia piuttosto che a curarla, con un conseguente beneficio in termini di tempi, costi e delle condizioni di conservazione del bene, dato che il restauro è di per se stesso una forma di degrado, pur se spesso necessaria.